Ivo Pogorelich al Cristofori: dal dandy incendiario all’espressivo intimista
di Valerio Sebastiani - 7 Ottobre 2018
L’incontro musicale con un genio del pianoforte come Pogorelich non può certo passare inosservato
Recensire un genio del pianoforte è compito arduo, da qualunque prospettiva la si guardi. I commenti positivi rischiano di apparire pusillanime blandizie; i commenti negativi, intellettualismi autoreferenziali. Ma una cosa è certa, quando si parla di Ivo Pogorelich, non si possono usare parametri uguali a quelli per gli altri pianisti. Con le partiture spianate sul leggio, mettendo un po’ in crisi quell’immagine stereotipata, vecchia come il cucco, del virtuoso che manda tutto a memoria, il maestro ha proposto un prezioso viaggio nell’evoluzione della musica romantica per pianoforte attraverso i suoi punti, al tempo stesso, salienti e più ricercati. Dal tardo Mozart dell’Adagio in Si minore K540, alla Sonata n.2 di Sergej Rachmaninov (nella versione del 1931), passando per il capolavoro sonatistico di Beethoven incarnato dall’Appassionata e per la Valse Triste di Jean Sibelius, nella trascrizione del compositore stesso. Si percepisce aria di grande occasione già solo osservando il programma di sala: brani poco eseguiti, fatta eccezione per l’Appassionata e che saranno a breve freschi di incisione, come la Sonata n.2 di Rachmaninov (che grande notizia Pogorelich che torna a incidere!, ndr). Quello che ha proposto alla platea del Festival Cristofori, non è stato un semplice concerto di chiusura, un congedo pacificato e consolatorio, per far portare nel cuore un semplice ‘bel ricordo’. Tutt’altro. Ivo Pogorelich ha voluto sbaragliare qualunque orizzonte di attesa premeditato, qualunque consuetudine, risultando, nel complesso, forse per giunta un poco eccessivo. Quello che abbiamo ascoltato sul palcoscenico del Cristofori è il solito Pogorelich, insomma. Un pianista – senza ombra di dubbio intellettuale – che alla soglia dei sessant’anni ancora pone interrogativi sulla musica che propone. Come la propone, soprattutto. E forse su questo punto che bisogna porsi qualche interrogativo in più. Se il suo cipiglio da incendiario pare sia rimasto lo stesso, qualcosa nel suo stile è tuttavia cambiato e credo che tutti, in sala, se ne siano accorti. È veramente ancora valido il suo principio, affermato spesso durante le interviste, dell’essere “solo e soltanto al servizio del compositore”, ma che nella pratica viene soppiantato totalmente da una capacità interpretativa istrionica e ri-creativa? Oppure, sotto un certo punto di vista sta calando il velo di Maya, lasciando intravedere ciò che forse è la nuova necessità del maestro cioè quella di ricercare la vera natura della composizione, senza ricercare necessariamente lo scandalo e il distacco dello spettatore?
Credo che gli ultimi concerti di Pogorelich in Italia stiano dimostrando questa direzione, a scanso di partigianerie o di visioni troppo nette: un momento di transizione, in cui c’è sì libertà “ri-creativa” dell’opera e una continua affermazione del proprio ruolo di interprete, ma con un’attenzione più intimista, rivolta all’organicità del messaggio musicale.
Andiamo più nello specifico
L’Adagio in Si minore K 540 è un unicum nel complesso universo delle composizioni mozartiane. Si tratta di un movimento di sonata isolato, registrato nel catalogo delle opere del genio salisburghese in data 19 marzo 1788. Sono “anni-cerniera” questi, in ossequio alle analisi degli storiografici e soprattutto di Reinhardt Koselleck, possiamo tranquillamente dire che sono anni in bilico tra la fine di un mondo (la società di ancien régime) e l’inizio di un altro (il periodo delle Rivoluzioni e la formazione della società borghese). Con il rischio di semplificare molto, allora, in arte (e in musica) arriviamo a far corrispondere questa transizione epocale, al turbolento – ma diluito – passaggio dal Classicismo ai primi focolai del Romanticismo di marchio tedesco. Questo passaggio in Mozart è altresì segnalato da opere monumentali come il Don Giovanni e, in piccolo, da questo Adagio, che è un vero e proprio anticipatore di certi caratteri del romanticismo. Fa il paio a queste ragioni legate alla “storia culturale”, esposte in maniera piuttosto spicciola e agile, la biografia del compositore. Il 1° agosto del 1787, un mese dopo la morte del padre Leopold, Mozart scrisse una lettera alla sorella Nannerl, promettendo di inviarle “nuove cose da me scritte per il fortepiano”. Passerà un anno. E un altra lettera, con allegati varie partiture per tastiere, riporta un auspicio da parte del compositore: “spero che questo rimetterà tutte le cose a posto”. In questo gruppo di partiture sicuramente era compreso l’Adagio. Musicologi come Georg Knepler, si sono interrogati sulla possibilità di associare questo Adagio alla morte del padre, scritto per essere eseguito dalla sorella, come mezzo per esorcizzare il dolore della perdita. Se accettiamo questa tesi come vera, risulta estremamente suggestivo pensare le sei battute conclusive in Si Maggiore, come una dichiarazione di pacificata accettazione e serenità religiosa nel pensare l’anima di Leopold nell’aldilà. Tuttavia, questa composizione ci parla anche d’altro; in primo luogo del grande stadio di avanzamento dello stile mozartiano. Caratterizzata da un riassemblamento continuo del tema principale in una estrema varietà di tonalità diverse e da un sistema “drammaturgico” in cui le pause e i silenzi assumono grande carica espressiva, questa composizione è dunque un grande esempio di uno stile tardo la cui maturità – espressa già molti anni prima la composizione di questo pezzo – ha lasciato il posto ad una conflittualità implicita sia con il proprio vissuto, sia con il linguaggio musicale. Il risultato: un’opera in bilico tra due universi. Pogorelich ha colto perfettamente questo aspetto bifronte dell’Adagio, riconsegnandoci un Mozart introspettivo, ma sconcertante, quasi legato alle esperienze del romanticismo. Sconcertante per la scelta di dilatare di almeno il doppio il tempo di durata dell’intero Adagio, arrivando a produrre così un’enfasi espressiva costante, condotta fino all’ultima cadenza finale in Si Maggiore, che scompagina completamente il tono lugubre e tragico, offrendo un senso generale di redenzione. Impegnativa ed esorbitante come scelta interpretativa, certo, ma ogni volta che il tema iniziale annunciato dalla quarta discendente veniva riproposto, Pogorelich è riuscito ad affidarvi rinnovati timbri, rinnovati colori, senza mai ripeterlo in maniera uguale all’altra. In questo caso, pur nella grande radicalità della scelta interpretativa, non si è potuto che cogliere un senso di coerenza interna, molto rasserenante, in fondo.
L’Appassionata secondo Pogorelich
Con la celeberrima Sonata n.23 ‘Appassionata’ di Beethoven (composta tra il 1805 e il 1806) Pogorelich ha voluto cambiare nuovamente le carte in tavola, offrendo un’interpretazione concentrata in maniera icastica sull’aspetto ritmico e percussivo. L’aspetto veramente sostanziale di questa Sonata beethoveniana, è quello di essere una vetta dell’espressione passionale delle sue composizioni pianistiche, ma rappresenta al tempo stesso punto di svolta conclamato nello stile del compositore per quanto riguarda la forma. Un’opera affacciata verso la modernità quindi, che condivide molto con opere coeve come la Quinta Sinfonia in do minore (la cui composizione attraversa un arco di due anni, tra il 1804 a cui risalgono i primi abbozzi, al 1806) il cui famosissimo tema d’esordio è direttamente estrapolato dal primo movimento di questa Sonata. Ma le due composizioni non sono collegate soltanto da questo elemento “linguistico”. Con la sua coeva, e diciamo pure “omologa”, l’Appassionata condivide l’appartenere ad una fase di transizione in cui sono la messa in discussione (e conseguente frammentazione) della forma, l’attenzione per il consolidamento di uno stile trascendentale e interiorizzato a sostituire la costruzione classica della forma e l’astrazione razionale illuminista. Comprendiamo così come questi lavori abbiano una forza d’urto estrema e inscindibilmente legata ad un periodo di profonda riflessione molto coerente. Questo senso complessivo di intendere la Sonata di Beethoven, scomparsa per molto tempo dalle sale da concerto, ma comunque eseguita dai più disparati pianisti, ha permesso a Pogorelich di eseguire qualcosa di al contempo originale ma anche familiare, vicino alle sensibilità di ascoltatori anche “non addetti ai lavori”.
Il primo movimento è caratterizzato da una costante dialettica tra due elementi tematici, il primo formulato musicalmente in tre gruppi di due semicrome; il secondo che deriva strettamente dal primo ha un carattere più da canto corale e da eloquio oratoriale, tipico del Beethoven “retorico” di questo periodo e che rappresenta una contrapposizione di “speranza” al primo tema, sostanzialmente più doloroso. L’attenzione di Pogorelich si è rivolta in questo caso alla natura ritmica e turbolenta, facendo quasi perdere il tema “melodico” nei brulichii delle parti basse del pianoforte.
Il senso complessivo forse ha risentito un poco di questo slancio ri-creativo. Nell’interpretazione del maestro, pertanto, non si coglie in maniera così chiara quella prefigurazione della crisi del principio dialettico in tre parti della forma sonata, resa ben evidente dallo “assorbimento” del secondo movimento lento – un Andante piuttosto breve. Anche in questo caso Pogorelich ha scelto di allargare i tempi del movimento lento, regalando alla platea un momento lirico indimenticabile, ma al tempo stesso che mantiene quei sopiti caratteri di danza, spezzando quasi il mondo interiore dell’adagio. La melodia dell’Adagio, sempre enfatizzata, è stata continuamente “sbeffeggiata” da degli staccati molto evidenziati, conservando anche in questo movimento l’idea strutturale del contrasto dialettico tra due idées fixes. Ma non ci sono stati dubbi: l’idea del maestro è sempre quella di concepire il pianoforte come una vera e propria orchestra, che sappia cogliere con esattezza ogni levigatura del timbro, ogni particolarità del suono, anche sacrificando la perfezione prometeica del virtuoso muscolare. Questo è stato ben evidente anche nel terzo movimento, in cui il tono appassionato viene via via scalzato da un a classica stretta finale, concentrata in un progressivo ed ineluttabile spegnersi e sprofondare nei registri gravi del pianoforte, con la lotta dei due temi iniziali che viene ribadita un’ultima volta, assorbita dal furibondo crollo del prestissimo.
L’unica esecuzione disponibile su YouTube.com dell’Appassionata di Beethoven, peraltro monca. Si tratta del II movimento Andante con moto. Nonostante la pessima qualità dell’audio si percepisce perfettamente la distinzione delle aree sonore, quella lirico-espressiva del corale, e quella più movimentata, quasi “danzante”.
La seconda parte del concerto
Dopo l’intervallo la vertigine causata dai perentori accordi della Sonata di Beethoven ancora aleggia nella sala, e tutto il pubblico pensava di poter respirare un poco con la Valse Triste di Jean Sibelius. Speranza vana. Alle prime note, l’interpretazione sembra muoversi coerente con quelle degli anni passati: tempo di durata di nuovo dilatato; melodia spezzata e claudicante; sonorità meste e funeree. Il cambiamento tuttavia dalle ultime registrazioni di questo mesto e riflessivo valzer (soprattutto della tournée del 2009 a Strasburgo ed Edimburgo) è piuttosto evidente. Quel tono da cripta asfissiante e opprimente, con i temi sgranati, che esplodono nel giro di poche battute da pp a ff con repentina velocità è totalmente messo in discussione. Rimangono tuttavia le fiammate melodiche tipiche del tardo-romanticismo, in cui Sibelius amenamente sguazzava (e che erano particolarmente invise ai filosofi pro-avanguardia come T.W.Adorno): il tema principale si fa avanti in un primo momento in maniera incerta, poi con grande espressione sonora esattamente al centro del brano, e Pogorelich questa volta non cade in facili provocazioni, facendolo zoppicare oppure annullandolo completamente. No. Dolorosamente lo fa implodere su sé stesso, facendo sentire tutta la drammaticità di un Valzer che, nelle intenzioni originali del compositore, doveva essere sognato dalla protagonista del dramma da cui era tratto: un valzer allucinatorio, preludio ad una morte ineluttabile (Kuolema il nome dell’opera che mai è stata completata, in finnico vuol dir proprio “La morte”). Quindi, questa nuova attenzione all’espressione sonora sembra essere pienamente confermata, senza però perdere l’attenzione per le parti interne e per la estrema nitidezza degli abbellimenti. Le dissonanze sparse qua e là nella conclusione, infatti, ancora una volta suggestionano molto il maestro, il quale non si trattiene nell’enfatizzarle, offrendo uno stato allucinatorio di un valzer mortifero che sta spegnendosi negli ultimi, terribili accordi. Ma, ancora una volta, il senso complessivo non è quello che trapelava con sconcerto qualche anno fa: il suono è più pieno, più curato nelle parti interne, meno “tagliente”. Lo stato dominante è quello di una serena accettazione.
L’esecuzione della Valse Triste del 29 agosto 2009, a Edimburgo. Una visione incredibilmente dolorosa e sconcertante di Sibelius.
Gli applausi, a questo punto, crescono sbalorditi. E il maestro attacca con un altro pezzo vertiginoso. La Sonata op.36 n.2 di Sergej Rachmaninov nella versione “semplificata” del 1931.
«Perfino in questa Sonata ci sono troppe voci che si muovono simultaneamente ed è troppo lunga», affermava il compositore stesso, il quale dopo quasi venti anni di ripensamenti, decise di decurtare un centinaio di battute dalla versione originale del 1913, semplificando la scrittura ed eliminando i passaggi più spudoratamente virtuosistici. Come ci ha raccontato il mattino seguente alla sua performance, il suo intento per questa diabolica Sonata, era quello di spogliare Rachmaninov di ogni elemento kitsch che la tradizione tedesca aveva lui imposto. Come gli aficionados ben sanno, Pogorelich non consegna ai propri interlocutori i segreti delle sue interpretazioni. Dunque solo chi ha potuto assistere alla sua performance ha potuto capire, veramente, cosa intendesse. Questa idea del “asciugare” il materiale di Rachmaninov e consegnarlo in maniera sincera, schietta e fedele alla dinamica interiore dell’espressione sonora, si è mostrata in maniera evidente soprattutto dal movimento lento della Sonata. Questa livida declamazione in 12/8, che conserva altresì carattere solenne e ben misurato, è la vera chiave di volta della composizione, fungendo da argine tra i due movimenti più “burrascosi” ed eminentemente virtuosistici. Si struttura su una risonante cassa armonica che contiene lucidi, cristallini accordi, che abbracciano la più variegata e cangiante “cassetta degli attrezzi espressivi”. Ebbene, questa cassetta degli attrezzi è adoperata da Pogorelich in tutta la sua totalità, facendone forse il punto più alto dell’intera performance.
Finito il concerto, tanti gli interrogativi – e Pogorelich stesso, lasciando la sala dopo almeno quattro richiami senza eseguire nessun bis, sembra proprio voler enfatizzare questa necessità di pensare a quanto si è ascoltato fino a quel momento. Pensare anche per dare la possibilità di cambiare e di trovare nuove strade, coerenti con il presente, alle sue interpretazioni.