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La difficile semplicità dell’Orfeo

di Silvia D'Anzelmo - 27 Marzo 2019

di Gluck

Torna al Teatro dell’Opera di Roma, dopo un’assenza di ben 51 anni, l’Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck nel nuovo allestimento in coproduzione con Théâtre des Champs-Elysées, Château de Versailles Spectacles e Canadian Opera Company. La scelta cade sulla versione originale dell’opera, quella eseguita a Vienna nel 1762, “senz’altro la più pura, efficace ed essenziale” secondo il regista Robert Carsen.

Un manifesto programmatico –dichiara Carsen- che proponeva di ricondurre la musica alla funzione primaria di servire la poesia seguendo le situazioni-chiave dell’intreccio, il loro significato e la loro espressività. Senza soffocarla con inutili ornamenti e sottolineature dell’ego dei cantanti.

Quella di Gluck e del librettista Ranieri de’ Calzabigi è una ricerca dell’essenza: il dramma di Orfeo è spogliato velo a velo di tutti i suoi orpelli per rimanere nudo e rivelare tutta la sua forza, il suo pathos. Entrambi eliminano tutto ciò che è eccessivo, ingombrante per arrivare a una purificazione dell’espressione. La partitura è semplice ma incisiva: via la ridondanza galante e barocca per distillare in pure gocce di suono il dramma di Orfeo per la morte della sua Euridice. L’azione breve, anzi brevissima, ma intrisa di un’intensità drammatica e di un pathos che ben ne trascendono i limiti, grazie a quel processo di riduzione quasi ellittica:

L’opera comincia con il coro di “Pastori e ninfe, seguaci d’Orfeo” che piange la morte di Euridice. Non c’è traccia di quella morte, dell’annuncio straziante, del successivo lamento di Orfeo che Monteverdi aveva sfruttato, centocinquant’anni prima, per donarci alcuni dei momenti più potenti nella storia del teatro musicale. In Gluck, prima che il sipario si alzi, il dramma si è già compiuto, almeno in parte. E quindi l’ascoltatore si rende conto da subito che Orfeo ed Euridice sarà un’opera di riflessione e contemplazione, non di azione.

Giovanni Bietti

Ed è proprio seguendo queste direttive che il regista ha strutturato la messa in scena dell’allestimento romano. L’intento di Carsen è proprio quello di illuminare il “nucleo emozionale e narrativo di questo capolavoro”, liberandosi di tutto ciò che non è assolutamente indispensabile.

Non vengono messi in atto complicati o stravaganti ingranaggi per trasformare lo spazio scenico, né sono previste invadenti strutture scenografiche. La regia utilizza semplicemente i quattro elementi: la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco. Le materie della vita.

Robert Carsen

E, in effetti, la scena delineata da Tobias Hoheisel è semplice, anzi, sempre la stessa: una distesa di terra disseccata e arida, proprio come la morte. In questo spazio i tre personaggi  e i tre cori si muovono senza precise coordinate spazio-temporali. Lo stesso accade per i costumi di scena: non c’è nessun riferimento preciso in quelle giacche, pantaloni o gonne, calze e maglioni neri che rimandano al lutto come qualcosa di insito, da sempre e per sempre, nell’esperienza umana. Una modernità senza tempo che non permette distrazioni dalla potenza assoluta del tema centrale: eros e thanatos. Tema condensato nel sudario in cui è avvolta Euridice che diventa velo nuziale mentre Orfeo la conduce fuori dal mondo dei morti. Pochi tratti e gesti semplici per affrontare quest’opera nuda. Come è il caso delle luci di Robert Carsen e Peter Van Praet che seguono il leggero variare delle atmosfere senza mai distrarre lo spettatore. Dal grigio chiaro che accompagna la sepoltura di Euridice ci spostiamo verso i toni dell’arancio ogni volta che guizza fuori Amore, poi grigio-verde e nero per il regno degli inferi. Tutto assolutamente necessario, nulla di più del dovuto è messo in campo in questa messa in scena essenziale ma assolutamente funzionale.

Passiamo ora all’esecuzione. La leggerezza della partitura non è stata abbastanza valorizzata dal direttore Gianluca Capuano e dall’orchestra del Teatro dell’Opera. Anzi, il suono è risultato spesso troppo pesante e gonfio, con dinamiche eccessive che hanno sovraccaricato inutilmente la bellezza di una musica levigata e tersa (anche lì dove volge al cupo e tenebroso per evocare gli spiriti dell’averno). Un vero peccato, soprattutto in quei momenti in cui la voce del controtenore Carlo Vistoli viene completamente sopraffatta dall’orchestra che sembra suonare tutt’altro repertorio.

Per quanto riguarda il canto, invece, la faccenda è un po’ diversa. L’Orfeo di Vistoli ha una voce quasi scura, con un vibrato importante che appesantisce il dolore di questo personaggio piuttosto che distillarlo in maniera cristallina. Nonostante questo, la sua interpretazione non è mai eccessiva nei modi e nei movimenti, tutto è calibrato e posato, elegante e giusto. Stessa cosa per Mariangela Sicilia (Euridice), sempre mesta nella voce e nei gesti, confusa sulla sua sorte ma mai esagerata nei lamenti e nelle movenze; ed Emőke Baráth (Amore) che guizza fuori ogni volta che thanatos sta per prendere il sopravvento, riportando la speranza e permettendo il lieto fine. Non ci sono movenze ‘da opera’ nei loro atteggiamenti, né languori o svenimenti tipici nel repertorio: razionalità, linearità e naturalezza improntano sia le voci che i gesti dei tre personaggi. Il vero neo della rappresentazione è il Coro del Teatro dell’Opera che segue con destrezza i movimenti scenici ma non è capace di cantare come un corpo compatto: ognuno va per sé, la dizione è sempre imprecisa ed è impossibile cercare comprendere cosa viene detto. Il suono è disperso, opaco e sbavato.

Silvia D’Anzelmo

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