L’Assoluto svelato a Siena
di Alessandro Tommasi - 9 Agosto 2020
Il Tour della Ripartenza.
Terza tappa: Accademia Chigiana di Siena, fine del viaggio.
Il 2 luglio abbiamo ospitato presso il Circolo delle Quinte una puntata dedicata alla ripartenza dell’estate musicale italiana. Alberto Triola, Barbara Minghetti e Nicola Sani hanno ripercorso la strada che li ha condotti dal crollo delle programmazioni alla scelta di ricominciare con nuove energie e nuovi progetti. Per vivere in prima persona l’esperienza dell’Italia post pandemica, dal 21 luglio ho intrapreso un tour che mi ha portato tra Festival della Valle d’Itria a Martina Franca, Macerata Opera Festival e Accademia Chigiana di Siena a toccare con mano la musica che ripopola l’Italia. Questa è la terza e ultima tappa del viaggio.
Dopo una settimana tra Martina Franca e Macerata approdo a Siena il 27 luglio, con un viaggio in treno che come al solito mi fa ponderare su quanto sia facile attraversare in treno l’Italia per lungo e quanto sia curiosamente difficile farlo per largo. E che Siena si raggiunge con più agio e praticità a dorso di mulo, per una full immersion nella natura e prepararsi al concerto serale. Sì, perché la sera stessa del viaggio l’Accademia Chigiana vedeva il debutto di un dream trio: Alessandro Carbonare al clarinetto, Antonio Meneses al violoncello e Lilya Zilberstein al pianoforte. Tempo di arrivare, lasciare zaino e valigia, cambiarsi, mangiare un boccone e già si fugge verso la Chiesa di Sant’Agostino, che ospita molti dei concerti in questo momento pandemico per permettere a quante più persone di entrare. E per questo concerto di persone ce n’erano moltissime, a popolare ad un metro di distanza e con mascherina d’ordinanza le sedie nella chiesa sconsacrata. E d’altronde non solo i musicisti coinvolti attiravano il pubblico nelle calde serate di luglio, in cui il tramonto tinge di rosa la bianca pietra di chiese e monumenti, ma anche il programma: in apertura le Variazioni di Beethoven per violoncello e pianoforte sul tema “Bei Männern, welche Liebe fühlen” dal Flauto Magico di Mozart, subito seguito da un altro lavoro della prima maturità beethoveniana, il Trio in si bemolle op. 11 per clarinetto, violoncello e pianoforte. In seconda parte ci si addentrava nell’Ottocento con le Tre Romanze op. 94 di Schumann nella versione per clarinetto e infine il Trio in la minore op. 114 di Brahms. A dividere le due parti, come fulcro di una perfetta bilancia, la prima esecuzione di Senza vento di Salvatore Sciarrino per violoncello solo, commissionato dall’Accademia Chigiana e dedicato ad Antonio Meneses.
Chi si aspettava un concerto di quelli da grandi occasioni, beh, non è rimasto deluso. Tra tutti i concerti di questa ripresa estiva, i tre musicisti, tutti e tre alla loro prima esperienza live post pandemica, mi hanno regalato quello più forte e intenso, compiendo quel miracolo cameristico proprio dei festival, in cui il livello degli interpreti non solo si somma, ma si moltiplica cavalcando l’entusiasmo e la consapevolezza che quel momento, quell’esecuzione sono unici e irripetibili. Non importa che poi magari quegli stessi musicisti si ritrovino l’anno successivo a suonare ancora insieme, non sarà comunque la stessa cosa, perché l’atmosfera del festival è anche questo, è un sottrarsi alla routine, abbandonandone tanto le comodità quanto i limiti. Questo è esattamente ciò che è successo il 27 luglio. Fin dalle Variazioni beethoveniane si è percepita con chiarezza l’affinità tra Zilberstein e Meneses, nel suono compatto e nell’eloquio sobrio e drammaturgicamente efficace. Ed è emersa l’abilità veramente prodigiosa della pianista russa di non rinunciare al fortissimo più declamato, pur senza mai coprire gli altri strumenti (in questo chiaramente aiutata dalla lunga corsa del suono tanto di Carbonare che di Meneses). È un sottile gioco di polso, un rimuovere la violenza dell’attacco per trovare una sonorità più ampia, su cui lasciar inserire la voce del violoncello o del clarinetto. L’effetto era di una perfetta fusione con il pianoforte, senza però rinunciare alla freschezza e alla brillantezza che domina tanto le Variazioni quanto il Trio, con il suo temibile finale.
Il cambio di luce su Sciarrino è stato rapido ed irruento, ma se temevo che l’improvviso linguaggio di soffi e sospiri potesse apparire fuori luogo, sono stato subito smentito. Gli echi evocati da Sciarrino in questo meraviglioso poema violoncellistico si sposavano alla perfezione con le ampie volte della chiesa e Meneses si è dimostrato il musicista adatto alle difficili richieste tecniche del brano, spesso chiamato a giocare su un rifrangersi di suoni acuti anche sotto al ponticello, ma anche ad evidenziarne la struttura formale e i richiami tra sezioni. Queste si susseguono con una certa efficacia e senza perdersi in eccessive contemplazioni, salvo forse verso la fine della sezione centrale e in un alcuni passaggi della ripresa, mantenendo il discorso limpido anche nei fruscii più misteriosi. Il risultato è un brano splendido e di raro equilibrio, che va a colmare una lacuna nell’opera di Salvatore Sciarrino, il quale dai Due Studi del ’74 non scriveva nulla per violoncello solo (fatta salva la trascrizione dell’84 di Ai limiti della notte). Non dubito che Senza Vento troverà piuttosto rapidamente il suo spazio nei programmi per violoncello solo.
Con le Romanze di Schumann siamo tornati a tuffarci invece nell’Ottocento più puro. Siamo abituati a sentire le Tre Romanze op. 94 con l’oboe, ma devo ammettere che con il clarinetto (e in special modo con il clarinetto di Alessandro Carbonare) i tre brani funzionano altrettanto bene, se non addirittura meglio. Ciò che si perde infatti con il timbro penetrante e malinconico dell’oboe, si guadagna con l’agilità, l’espansività e la flessibilità del clarinetto, che sotto le mani di Carbonare riesce a trovare veramente il giusto colore per gli infiniti ed anche contraddittori slanci schumanniani. Dove però si è realizzato quel senso di sublime e di assoluto è stato nell’ultima portata di questo sostanzioso pasto: il Trio op. 114 di Brahms. E non solo perché il Trio sia di per sé uno dei massimi capolavori di Brahms, né perché Carbonare, Meneses e Zilberstein abbiano suonato splendidamente, ma per un punto preciso nel primo movimento, nel pieno della misteriosa transizione tra sviluppo e ripresa, che dopo l’intensificarsi delle rapide scale ascendenti e discendenti il pianoforte infine afferma inconfondibilmente. Proprio lì, mentre sulle sincopi pianistiche clarinetto e violoncello si affannano con frammenti di quelle medesime scale, che poi il pianoforte riprende e, finalmente!, unisce in una compiuta, rapida scala discendente e poi ascendente, la quale a sua volta conduce al fortissimo di clarinetto e violoncello, con la risposta perentoria del pianoforte. Ecco, lì qualcosa si è compiuto, i pianeti si sono allineati, dall’insieme dei tre musicisti è emerso qualcosa di oltre, un’espressione di intensa angoscia e al contempo rabbiosa malinconia che è difficile descrivere a parole se non come uno squarcio, un momento che diventa assoluto, l’intuizione di un qualcosa d’altro. Come potrà notare il gentile lettore, mi tocca ricorrere a vaghe perifrasi pseudo poetiche per cercare di rendere l’idea di cosa si sia compiuto in quei pochi secondi. E potrei poi parlare di tutti gli altri, magnifici movimenti, della cullante dolcezza dell’Adagio (a mio avviso un po’ troppo rapido), della cordialità espressiva dell’Andantino grazioso (con quella danzante ed esuberante sezione centrale), o della determinazione taurina che anima l’Allegro conclusivo (con i suoi capricciosi cambi d’umore), ma non ne farei che una descrizione non all’altezza del magnifico Trio che Alessandro Carbonare, Antonio Meneses e Lilya Zilberstein ci hanno regalato.
Il giorno successivo a questo splendido concerto è stato l’occasione di cogliere un po’ la vita della Chigiana durante il Coronavirus. Le uniche lezioni cui mi era consentito entrare erano quelle di Daniele Gatti con gli archi dell’Orchestra Giovanile Italiana e i giovani direttori alle prese con l’Apollon Musagète di Stravinskij (e dunque non me ne sono minimamente lamentato). Gli altri corsi, quando possibile per il docente, si sono tenuti in presenza, ma chiaramente non sono stati ammessi uditori e anche per il Teatro dei Rinnovati il mio svicolare in platea è stato subordinato all’autorizzazione da parte dell’Accademia. Chi non abbia mai assistito alle lezioni di Gatti (quelle con la Concertgebouworkest si possono trovare facilmente su YouTube e sul sito dell’orchestra) non sa quanto affascinanti possano essere: Gatti è un docente ben in equilibrio tra severità e generosità, preciso nelle spiegazioni, ma che al contempo chiede allo studente di sostenere senza timidezza la propria idea, possibilmente corroborata da un adeguato studio della parte e comprensione dell’orchestra. Ovviamente c’è poco da dire, quando lui sale sul podio gli altrimenti un po’ sgangherati archi dell’OGI (d’altronde alle prese con un brano dalle complesse richieste come l’Apollon) improvvisamente sembrano trasformarsi in un’orchestra di professionisti rodata da anni di tournée internazionali e si coglie sia il timore reverenziale che Gatti può incutere, sia la nuda e cruda abilità gestuale che gli consente una totale aderenza da parte della compagine.
Dopo la lezione, il resto della permanenza e di fatto il termine del mio Tour della Ripartenza si è trasformato in una placida visita ad una Siena sempre piena ma insolitamente non ricolma di turisti. Una Siena in cui mi è più volte venuto da pensare che, comprendendo le difficoltà oggettive del momento, ulteriori iniziative si possono pensare per inserire con più forza l’importantissima Accademia Chigiana nell’estate della sua città, magari proseguendo quel percorso di incremento degli spazi in cui portare i musicisti dell’Accademia. Nella speranza che l’impegno della Chigiana nel portare anche quest’anno musica ai livelli che ho provato in qualche modo a trasmettere non cada sordo alle orecchie di chi potrebbe aiutare molto il costante sviluppo di questa storica realtà.