Ultimo aggiornamento25 ottobre 2024, alle 15:38

L’Incoronazione di Telenovela

di Alessandro Tommasi - 9 Novembre 2021

Il Vicenza Opera Festival è una festa per gli occhi e per le orecchie. Saldamente radicato in un Teatro Olimpico sempre mozzafiato, il Festival è il risultato di una collaborazione tra la Società del Quartetto, che regge le fila di gran parte delle principali iniziative musicali della città, la Budapest Festival Orchestra e la Iván Fischer Opera Company. È tipico della città palladiana, infatti, farsi teatro delle riflessioni artistiche di grandi nomi del concertismo internazionale, che a Vicenza trovano non solo splendide sale, ma anche un pubblico e un tessuto organizzativo interessato a sostenerne i progetti e a dar loro carta bianca per donare forma alle proprie visioni. Ciò che succede al VOF, dunque, è una diretta emanazione del direttore d’orchestra (e qui anche direttore artistico) Iván Fischer, che cura ognuno dei quattro appuntamenti in programma: un concerto di apertura e tre recite de L’incoronazione di Poppea di Monteverdi. Dell’ultima recita dell’opera monteverdiana, l’1 novembre, mi appresto ora a scrivere.

Fischer, che non è nuovo su Monteverdi a Vicenza, firma anche la regia con Marco Gandini, scegliendo un’ambientazione fortemente in conflitto con il Teatro Olimpico (per scelta, secondo il programma di sala). Sulla scena dominano il rosa shocking, l’oro, il bianco lucido, è un vero trionfo della plastica che non potrebbe stonare di più con la pietra e il legno del teatro. L’obiettivo è rappresentare tutta l’ipocrisia e la corruzione di Roma, dunque di per sé questo stacco violento può funzionare, come idea. Il problema è che poi la messa in scena non raggiunge l’obiettivo prefissato e non realizza a pieno il contenuto messo in musica da Monteverdi (e altri) sul libretto di Busenello. La regia di Fischer e Gandini, infatti, non dà molto rilievo all’efferata politica, allo spietato gioco di ambizioni, alle forti passioni che scuotono i numerosi personaggi, mai stereotipati e mai bidimensionali. L’effetto raggiunto a Vicenza, invece, era di una messa in scena tutta concentrata su una narrazione da commedia, anzi (possiamo dirlo) da telenovela. I tradimenti, le vendette, le ambizioni sembravano scuotere solo la superficie. L’effetto, aiutato dal sovrano gusto kitsch che ha volutamente dominato le scenografie, è stato di una recitazione mai veramente credibile, in cui i personaggi sembrano agiti dai loro stereotipi e forzare un messaggio complesso in una lettura sciapa ma di sicuro effetto sul pubblico, che non viene mai portato veramente a riflettere sulle motivazioni intime e profonde dei personaggi, ma segue gli avvenimenti con il gusto effimero e appagante del gossip. Esattamente come in una telenovela.

Difficilmente si possono però imputare i cantanti di non sapersi immergere nelle parti e anzi, più volte hanno dato anche ottime prove di recitazione. Qui fra tutti spiccano la Poppea di Jeanine De Bique, agile, fresca e ambiziosa, la Ottavia intensa e nervosa di Luciana Mancini (anche nei panni di una ben più serena Virtù) e l’Arnalta/Nutrice di Stuart Patterson. Sul caso di Patterson è opportuno soffermarsi: il tenore scozzese ha interpretato con irrefrenabile carisma il doppio ruolo comico en travesti, riuscendo anche a trovarvi un bello spessore nel monologo del terzo atto, ma troppo spesso Arnalta e la Nutrice sono sono arrivate ad un macchiettismo che sicuramente ha strappato qualche bella risata nel pubblico (me in primo luogo), ma che nell’equilibrio generale mi pareva eccessivo. Mi chiedo però quanto diversa sarebbe però stata la percezione della sua Arnalta gretta e arrivista, se fosse stata controbilanciata da un’atmosfera ben più seria e drammatica nel resto dell’opera. Nel momento in cui momenti di grande pathos o persino tensione erotica venivano ridotti a scenette (è il caso del “riattacca tu” “no, riattacca tu” nell’addio tra Nerone e Poppea, poi perpetrato con smorfie e moine da adolescenti innamorati in giulive conversazioni telefoniche nel seguente grande duetto), la presenza di Arnalta spesso rinacarava la dose e anziché creare un contrasto, che avrebbe sottolineato un suo essere fuori luogo nel contesto, rimaneva perfettamente in linea con il tono da commediola.

Oltre alla patina generale, il problema mi sembra possa essere fatto risalire alla figura di Nerone. Questo anche perché Valer Sabadus non dà una prova sensazionale, in primo luogo musicalmente. La voce raggiunge anche un buon volume e si scalda bene, migliorando di atto in atto, ma appare un po’ generica nel timbro e senza quelle sfumature, senza quelle inflessioni che potevano dare un’idea chiara e affascinante di Nerone. Il Nerone di Sabadus è sembrato più che altro una diva del pop anni ’80-’90 (sarà complice la barbetta alla George Michael?) in piena crisi di mezza età e si è persa la corruzione e l’intossicazione da potere che motivano la sua voracità di conquista e avrebbero dato ben altro peso, ad esempio, alla condanna a morte di Seneca. Questa limitatezza dimensionale è stata poi solo accentuata dalla vicinanza con De Bique e la sua Poppea, anch’ella restituita raramente come una disinvolta arrampicatrice sociale pronta a usare ogni arma a sua disposizione per raggiungere il potere, ma che almeno compensava con una tale suadenza vocale e una tale malia, da riuscire comunque ad esprimere tutta la potenza erotica del suo personaggio e di conseguenza giustificare istantaneamente le azioni tanto di Nerone, quanto dell’Ottone di Reginald Mobley.

Mobley funziona molto bene, vocalmente regge bene su tutto e riesce nella recitazione soprattutto quando si tratta di delineare il carattere più accorato e patetico, ma anche lui non si solleva dal ruolo di generico amante geloso, che subito va con la spasimante (per cui ovviamente non prova nulla) solo per far ingelosire la ex. Dove l’inquietudine, dove il tormento, dove la sofferenza di fronte all’ultimatum di Ottavia di uccidere la donna che in realtà ama? Meglio allora Drusilla, che è forse l’unico personaggio che riesce a rimanere quasi positivo fino alla fine (salvo ovviamente quando gioisce pensando alla morte della rivale). Núria Rial disegna tanto con la voce quanto con la recitazione il ritratto di una ragazza innamorata perdutamente e ingenuamente, pronta a tutto per soddisfare l’uomo che ama e che, non ci crede nemmeno lei, finalmente le si concede. Che sia per ingelosire un’altra donna non le sfiora la mente o, se lo fa, sceglie di non pensarci. Insomma, qui si poteva veramente credere al personaggio in scena.

Di altro spessore però l’Ottavia di Luciana Mancini. Il suo “A Dio, Roma” è stato forse il momento più emotivamente intenso dell’intera opera, coadiuvato da, finalmente, un cambio di luci, una sottolineatura scenica che ha di colpo trasformato l’intera atmosfera. Non sarebbe stato più bello avere anche prima questa ricerca di intensità espressiva, questa profondità finalmente non stereotipata e non ridotta a contorno, ma finalmente centrale? Il dialogo tra Ottavia e Ottone, con la richiesta di uccidere Poppea, non ha chiaramente l’intensità dell’addio alla patria amata, ma ha una verve, una tensione espressiva e teatrale che sono state schiacciate su una passione posticcia, come per pudore. E poco può fare un cantante, pur bravo che sia, se la regia non lo mette nelle condizioni di approfondire e donare al pubblico il proprio pensiero sul personaggio.

Questo è stato anche il caso del magnifico Gianluca Buratto, la cui voce scura e possente calzava come un guanto a Seneca. Un Seneca però penalizzato da regia e costumi, motteggiato e dileggiato persino dallo stuolo di baciapile che lo circondano, riverendolo ma rendendo la sua figura quasi comica. Che Seneca possa venire schernito e persino umiliato dalla corte di Nerone (in particolare dall’insopportabile Valletto) è una lettura coerentissima. Il problema però è che la regia ti spingeva non tanto a soffrire per l’umiliazione della saggezza in una corte corrotta e insensibile, quanto a simpatizzare proprio con la corte. Basta vecchi babbioni, basta vecchi saggi noiosi e moraleggiatori, godetevi la vita, godetevi i piaceri, non pensate al domani ma seguite le passioni del momento, superficiali, insignificanti, ma stranamente rassicuranti. Mai come nella figura di Seneca ho sentito forte il richiamo della TV intrattenimento da pieni anni ’90, quella spinta anticulturale verso una superficialità anestetizzante.

E in questo è stato veramente perfetto il Valletto/Amore di Jakob Geppert, cantore della Chorakademie Dortmund. L’abile bambino ha reso magnificamente il lato sfrenato e noncurante del piacere, subito pronto a rimuovere tutto ciò che potesse frapporsi al compimento del suo piano. Sicuramente vedere il giovane saltellare a destra e a manca sulla scena ha avuto il suo peso nel vincere il cuore del pubblico: anche per questo alla fine ci si trovava più a concordare con questo piccolo Gavroche edonista, che non a comprendere tutta l’ipocrisia che si cela anche dietro al suo ruolo. Tutta l’opera, d’altronde, smentisce il suo stesso prologo. Altro che trionfo d’Amore, qui è Fortuna a vincere. L’ambizione guida Poppea, il potere inebriante motiva Nerone, la sete di ricchezza anima Arnalta, il timore per la propria condizione e l’amor proprio ferito spingono Ottavia alle sue drastiche azioni. Molto di questo è andato perso, ma Geppert è riuscito bene a rendere tutto il lato mattacchione dell’opera, sposandosi molto bene con la regia. Meno efficace, invece, la prova vocale, molto spesso fuori di intonazione e affaticata. Bella l’idea di rendere Amore un vero e proprio putto (con tanto di kitchissima parrucca riccioluta, bene in stile), ma forse un adulto avrebbe saputo reggere meglio la non marginale parte e a donare maggiori sfumature al Valletto, rappresentante massimo la corruzione della corte.

Molto bene Thomas Walker, Francisco Fernández-Rueda, Peter Harvey e Silvia Frigato, a dimostrare la solidità e la bravura di un cast che, salvo appunto il Nerone di Sabadus meno convincente, è riuscita a rendere sempre interessante il fatto musicale. In questo, ovviamente, non è male avere a disposizione Iván Fischer e la Budapest Festival Orchestra, che si è fatta vero e proprio personaggio dell’opera, suonando in mezzo alla scena, interagendo con i personaggi e dando un bel movimento all’azione. D’altronde i momenti in cui gli archi hanno qualche parte sono veramente ridotti all’osso (al punto che l’ensemble li ha sempre fatti a memoria) e tutto il peso musicale è retto dall’elaborato ed esteso continuo. Meglio così: se è vero che la BFO era su strumenti storici, non storici erano gli archetti e le corde e dunque le comparsate spesso cozzavano con cembali, arciliuto, organo e viola da gamba in un ibrido musicale non particolarmente convincente. Peccato, perché la parte del continuo, con Fischer ad uno dei due clavicembali, è stata veramente eccellente e in ogni momento ha supportato non solo il canto ma anche il dramma, occupando due spazi sulla scena (uno per cembalo), intorno ai quali si costruivano spesso i dialoghi. Non nego che sentire i botta e risposta lanciati da un lato all’altro del palco e con coordinata spazializzazione dei rispettivi continui ha aggiunto molto alla vivacità teatrale. Le oltre tre ore di recita sono infatti volate con una gradevole piacevolezza, che nel bene e nel male è sicuramente una nota distintiva di tutta la serata.

Alessandro Tommasi

Autore

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro.

Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia.

Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella.

Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

tutti gli articoli di Alessandro Tommasi