I confini della musica tra visioni e follia
di Matteo Camogliano - 14 Giugno 2020
Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’immago a me sì cara, vieni,
O Sera!
I versi del celebre sonetto Alla Sera di Ugo Foscolo sono colmi dei germi della Sehnsucht romantica che si affermerà di lì a poco. Foscolo, spesso definito con improprietà di linguaggio un preromantico, è in realtà pienamente immerso nel suo periodo storico, il delicato passaggio tra XVIII e XIX secolo, in cui la cultura illuminista conosce i suoi ultimi sviluppi per poi mutarsi in quella romantica, in cui torna a prevalere il sentimento sulla ragione, il genio sull’intelletto, il sentire sull’analizzare, le passioni sulla scienza. Sarebbe più corretto definire Foscolo e i suoi contemporanei come appartenenti semmai a quella sorta di corrente culturale e letteraria che è l’ossianismo, in cui inizia prepotentemente a farsi spazio il gusto del sublime, quell’attrazione fatale per la natura, maestosa e crudele nella sua potenza distruttrice, che non lascia scampo all’uomo, riscontrabile già nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis e che si ritroverà a lungo in letteratura fin dal successivo Leopardi, anch’egli figlio di un’educazione strettamente classicista e illuminista, ma in realtà dal sentire inequivocabilmente romantico, nelle raffigurazioni di severa matrigna che ne dà nel Dialogo con l’Islandese, così come nella Ginestra.
Ma un discorso sulla letteratura tra sette e ottocento non può eludersi dal coinvolgere la musica, che proprio nella nuova gerarchia romantica delle arti occupa il gradino più alto, come limite a cui tutte le manifestazioni dello spirito tendono, per la sua capacità di esprimere i sentimenti in maniera diretta, attraverso il tramite immediato del suono. Ecco allora come in questo vasto periodo che va dalla fine del Settecento agli albori del Novecento e oltre, la musica e le altre altri si trovino spesso a coesistere su piani molto vicini tra loro, e nascano i presupposti dell’idealistica fusione delle arti, sintetizzata nella Gesamtkunstwerk wagneriana, picco di questa curva che rappresenta l’evoluzione della contagiante concezione estetica romantica. Fusione che con diverse sfumature e secondo le diverse concezioni dei singoli artisti ha dato luogo in ogni caso a innumerevoli rimandi e sinestesie tra musica, poesia, letteratura, pittura, architettura e danza, superando spesso i confini tra le varie discipline e regalando all’umanità capolavori che trascendono il confine stesso della loro possibile e completa spiegazione attraverso la parola.
Confini – Musica tra visioni e follia è il titolo del volume di Adele Boghetich, musicologa italiana di riconosciuta affermazione, che parte da queste suggestioni, da un’evidente inclinazione e fascino per l’attrattiva romantica, per svolgere un ricco percorso tra alcune pietre miliari del vastissimo repertorio inscrivibile nel cerchio appena disegnato. Quasi in un sorta di Via Crucis, nel senso non metaforico ma teologico del termine, come cammino verso la redenzione, l’autrice ci conduce per dodici stazioni alla scoperta di singoli capolavori, analisi musicali accurate e appassionate, ricche di rimandi filosofici oltre che storico-culturali, a volte apparentemente slegati e lontani tra loro, ma in realtà accomunati dalla sottesa comunione di fondo negli intenti dei compositori, che, anche qui con concezioni talvolta molto differenti, puntano sempre ad esprimere attraverso la musica qualcosa che va oltre il significato stesso del linguaggio musicale, la bellezza immanente dell’opera d’arte, per trascendere i limiti dell’essere umano, verso il confine del divino. Questo limes viene declinato in modi diversi a seconda del contesto culturale, ma è sempre essenzialmente quell’agognata Ruhe, ovvero la quiete, in contrasto con la Sehnsucht, che è quiete di morte, torpore di sepoltura per dirla secondo Foscolo; unione tanto attesa con quel tutto superiore a cui anela l’animo, come l’ultima mancante stazione della Via Crucis, cammino di dolore che porta in realtà alla redenzione, alla comunione di resurrezione celebrata nella Pasqua. Ecco allora il rimando inevitabile a Foscolo che è venuto in mente a chi scrive, come ennesimo esempio di anelito dell’anima verso l’unione con la natura, con l’infinito, nell’annullamento della fatal quiete di cui si invoca la venuta.
Il percorso delineato da Adele Boghetich ha tre momenti principali: una sorta di preludio, curva ascendente di un ipotetico grafico, un picco come già detto, ed infine un postludio o curva discendente fino alla dissoluzione.
La prima parte vede per l’appunto portati in esame quattro esempi pur antecedenti al periodo prettamente romantico, come il Foscolo, portano con sé i germi di questa Sehnsucht, di questo slancio verso il confine dell’infinito. Parte piuttosto da lontano, in pieno Medioevo germanico, nel cuore dell’Europa cristiana influenzata da una grande mistica quale Hildegard von Bingen, dottore della Chiesa, monaca benedettina che ricevette il dono di numerose visioni, ma anche figura emblematica di donna in grado di imporre la propria influenza su un mondo come quello clericale profondamente maschilista al tempo, con rischi annessi e connessi, grazie anche ad una straordinaria seppur non dimostrata formazione culturale, che ne fecero una grande scrittrice e filosofa, oltre che musicista. I suoi inni e i suoi drammi liturgici, tra i più antichi mai pervenutici, sono portati dall’autrice come esempio di musica volta a superare il confine della trascendenza, per suscitare nel cuore il senso del divino, oltre ad essere da un punto di vista musicale straordinaria testimonianza di un linguaggio pre-tonale e pre-polifonico di tutto rispetto.
Il successivo, obbligatorio punto di fermata non può che essere J.S. Bach, il kantor della grazia di Dio per eccellenza, capace con il suo genio in realtà rigidamente e perfettamente razionale – evidente dalle vette di complessità armonica e tecnica raggiunte dalla sua musica – di toccare come nessun altro le corde dell’animo umano, di valorizzare in modo unico e sublime le parole dei testi della liturgia luterana per rendere partecipe il pubblico nella funzione, in una comunione data da suono e fede che eleva anche qui verso il confine del divino. La Cantata Gottes Zeit, meglio conosciuta come Actus Tragicus è un esempio più che eloquente di questa straordinaria abilità, campo di prova propedeutico a successivi capolavori architettonici come sono le “cattedrali” delle due Passioni.
Un secolo più tardi, Mozart non è più immerso nella rigida Germania protestante, ma nella fervente Vienna imperiale di fine settecento, uno dei cuori pulsanti dell’Europa illuminista, animata da una vivace attività culturale orbitante attorno alle logge massoniche, congregazioni scientifico-culturali con frequenti ed importanti risvolti mistici e alchemici, che finiranno per essere bandite in quanto pericolose per il mantenimento dell’ordine sociale. Il suo Flauto Magico è un’opera fondamentale per il futuro sviluppo dell’opera nazionale tedesca, e insieme all’incompiuto Requiem rappresenta la summa della sua opera di compositore nonché una sorta di testamento spirituale. Le suggestioni di questo capolavoro sono dunque all’Aufklärung e all’ambiente massonico, richiami di tipo misterico e misticheggiante a riti orfici e isiaci, a un’idea di contrapposizione netta tra forze del bene e forze del male, dove queste ultime possono essere sconfitte soltanto attraverso il superamento, anche qui, di un ben delineato confine: quello che prevede un percorso iniziatico, una serie di prove di coraggio per arrivare a comprendere ed afferrare la Verità.
Se già Mozart risente chiaramente della concezione razionalistica kantiana, di una Verità ultima da raggiungere e svelare oltre l’apparenza del mondo, così non può che essere per Beethoven, punto di arrivo di questo percorso iniziale, nonché ultimo necessario anello prima di aprire le porte al romanticismo. Beethoven appuntava nei suoi quaderni di scrittura (utilizzati come è noto a causa della sordità): “La legge morale dentro di noi, Il cielo stellato sopra di noi!!!” – citazione dalla Critica kantiana, con i punti esclamativi a sottolineare quanto sia importante la lettura del filosofo per il le sue convinzioni morali. Tuttavia da un punto di vista estetico e musicale, a detta di molti studiosi, l’influenza kantiana è evidente nel cosiddetto primo periodo, mentre a partire dal secondo periodo – quello del titanismo eroico – ha un’influenza maggiore, seppur non comprovata da una lettura diretta, ancora incerta, l’idealismo hegeliano, e in particolare non più un discorso di semplice contrapposizione dialettica tra tesi e antitesi, fenomeno e noumeno, ma incentrato sul ruolo della Sintesi, evidente in musica nel sempre maggior peso che assume all’interno della forma sonata beethoveniana lo Sviluppo, l’elaborazione dei temi come elementi aventi in sé stessi un germe di divenire. Quest’ultimo aspetto è particolarmente accentuato nel terzo stile. Così nella monumentale Nona Sinfonia, presa in esame dalla Boghetich, l’uso di un tema semplice come quello del quarto movimento, viene sfruttato da Beethoven per elaborare una serie di variazioni e di fugati che ne evidenziano la potenza creatrice immanente, creando una struttura formale estremamente complessa e dilatata per il tempo, che non rientra più nei canoni di semplice forma sonata o rondò. L’intuizione geniale inoltre è chiaramente l’utilizzo della parola, delle voci di un ampio coro e dei solisti, all’interno di una forma come la sinfonia che era per antonomasia il baluardo della musica assoluta. Ma la parola è qui necessaria per innalzare il discorso, come aggiunge nei suoi versi lo stesso compositore, per indirizzare all’umanità intera un messaggio di speranza attraverso le parole della schilleriana Ode alla Gioia, risalente alla fine del settecento, sublimata come grido di salvezza, come possibilità di vittoria sulla Sehnsucht, sul dolore della vita, per arrivare alla salvezza, alla contemplazione della Verità nel divino.
La seconda parte del percorso delineato dalla nostra autrice riguarda dunque nello specifico il periodo prettamente romantico, che non può che iniziare con Schubert. Artista romantico autentico, personalità di uomo schivo, inetto, malato, genio indiscusso dell’invenzione melodica, Schubert è il padre e maestro del Lied per voce e pianoforte, in cui riesce al meglio a riversare la sua profonda inquietudine ed il suo legame con la natura. Nella raccolta Die Winterreise risulta particolarmente evidente la tensione tra uomo e natura, dove l’uomo è il Wanderer, figura topica dell’immaginario romantico, alla ricerca dell’amore e della serenità interiore, di una pacificazione con il proprio animo, ricerca che appare da subito destinata ad un titanico fallimento e al ripiego nel rifugio della morte. Schubert si serve dei versi di Wilhelm Müller, poeta romantico per il quale avverte una forte affinità, tratti dal secondo volume del Gedichte aus dem hinterlassenen Papieren eines reisenden Waldhornisten, la cui prima parte era già stata usata per il Liederkreis precedente, Die Schöne Müllerin. Il viaggio d’inverno del Wanderer rappresenta dunque la condizione stessa della sua anima: l’inverno di una natura gelida e inospitale è lo specchio di un animo desolato, di una condizione esistenziale appartenente a un secolo intero. La musica di Schubert riesce a trascendere il sottile confine tra sogno e realtà, creando una serie di Lieder che ha più l’aspetto di un vero dramma pur essendo formato da brevi canzoni per lo più di forma strofica.
Eccoci al fulcro del nostro percorso, l’autrice ci propone l’Inno alla notte del poeta Novalis, per introdurre nuovamente la signora Notte, che ritorna così fin da Foscolo per essere posta al centro di un’opera dal potere evocativo e dall’influenza immensa com’è il Tristan und Isolde di Wagner. Come detto egli rappresenta davvero il punto di arrivo e sintesi di tutta la civiltà romantica, destinata al declino, in lui si fondono le arti secondo il principio di Wort Ton Drama, ma soprattutto si ha la sublimazione della vita mendace nella verità della morte, dell’eros in thanatos, del giorno nella notte. Il canto notturno del secondo atto è dunque il momento massimo dell’ardente passione amorosa, del delirante anelito d’amore, che già prelude al finale tragico ma necessario e inevitabile in cui gli amanti si uniranno nel solo modo possibile ed eterno oltre il velo del mondo e il confine della morte. Il Tristano, opera che suscitò in Nietzsche una profonda influenza, è in realtà trasposizione drammaturgica della metafisica di Schopenauer, governata dalla Voluntas malvagia dell’universo, di una vita intrisa di dolore esauribile solo nella morte, nella rottura del Velo di Maya per afferrare la verità; quella verità, ovvero l’essenza delle idee, che è identificabile con la musica, posta al di sopra delle arti e alla pari della stessa filosofia. Anche per Nietzsche la musica è superiore alle altre arti, vera categoria dello spirito dal potere redentore, ovvero dalla capacità di svelare la realtà così com’è. Proprio su questo piano nasce quell’incomprensione e celebre conflitto tra Nietzsche e Wagner, inizialmente amici e corrispondenti, con un particolare sostegno del primo nei confronti del secondo. Ma se Wagner a differenza di Nietzsche considerava la musica non superiore ma al pari della parola, non autosufficiente in quanto bisognosa di quella fecondazione del verbo in grado di operare una redenzione dell’umanità attraverso l’arte, era anche notoriamente antigiudaico e anticristiano, pur riconoscendo il valore della figura di Cristo come sorta di eroe redentore. Ecco allora che, quando con il Parsifal Wagner sceglie di negare la Voluntas attraverso la rinuncia, carica di pietas e ritrovata fede nella rivelazione cristiana, per arrivare alla Redenzione, Nietzsche si sentirà tradito da questa scelta della consolazione, che è in realtà l’ultima evidenza di due concezioni estetiche divergenti, divorzio annunciato e infine avvenuto.
La terza ed ultima parte, sorta di parabola discendente, segna il lento declino del romanticismo, la crisi di una società e una cultura che presto conosce i limiti dello stesso positivismo, prima vera risposta all’idealismo romantico, per lasciare spazio a quel movimento non ben definito e declinato in diversi modi che è il decadentismo, sentore nelle arti del delicato passaggio storico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Un ruolo di primo piano lo ha dunque Gustav Mahler, ultimo rappresentante della grande tradizione sinfonica ottocentesca, anello finale di un percorso iniziato con Beethoven. Mahler è davvero in un certo senso l’uomo dei confini, ebreo di boemia, straniero a casa propria, direttore d’orchestra e compositore, porta la sinfonia alla sua massima dilatazione, la gamma timbrica e sonora agli estremi più opposti e laceranti, il discorso armonico a un’apertura che, figlia della lezione wagneriana, spalanca la strada alla dodecafonia. Le sue sinfonie racchiudono tutto il mondo, raccontano una storia, della dissoluzione dell’eroe romantico e di tutta una società, di strazianti lacerazioni interiori frutto talvolta di tragiche esperienze personali ma sempre rese intelligibili a tutti e rapportate al significato ultimo dell’esistenza. L’autrice prende in esame la Terza, l’Ottava e il tardo Canto della Terra. La Terza, nella sua ampia struttura in sei movimenti è un viaggio attraverso il mondo e la natura, sempre presente in Mahler come forte elemento connotativo, da i gradi di vita più elementari fino alla contemplazione estatica della divinità, che è intesa in senso panteistico come l’Amore, forza immanente la natura ma trascendente i limiti del tempo e dello spazio, che regge l’universo. In questa immaginaria scalata, quando si parla dell’uomo ecco che torna ancora una volta, puntuale, la Notte: è Il canto del nottambulo che intima O Mensch! Gib Acht! tratto ancora da Nietszche. L’Ottava, sinfonia dei mille, dal nuovo potente carattere sperimentatore con un organico mai visto, è geniale costruzione sinfonico-corale e un po’ come la Nona beethoveniana si fa foriera di un messaggio che lascia intravvedere la speranza, pur sempre velata in Mahler dal velo dell’ironia e da squarci di angoscia, in un continuo contrato di luci e ombre. Articolata in due grandi sezioni, l’inno Veni Creator Spiritus iniziale e la scena finale del Faust goethiano, è una grande opera di redenzione e annuncio di salvezza universale, densa di significati filosofici. Così vale per Das Lied von der Erde, che insieme alla sua Nona è il lascito e congedo di Mahler dalla vita. Opera estremamente personale e tuttavia ancora una volta universale, impregnata di influssi dalle filosofie orientali, forse è davvero l’ultimo canto, o l’insieme degli ultimi canti, della parabola romantica. Filo conduttore che lega i diversi episodi è una comune visione della vita sul confine tra il sogno e la veglia, tra onirismo e realtà, tesa ormai al distacco e al raggiungimento di quell’attesa Ruhe. I suoni della natura si alternano a diafani e profondi silenzi, che lasciano intravedere quell’oltre ormai vicino, proprio come avviene nel finale della Nona sinfonia.
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Da ultimo viene preso in analisi Richard Strauss, contemporaneo di Mahler e a lui sopravvissuto, forse ultimo grande genio dal lirismo innato e già influenzato da quella seconda scuola viennese che presto cancellerà ogni traccia di influenza romantica. Il poema sinfonico Also sprach Zarathustra, opera programmatica sull’omonimo scritto di Nietzsche già usato come detto da Mahler nella Terza, di coeva gestazione, ha ancora un carattere fortemente evocativo, frutto di un uso orchestrale molto ardito ed efficace nel suggerire immagini, come l’emblematico sorgere del sole sul monte scandito dai colpi dei timpani e dalle chiare e penetranti armonie iniziali, dal forte potere immaginifico, utilizzato quasi un secolo dopo nel noto film di fantascienza di Kubrick. Di contro, Metamorphosen, del 1945 è un’opera figlia ormai del Novecento, in particolare delle lunghe guerre mondiali, che hanno lasciato l’europa e la Germania, culla della cultura romantica, devastata e dilaniata fin dentro i teatri e le sale da concerto delle più importanti capitali della musica. Sembra non rimanere altro che brandelli, frammenti, polvere, ombre e su tutto l’aura pesante della morte: anche l’orchestra è ridotta a 23 reduci archi, che dipingono su una tela il gelo e la sconsolata anima del musicista, volgendosi indietro a guardare le macerie di tre secoli di cultura. Solo tre anni più tardi Strauss riuscirà a trovare una ricucitura a quella ferita e una certa dose di pace interiore nei sublimi Vier letzte Lieder, davvero ultimo anelito di un lirismo magico e romantico. Uno di questi, Im Abendrot, propone ancora un’ultima volta il momento in cui scende la Notte come equivalente del congedo dalla vita, atteso e meritato riposo nella fatal quiete del rosso tramonto che si fa buio.
Il percorso della Boghetich si conclude con ultima riflessione, uno sguardo retrospettivo ed omaggio a Francesco d’Avalos, compositore, direttore d’orchestra, didatta dello scorso secolo, venuto mancare nel 2014, forse non ancora conosciuto quanto meriterebbe una personalità della sua caratura. Allievo di Sergiu Celibidache, intriso della sua fenomenologia della musica, d’Avalos rappresenta per il Novecento una terza via, alternativa da un lato all’avanguardia a tutti i costi, dall’altro al neoclassicismo, rimanendo sì ancorato alla tonalità ma in quella prospettiva tardoromantica propria di musicisti come Mahler, da cui ha appreso soprattutto l’estetica timbrica e delle sonorità, e soprattutto secondo la concezione filosofica dell’arte come esperienza estetica ed etica, di essere collante tra l’io e il tutto, perché “il destino dell’umanità vive già in primis nella coscienza dei creatori di nuova arte e, implicitamente, anche nell’evoluzione de pensiero”. Per d’Avalos la crisi novecentesca della civiltà occidentale era dunque dovuta alla dissoluzione della cultura romantica e in particolare di quell’anelito verso il trascendente come momento ontologico, che dunque si auspica di restaurare attraverso questa via. Molto eloquente della poetica del compositore è l’Idillio per pianoforte e orchestra d’archi, trascrizione del 2008.
Il libro di Adele Boghetich in ultima analisi è uno stuzzicante viaggio musicale fatto di analisi accurate e suggestioni stimolanti, ricco di numerosi rimandi, un vero invito all’approfondimento e innanzitutto all’ascolto dei capolavori presi in esame.
Matteo Camogliano