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Kochanovsky a Santa Cecilia

di Valerio Sebastiani - 18 Aprile 2019

un viaggio inedito da Fedele a Stravinskij

Stanislav Kochanovsky, promettente e giovane direttore russo, ha retto la bacchetta di fronte all’Orchestra di Santa Cecilia in una triade di serate, che difficilmente il pubblico romano potrà dimenticare.

L’occasione era grandiosa. Tre prime in un colpo solo, con ospiti di grande rilievo: dal Lexicon III di Ivan Fedele, al Concerto per pianoforte e orchestra in fa diesis minore op.20 di Alexander Skrjabin interpretato ed eseguito da Benedetto Lupo, passando per Giovanni di Damasco di Sergej Taneev, mai eseguito a Roma dal lontano 1884. Una sorta di viaggio tra le “icone russe” della modernità (fatta ovviamente eccezione per Fedele), che ha trovato il suo apice nel celebre Oiseau de feu di Igor Stravinskij, presentato nella versione ridotta in Suite del 1919.

La composizione di Fedele, è stata commissionata dall’Accademia di Santa Cecilia, nell’ambito del progetto europeo Music up Close Network, va a mettere la parola “fine” a un ciclo di composizioni orchestrali dedicate alle Lezioni americane di Italo Calvino. Questo brano, composto nel 2018, ha aperto la serata, lanciando il pubblico in un paesaggio di sonorità estremamente definite, la cui retorica giungeva definita e mai ambigua. Mi perdonerete il rischio di incorrere in banalità affrettate, se affermo che ci siamo trovati di fronte a una composizione immediatamente comprensibile, ricca di codici percettivi e figure sonore che stabiliscono un contatto diretto con l’ascoltatore. La ragione di tutto ciò la si trova fin dai titoli dei due movimenti (che si riferiscono ad altrettante lezioni di Calvino): Molteplicità e Coerenza. Il primo movimento è strutturato dalle multiple relazioni sonore che si possono disegnare partendo da una idea minima che ora si moltiplica e arricchisce, ora si riduce a brandelli di suoni (che comunque rimangono impressi). La ricchezza di figure, la loro timbrica continuamente cangiante e la presenza magicamente integrata del campionatore hanno concorso a determinare un campo di tensione sonora veramente notevole, ricco di “soggetti drammatici”estremamente godibili dal punto di vista sonoro. Indimenticabile l’episodio centrale, in cui l’intrico di glissandi di tutti gli archi ha creato un vero e proprio ambiente elettrizzato. L’orchestra, sotto le mani di Kochanovsky, si è mossa con grande naturalezza e intensità, offrendo uno spettacolo unico: non è passato infatti inosservato il grande entusiasmo e il coinvolgimento dei professori d’orchestra nel suonare i passaggi più ostici. Omogeneo e fremente, il secondo (e ultimo) movimento si basa su una sola idea musicale, presentata da archi e legni. Un gesto netto e incisivo formato da quattro note (la bemolle – si bemolle – fa – mi), il quale funge da materiale-base che viene dilatata e proiettata su vari registri, in modo da non farle perdere la propria identità.

Chiude il primo tempo Giovanni di Damasco di Sergej Taneev, il cui Adagio iniziale ci trasporta in sonorità lontane anni luce da quelle rarefatte di Lexicon III. Taneev, dotto umanista, maestro di Skrjabin e Rachmaninov e, probabilmente, l’unico compositore russo a scrivere un’opera basata su una tragedia greca, rappresenta un vero unicum nel panorama dell’Ottocento romantico slavo. Taneev fu un conservatore che si rivolse al contrappunto antico, caratterizzando il suo stile sotto il segno della perfezione formale di bachiana memoria, laddove invece l’affrancarsi dal retaggio musicale europeo e la continua ricerca di ispirazione nelle storie e nelle tradizioni musicali del popolo russo erano le parole chiave del Gruppo dei Cinque e di Čajkovskij. Giovanni di Damasco, opera prima di un Taneev già quarantenne, è caratterizzato per l’appunto da un secondo movimento fugato a quattro voci, ricco di controsoggetti strumentali e da grande serenità meditativa, che si contrappone in maniera molto netta all’eloquio solenne dell’Adagio introduttivo. La fuga ricompare, solenne e carica di energia, anche nell’Allegro finale, che ci riporta nel finale al corale iniziale, in una sorta di circolo perfettamente conchiuso.

Il primo movimento Adagio.


La complessità di intreccio delle fughe, i delicati unisoni del coro, nonché la fusione delle parti vocali con i temi, sono stati gestiti in maniera magistrale sia dall’orchestra tutta, che dalla direzione, le quali hanno lavorato egregiamente in sinergia. I momenti di meditazione più serena non sono mai stati soffocati, così come i crescendo non sono mai risultati eccessivi: Kochanovsky ha dotato del diaframma sonoro (soprattutto degli archi) un’ampiezza di respiro veramente notevole, impreziosendo perfino le parti più ricche di controsoggetti, dotati ognuno di grande nitidezza.

Il secondo movimento Allegro – Fuga a Quattro voci


Dopo le ultime sillabe del coro, cantate a cappella in pianissimo, un silenzio imposto con sapienza da Kochanovsky ha concesso alla sala un dignitoso attimo di raccoglimento e meritata contemplazione.

La seconda parte del concerto ha completato la storia a tappe dei compositori russi, offrendo sensazioni discordanti. Il Concerto in fa diesis minore op.20 ha visto come solista Benedetto Lupo, un gioiello del pianismo italiano, che manifesta costantemente grande sapienza interpretativa e una granitica sicurezza nell’affrontare programmi piuttosto vasti. Il Concerto, di per sé,  scritto da Scriabin all’età di 25 anni, è una prova di artigianato equilibrata e proporzionata, in cui spicca una scrittura pianistica molto prestante, che risente fortemente dell’influenza chopiniana e una costruzione quasi maniacale nei rapporti strutturali tra i temi. Rivela, tuttavia, certi elementi germinali dell’eloquio estatico e profondo dello Skrjabin maturo – basti pensare che quando il giovane compositore consegnò la partitura al maestro Rimskij Korsakov, quest’ultimo s’infuriò per certe “ardimentose” armonie, rispedendo indietro il manoscritto zeppo di correzioni. Alla prima ad Odessa, l’11 ottobre 1897, il Concerto fu accolto con favore e Skrjabin lo interpretò molte volte, in seguito. Il fatto che venerdì scorso è stato eseguito per la prima volta dall’Orchestra dell’Accademia, testimonia la difficoltà che questo Concerto ebbe nell’entrare nei repertori fissi dei pianisti. Per due ragioni sostanzialmente: i suoi motivi melodici, pur essendo pregevoli, risultano difficilmente accattivanti; la scrittura pianistica, pur complessa negli arpeggi arzigogolati e velocissimi, non offre molte occasioni ai solisti di esibire quel puro virtuosismo autoreferenziale tipico della forma-Concerto. Lupo e Kochanovsky, evidentemente consci di ciò, hanno costruito un’interpretazione molto rispettosa delle varie ricchezze armoniche e dei difficoltosi incastri sera strumento solista e orchestra, non andando sempre a segno. Lupo dalla sua parte si è fatto strada con delicatezza e controllo, riuscendo a estrinsecare tutta la complessità dei rapporti tra colori e timbri anche nei momenti rapsodici più manieristi.

L’entusiasmo ha comunque serpeggiato, soprattutto quando il maestro Lupo ha regalato alla sala un bis ricercato: il mesto Preludio n.21 op.11 di Skrjabin, la cui simmetria strutturale racchiude una semplicità di espressione quasi disarmante e commovente.

Il bis…

L’Oiseau de feu di Igor Stravinskij ha incarnato l’ultimo tassello di un viaggio inedito e piuttosto coinvolgente.

Inutile qui ricordare le circostanze di composizione di questa colonna portante della musica occidentale. Se l’inatteso ha determinato la parte del programma fino a questo momento ascoltata, qui abbiamo trovato il conciliante e pur sempre emozionante furore del conosciuto (quasi fino alla esasperazione, aggiungerei io). Ciononostante (anzi, forse proprio per questo) la direzione del giovane Kochanovsky è risultata nel complesso perfettamente adeguata e puntuale. Non ci sono stati traballamenti e l’orchestra si è mossa compatta, soprattutto nei momenti più aspri e complessi dal punto di vista timbrico (come nella furiosa Danse infernale).

Delicato e perfino ricercato nella Berceuse, Kochanovsky ha fatto esprimere per intero all’orchestra tutto quel lirismo pacato e trasognato tipico del pezzo, senza indugiare sui voluttuosi glissandi, mantenendo tuttavia un grande controllo strutturale dell’orchestra. Controllo che viene ribadito anche sul quadro conclusivo, La disparition du palais, dove Kochanovksky ha dimostrato un’energica presenza, sapendo dosare in maniera molto coinvolgente la graduale stratificazione sonora dell’inno, che ha condotto la sala con il fiato sospeso fino ai meritati scrosci di applausi finali.

Valerio Sebastiani

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Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

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