Giovanni Puddu
di Francesco Bianchi - 24 Novembre 2018
all’Unione Musicale
Può un’unghia, quest’umile, insensibile, marginale estremità del nostro corpo, mettere a repentaglio la riuscita di un concerto? Certo, se si stratta di un concerto di chitarra classica. Perché in tale strumento, affatto sensuale e viscerale, la carne è a così diretto contatto con la musica, che nel suonarlo traspare tutta la precarietà dell’esistenza. Ma, diretta conseguenza, anche l’esecuzione diventa allo stesso modo incerta e fragile, perché può accadere che si rompa un’unghia, e il chitarrista non sia più in grado di suonare come saprebbe.
Il protagonista di questo preambolo è il chitarrista Giovanni Puddu, che si è esibito mercoledì sera al Conservatorio Verdi di Torino, in un bellissimo concerto dell’Unione Musicale; ne è il protagonista perché alla fine del concerto, poco prima dell’ultimo brano, la fuocoartificiosa Fantasia Ungherese di Metz, gli si è spezzata l’unghia del pollice, rendendo ardua, se non impossibile, l’impresa di concludere il concerto.
Come diceva Jacques Lacan, il grande maestro non è colui che non inciampa, ma colui che riesce a metamorfosare l’imprevisto, lo skàndalon, in una possibilità d’apprendimento. E così Giovanni Puddu, grande didatta dello strumento, non si è arreso di fronte a questa dimostrazione di fallibilità della carne, ma è andato avanti, ha affrontato un brano di una difficoltà inarrivabile e ha addirittura concesso un bis con un famoso, e anche questo difficile, preludio di Villa-Lobos.
Questa storia riassume anche quello che ha comunicato tramite la sua esecuzione, una grande sensibilità artistica ed emotiva. La chitarra non è stato solo veicolo di un suono, ma il teatro in cui è andato in scena un’incredibile spettro di emozioni e sensazioni. Un grandissimo controllo delle dinamiche dello strumento e una particolare abilità nel marcare il canto nelle architetture armoniche più complesse, affrontate nei brani di Albeniz, Granados e De Falla, hanno permesso di esprimere con un traboccante lirismo le concettualità che soggiacciono a quei brani.
Un concerto con una forte vena intimista, capace di andare a fondo nello scavo psicologico delle emotività dei brani eseguiti, figlia da uno stile interpretativo che si lascia andare molto al trasporto emotivo, scaduto però a tratti in una affettazione sentimentale. La Rossiniana di Giuliani che ne è scaturita, molto attenta alle dinamiche e meno spinta sull’aspetto virtuosistico è stata sicuramente un’interpretazione apprezzabile, se non altro nell’insistenza sull’aspetto più lirico del brano. Assolutamente di rilievo l’Homenaje pur le tembeau de Claude Debussy di De Falla, in cui l’esecutore è riuscito a creare una compenetrazione estetica quasi perfetta, fra l’ardita costruzione armonica e la melliflua malinconicità del canto.
In definitiva, dopo aver ascoltato Giovanni Puddu, si è davvero convinti che questo strumento, così poco presente nelle programmazioni concertistiche, sia davvero capace di parlare, con voce forte e decisa, anche nelle grandi sale da concerto, come quella del conservatorio di Torino.