Cronache dalla Biennale Musica 2020
di Redazione - 7 Ottobre 2020
La musica d’oggi respira tra dinamicità e intimità.
La Biennale Musica 2020 si è svolta a Venezia dal 25 settembre al 4 ottobre e ha presentato alcuni tra i compositori, interpreti, ensemble e orchestre di punta della scena internazionale. Un’attenzione particolare è stata prestata alla giovane creatività rappresentativa delle inquietudini del nostro tempo.
Mercoledì 30 settembre alle 17, al Piccolo Teatro Arsenale, è stata la volta del belga Ensemble Fractales, composto da cinque interpreti di altissimo livello: Gian Ponte al pianoforte, Marion Borgel al violino e alla viola, Diego Amaral Coutinho al violoncello, Renata Kambarova al flauto e Benjamin Maneyrol al clarinetto. I musicisti sono riusciti nell’intento di affrontare la complessità della scrittura combinando una raffinata capacità tecnica con una qualità espressiva sensibile e profonda.
Il programma del concerto si muoveva tra dinamicità e intimità, combinando tre lavori energici, rispettivamente dei compositori Alessandro Melchiorre, Yann Robin e Maurizio Azzan, con due lavori più espressivi dei compositori Mikel Urquiza e Fausto Sebastiani.
Ad aprire il concerto SoNar di Alessandro Melchiorre, una commissione de La Biennale Musica, il cui titolo rimanda alla forma strumentale seicentesca, “la canzone o la canzone da sonar”. Questa aveva la stessa struttura del “ricercare” ma un carattere diverso, che invece restava legato al genere profano della chanson francese. Ma l’alternanza di maiuscole e minuscole nel titolo, rinvia anche al Sound and Navigation Ranging, uno strumento usato nella navigazione che individua, mediante la trasmissione e la ricezione di onde sonore, la presenza di corpi nell’acqua.
È nella forma musicale che troviamo il principale riferimento allo strumento di navigazione citato. Il lavoro si dipana a partire da una situazione turbolenta e quasi disordinata, dove il quintetto è pensato nel suo insieme; presenta figure musicali in forte, con il pianoforte usato anche nella cordiera, mentre il violino e il violoncello emergono con frasi espressive quasi a ritrovare una “rinnovata cantabilità”. Gradualmente il brano trova un ordine, un approdo calmo, quasi un “largo”, in cui i frammenti lineari si riportano a suoni tenuti, spesso in registri estremi o ribattuti già ascoltati, facendo trovare dei riferimenti percettivi, degli echi riflessi dal fondale marino.
Ars Memoriae del basco Mikel Urquiza, composto nel 2019, entra in relazione diretta con l’antica disciplina che ha indagato come funziona la memoria e ha sviluppato tecniche per usarla meglio. Come spiega il compositore, The art of memory è un famoso saggio di Frances Yates che traccia l’evoluzione di questa conoscenza dalle origini greche sino all’ampio utilizzo nell’Europa medievale e rinascimentale. Urquiza appare interessato anche alla relazione tra l’architettura e la forma musicale: tra le tecniche della “memoria” sceglie quella dei loci o luoghi, ovvero la costruzione di un edificio mentale in cui possono essere immagazzinati ricordi legati a spazi diversi.
Nella presentazione al brano l’autore traccia un parallelo tra i cinque brevi movimenti di cui è composto e gli ambienti di un’antica domus romana, tra i cui corridoi l’aria riporta antichi ricordi. Il suono del quintetto è minimale, spesso al limite del piano, e include ritmi di colpi di lingua, soffi, voce sussurrata dei musicisti, suoni delicati nella cordiera o sulla tastiera del pianoforte. D’improvviso, nel terzo movimento, Urquiza evoca degli echi di melodie conosciute che risvegliano una sensualità dimenticata: frammenti da Stand by me al flauto e al clarinetto, e un accenno da L’Inverno di Antonio Vivaldi al violino, violoncello e pianoforte.
Dopo le atmosfere più raccolte evocate da Urquiza è stata la volta di Fterà, del francese Yann Robin, brano per violino, clarinetto basso e pianoforte composto nel 2014. Robin è un autore vicino a compositori francesi quali Franck Bedrossian e Raphael Cendo, interessati alla sperimentazione sulla saturazione, ovvero alla ricerca di un suono che si spinge agli estremi dell’udibile. Così come notato a proposito del lavoro di Melchiorre, anche in questo caso il suono è immaginato nell’insieme strumentale, come un oggetto fisico unitario e complesso. Il percorso musicale inizia raggiungendo il massimo dell’energia espressiva per disperderla lentamente, quasi in un “adagio”, con ritmi profondi e gravi. Il suono è il risultato di diverse tecniche strumentali: il violino con glissati sino all’acuto e l’arco al ponticello evocando un “grattato”, il clarinetto basso con suoni multipli, soffi e colpi di lingua gravi, il pianoforte con arpeggi velocissimi, ribattuti acuti e colpi gravi anche nella cordiera.
La seconda commissione de La Biennale Musica in programma è stata Erratic Time di Fausto Sebastiani. Il brano riporta al centro del pensiero compositivo il concetto di “tempo”, immaginato sia nella possibilità di scolpire una forma in ogni brano musicale, sia pensato nel suo significato più generale. Come dichiarato da Sebastiani, la composizione ha trovato un importante spunto di riflessione nel dilatarsi dei tempi del quotidiano e nell’inedito paesaggio sonoro collegati alla situazione del lockdown: «La flessibilità e la frammentazione degli eventi, l’emergere del silenzio e della riflessione nei mesi della quarantena fanno intuire che oggi “essere nel tempo” è un’esperienza basilare del vivere quotidiano, esposta a divergenti campi di forza». Queste idee si esplicitano nell’accelerazione o decelerazione di una linea ritmica, così come nell’uso di “durate” definite dall’agogica o dal mutamento del timbro. I punti di energia espressiva entrano in collisione l’uno con l’altro e l’andamento generale è plurale, multiforme e concretamente legato al timbro. La qualità del suono è cangiante e cristallina; si definisce in linee di contrappunto ove son presenti armonici naturali o artificiali degli archi, colpi di lingua e suoni multipli del flauto, suoni estremamente acuti o gravi del pianoforte, ma senza mai usare la cordiera.
Il concerto si è concluso con Of other spaces per cinque strumenti spazializzati, composto nel 2017 da Maurizio Azzan, anche lui vicino al concetto compositivo della saturazione, qui indagato attraverso la spazializzazione, come suggerito dal titolo. Già la posizione dei musicisti sul palcoscenico rimanda a questa idea: flauto e violino al centro, vicini e di spalle, gli altri più distanti, il pianoforte centrale ma in posizione più arretrata, il violoncello a destra e il clarinetto a sinistra. Nella disposizione si esplicitano le intenzioni dichiarate dall’autore «Tutto inizia al centro, fra sé e sé. Come un piccolo cuore pulsante – microuniverso chiuso contrapposto al vasto spazio della sala che lo circonda – due corpi a contatto respirano nella stessa vibrazione, all’unisono».
Pian piano si ascoltano risonanze lontane che rimandano ad altri possibili spazi, a luoghi remoti, a melodie antiche quasi un “canto armonico tibetano” evocato dalla cordiera del pianoforte suonata con fili delicati, per poi perdersi in echi di balbetti ritmici. Quel centro iniziale si dilata ma ci accoglie in un respiro ancestrale dove i musicisti, il pubblico e lo spazio abitato si ritrovano in una unità inscindibile.
Vera Vecchiarelli