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Il turbine intelligente: su Klaus Mäkelä

di Artin Bassiri Tabrizi - 28 Novembre 2021

Klaus Mäkelä compirà a gennaio 26 anni. È appena divenuto direttore stabile dell’Orchestre de Paris – con un anno d’anticipo rispetto a quanto convenuto – ma è reduce da successi internazionali che lo hanno posto sotto l’attenzione dei festival più importanti e interessanti del panorama contemporaneo: è infatti anche conduttore e direttore artistico della Filarmonica di Oslo – con la quale è in procinto di registrare, per Decca, le Sinfonie di Sibelius – nonché direttore ospite della Swedish Radio Symphony Orchestra. Cerchiamo di capire, concretamente, cosa di questo nuovo demone musicale è capace di soggiogare qualsiasi ascoltatore.

Non avrebbe senso, in altri casi, valutare i progressi – o i regressi – di un direttore dopo appena tre mesi dalla presa in carico ufficiale. Eppure, Mäkelä si è già rivelato come un predestinato a chiunque possa aver avuto la fortuna di ascoltarlo nelle due occasioni parigine, quella del 16 Settembre e quella del 18 Novembre. La serata del 16 settembre, che accoppiava a Strauss – i Quattro Lieder op. 27 – la Titan di Mahler (Sinfonia n. 1) – ha mostrato già al pubblico che Mäkelä non ha alcun’intenzione di tirarsi indietro: un programma evidentemente molto ambizioso, anche per un’orchestra che non ha mai brillato per questo genere di repertorio.

Ecco infatti che i Quattro Lieder di Strauss, assieme al soprano Lise Davidsen, hanno sì mostrato in potenza i magma sonoro che Mäkelä è in grado di tirar fuori dall’orchestra parigina – e che da potenza diverrà atto nella serata di Novembre – , ma anche manifestato una certa acerbità e tutti i limiti dell’ensemble parigino. I corni, i violini e, come in Mahler, i solo strumentali, non hanno avvolto la Davidsen accuratamente, se non nell’ultimo, Morgen, dove gli strumenti sembrano scacciarsi di dosso tutto quello che nei precedenti Lied si era inceppato.

L’orchestra non è stata nemmeno all’altezza della Titan mahleriana troppo poco coordinati ancora i musicisti tra loro. Era palese come ancora Mäkelä non si fosse imposto e come l’ensemble fosse disgregato – in particolare, ancora una volta, i corni. La domanda sorge spontanea: perché una serata sostanzialmente non riuscita sarà difficilmente dimenticabile – almeno, per le mie orecchie? La risposta risiede nel Terzo Movimento, Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen. Quante volte abbiamo sentito questa sinfonia? Forse non si è ancora scritto abbastanza su Mahler, sull’immanente possibilità di ricondurre il disorganico all’organico che possiede la Titan.

Ecco, infatti, che l’orchestra ha davvero preso le sembianze di una banda di paese, di un gruppo di amatori che si ritrovano assieme per godere della musica, che si incontrano quasi per caso a commemorare qualcosa a noi ignoto e alla quale assistiamo. È un poco tutta l’atmosfera della Philarmonie ad aiutare, nessuno si prende troppo sul serio a Parigi, il pubblico è attento ma non troppo (pensiamo ai silenzi inumani che possiamo “sentire” in una qualsiasi sala berlinese). È una mera immaginazione, un’allucinazione? Forse è così, ma la banda si è lentamente trasformata in orchestra, la sinfonia ha preso vita nelle nostre orecchie, e nell’ultimo movimento (Stürmisch bewegt), quando Mahler riabbraccia a sé i temi degli movimenti precedenti, quasi congedandosi da se stesso – oltre che da un certo modo di fare musica – ecco in quel momento l’orchestra si è coesa, e nelle ultime misure, quando i corni si sono alzati in piedi, e finalmente il Re maggiore ha trafitto le nuvole acustiche, il pubblico era in lacrime, si era trasformato in una comunità, tutti protesi verso il direttore, verso questo giovane sfrontato che aveva osato proporre a un’orchestra impreparata un compito troppo arduo, lontano dalle «sue corde» così poco timbrate, troppo impressioniste, non graffianti, poco ironiche e ancora educate. Eravamo dimentichi, d’improvviso, degli elementi disturbanti, nonostante le frasi venissero chiuse con un legato raffinatissimo. Allora, in questi casi, non vi è nemmeno necessità di discutere su cosa sia la musica. È l’esperienza dell’unificazione dell’esperienza, quando inizio e fine perdono di senso, quando ogni suono è presente allo stesso momento. Così, posseduti, in piedi ad esclamare «bravo!» senza conoscerne il motivo, purificati dalla nostra iniziale infedeltà, dalla nostra disarmonia.

Questa stessa dinamica si è ripetuta, con un afflato ancora maggiore, la sera del 18 novembre, quando Mäkelä – dopo Mendelssohn e Dutilleux (sui quali non ci soffermiamo, ma per i quali ci sarebbe tantissimo da scrivere e da dire) – propone ancora una volta Richard Strauss: Eine Alpensinfonie op. 64. Cominciamo col dire che l’Orchestre de Paris è quasi irriconoscibile, rispetto a due mesi fa: nella corposità del suono, nei volti persino, vi è una serenità ritrovata e un’energia che non sembrava potesse mai appartenere a questo ensemble. Anche in questo caso, programma ambiziosissimo quello che Mäkelä propone al pubblico. Come scrive lo stesso Strauss: “avrei dovuto chiamare la mia Sinfonia Alpestre: Anticristo, perché c’è in essa una purificazione morale proveniente dalla sua propria forza, una liberazione che passa attraverso l’opera, un elogio alla natura gloriosa e eterna.”

Ebbene, una tale dichiarazione esprime chiaramente un dettame letale: è un giogo che impone all’orchestra un andamento e una tensione che, qualora esse venissero a mancare, renderebbero palesi il fallimento della realizzazione dell’idea estetico/morale dell’autore. Insomma, vietato sbagliare. Ma la sfida di Mäkelä è vinta, e lo testimonia come egli sia giunto al momento della tempesta (Gewitter und Sturm, Abstieg): senza sforzo, ma inevitabilmente.

In una composizione così carica di raffinatezze, di equilibri sonori delicatissimi, alla guida di un complesso estremamente vasto (arpe, organo, numerose percussioni tra cui campanacci e una macchina del vento, tube wagneriane) Mäkelä non ha mai tentennato, né ritmicamente né dinamicamente. Come per la Titan, la “verifica dei poteri” ha premiato il lavoro corale, armonizzante di questo giovane sorridente e spavaldo di fronte alla difficoltà. La Philarmonie, non è affatto una sala generosa dal punto di vista dell’acustica: ebbene, si era comunque completamente sommersi in un bagno sonoro pronto a trasformarsi sotto le mani del finlandese. Ora, sappiamo tutti che la scuola orchestrale finlandese ha prodotto negli ultimi anni dei grandissimi artisti: Mikko Franck, Esa-Pekka Salonen, Susanna Mällkki. Ci auguriamo che questo istinto continui la sua opera di trasformazione – culturale, oltre che strumentale – dell’orchestra parigina, prima di migrare in altri lidi più ambiti.

Dottorando in filosofia all'Università di Strasburgo (ACCRA), già laureato all'EHESS di Parigi e diplomato al Conservatorio F. Morlacchi di Perugia. Segretario artistico di Roberto Prosseda, collabora per diverse riviste.

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