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Le favole sonore di Hilary Hahn e Stephan Denève a Santa Cecilia

di Matteo Macinanti - 19 Novembre 2021

Hilary Hahn si è esibita ieri a Santa Cecilia. E questa è una notizia importante per gli indecisi che non sanno se partecipare all’appuntamento settimanale dell’orchestra di Roma. Il concerto infatti verrà replicato questa sera e quella dopo ancora. Ma procediamo un passo alla volta.

L’evento era tra quelli che il sottoscritto aveva inserito a inizio anno nel novero degli imperdibili: leggere l’accoppiata Hilary HahnStephan Denève e in programma Ma mère l’Oye di Ravel, il primo concerto per violino di Prokofiev e la Quarta di Tchaikovsky non poteva sortire effetto diverso.

Ad aprire le danze la suite di Ravel: è nota la storia della genesi di questa composizione, cinque “fiabe sonore” originariamente scritte per pianoforte a quattro mani e pensate per Jean e Mimie, figli della coppia Ida e Ciba Godebski, amici stretti del compositore. L’idea originale del 1908 fu poi sottoposta a diverse elaborazioni fino a diventare un vero e proprio balletto. Celebre è anche la recensione del critico Reynaldo Hahn che da un lato evidenziò la tendenza a “ottenere attraverso la complessità effetti infantili di semplicità”, per poi ammettere che nella musica di Ravel non si poteva non cogliere “la più artificiale assenza di artificio”. Insomma, le “immagini sonore” di Ma mère l’Oye rientrano a pieno titolo nel gusto per la sfera infantile che caratterizza molte opere del compositore di Ciboure.

Tra le mani di Denève, Mamma Oca dà il meglio di sé e cristallina è la capacità dell’Orchestra ceciliana di assecondare la ricerca degli effetti di cui sopra. I pianissimi sono impercettibili e la partitura sprizza di sfumature coloristiche ad ogni battuta. Si coglie subito un aspetto che tornerà a più riprese durante il concerto di ieri sera: i luoghi della musica che Denève preferisce sono gli anfratti riposti e gli anditi ombreggiati. Sia chiaro, non che le grandi aperture luminose a pieno organico che pullulano nel programma della serata siano di scarso rilievo. Ma anche i fortissimo qui e là non sono mai spinti al parossismo e, se da un lato il rischio è di avere a volte delle cadute di tensione e dei buchi di trama, dall’altro si viene completamente ripagati dallo studio minuzioso dei dettagli e delle sfumature che nell’orchestrazione di Ravel abbondano in ogni dove.

Questa capacità di Denève di essere un abilissimo tessitore di suoni ritorna in modo straordinariamente efficace all’inizio del Concerto di Prokofiev con la bruma soffusa che apre il primo movimento. Su questa materia sonora indistinta Hilary Hahn innesta fin da subito un suono chiaro e deciso e si presenta con un’idea altrettanto spigliata del primo tema, un canto nostalgico che torna di tanto in tanto lungo il concerto. È vero, Prokofiev in partitura scrive “sognando”, ma la violinista decide di non dare adito a facili sentimentalismi da commediola americana, smarcando le situazioni di appiattimento e proseguendo spedita verso il touchdown. Hahn vive la sua esibizione come un gioco e l’abito lungo a fiori cerca senza successo di ostacolare il movimento della violinista che in certi momenti per poco non si mette a ballare. L’aspetto danzante del primo concerto per violino di Prokofiev è infatti una componente ineludibile, così come la forte carica popolaresca che appare in modo prepotente nella parte centrale del primo movimento. È qui, come anche nel movimento successivo, che il violino di Hilary Hahn si fa possedere dalla furia affrontando gli staccati, i pizzicati e gli spiccati in quel modo aggressivo ma allo stesso tempo divertito che tanto si addice a questa perla del repertorio concertistico; uno dei pochi pezzi in cui diventa piacevole sentire suoni sporchi e scorretti. È proprio la vicinanza alla musica zigana ad animare queste pagine e i colpi d’arco della Hahn danno libero sfogo a questa componente liberando tutta la carica potenziale del brano dei primi due movimenti.

Ma il primo concerto di Prokofiev non è solo questo. Sono tanti i momenti lirici e sognanti che si susseguono nei tre movimenti. La violinista ha un controllo tecnico rasente alla perfezione e gli infidi trilli che popolano lo spartito vengono affrontati con una padronanza impeccabile fino alla fine. Nell’ingranaggio da orologio svizzero con cui si apre il terzo movimento l’orchestra parte purtroppo in modo un po’ confuso ma la bacchetta di Denève si riprende subito, dando inizio all’ultima parte, la più onirica e astratta, dove i lunghissimi trilli portano il brano a una conclusione altrettanto favolistica, dominata da scale cromatiche e glissati dell’arpa. Hilary Hahn porta così a termine un’esibizione straordinaria a cui seguono due bis bachiani (la Sarabanda dalla Seconda Partita e la Giga dalla Terza Partita) di altissimo livello in cui si avverte ancora l’energia accumulata durante il concerto.

Chiudono il programma i quattro movimenti della Quarta Sinfonia di Tchaikovsky che l’orchestra affronta senza perdere un colpo. Come si accennava sopra, la sinfonia viene letta da Denève alla luce di un’interpretazione non eccessiva nei toni magniloquenti e studiata nei minimi dettagli tanto nelle calibrazioni delle grandi masse orchestrali quanto nell’incastro delle sezioni ridotte. Le prime parti si destreggiano con facilità – peccato solo per una nota incrinata del primo oboe – in una sinfonia che se da un lato non è difficile da ascoltare in concerto, dall’altro si manifesta ogni volta in tutto il suo splendore. Il pizzicato ostinato del terzo movimento è una gioia per l’orecchio, così come la chiusura in pianissimo del secondo e i momenti a pieno organico del movimento finale.

Si chiude così un altro incredibile appuntamento dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia che, memori anche del concerto con Viotti e Gibboni, sta affrontando la ripresa in un modo impeccabile.

© ph. Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Matteo Macinanti

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