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L’Astrée di Giorgio Tabacco e i mille volti di Orfeo

di Silvia D'Anzelmo - 27 Febbraio 2020

Il prossimo 27 giugno l’ensemble l’Astrée sarà ospite dei Giardini della Filarmonica Romana con il progetto Alla ricerca di Orfeo, inserito all’interno della stagione dei concerti dell’Accademia Filarmonica. Per l’occasione abbiamo incontrato Giorgio Tabacco, clavicembalista e fondatore del gruppo. Con lui abbiamo parlato del mito di Orfeo e di come sia riuscito e, ancora, riesca a ispirare la fantasia di artisti e letterati, musicisti e drammaturghi.

Innanzitutto vorrei che lei mi parlasse dell’Ensemble L’Astrée, del vostro lavoro e dell’idea che ha dato vita a questo progetto musicale.

Certo. L’ensemble l’Astrée è nato trenta anni fa, nel 1991, con l’intento di promuovere la musica del sei e settecento eseguita con strumenti antichi o costruiti con criteri storici. Fin da subito siamo stati interessati a questo approccio rispetto alla musica barocca e, in particolare, abbiamo rivolto la nostra attenzione al ricco patrimonio musicale piemontese, in gran parte ancora inedito. E questa peculiarità ha suscitato molto interesse da parte del pubblico e della critica internazionale. Torino e, più in generale tutto il Piemonte, è ricco di compositori, come Giovanni Battista e Giovanni Lorenzo Somis, Gaetano Pugnani o Gaspare Giuseppe Chiabrano, che oggi sono in parte dimenticati ma che nel sei/settecento hanno girato l’Europa, trionfando in città come Parigi, Londra, San Pietroburgo… Più avanti, l’ensemble ha cominciato a prendere un respiro nazionale e internazionale che ci ha portato a incidere moltissima musica (non solo piemontese). Un progetto importante al quale abbiamo partecipato è stato la Vivaldi Edition con la quale abbiamo dato voce a molti dei 450 autografi vivaldiani che la Biblioteca Nazionale di Torino conserva fin dagli anni 30. Oltre a inediti o ad autori poco conosciuti, ci siamo dedicati anche a Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Händel o Georg Philipp Telemann. Quest’anno, poi, eseguiremo molte musiche di Giuseppe Tartini in occasione dei 250 anni dalla morte.

Come assetto, siamo un gruppo da camera che può variare dai 3 agli 8 fino ai 10 strumentisti. Il nostro primo violino, Francesco d’Orazio, è una delle colonne portanti dell’ensemble: entrato a far parte dei nostri molto presto, subito dopo la fondazione de l’Astrée, con lui ho intrecciato un profondo sodalizio non solo artistico ma anche e soprattutto umano. Come accennavo prima, i nostri sono strumenti d’epoca o copie. Nel caso di Francesco, il suo è un bellissimo violino costruito da Giuseppe Guarneri nel 1720 circa. Gli altri, invece, sono copie di strumenti originali, montati seguendo le indicazioni dell’epoca: corde di budello, arco più leggero, violoncello senza puntale… tutto questo comporta anche una prassi esecutiva particolare, legata non solo alle caratteristiche degli strumenti ma al tipo di repertorio: tutte cose che abbiamo assimilato grazie ai nostri trent’anni di studio ed esperienza. Oltre a Francesco, nel gruppo abbiamo Paola Nervi, secondo violino, Elena Saccomandi alla viola, Nicola Brovelli al violoncello, mentre io suono il clavicembalo. Questo, in sostanza, è l’Astrée: un gruppo piuttosto antico, non solo per la musica che esegue ma per i quasi trent’anni di attività.

Come si posiziona l’Italia in questo panorama musicale?

La musica antica eseguita con criteri storici è arrivata un po’ tardi in Italia, come molti fenomeni culturali di tipo internazionale. Dobbiamo considerare che l’attenzione a questo tipo di repertorio e di esecuzione è nata negli anni cinquanta in Nord Europa e, in particolare, in Olanda per poi spostarsi verso Vienna e Parigi. La Francia, ancora oggi, è uno dei posti più ricchi di musica antica, eseguita nei festival oltreché all’Opéra National de Paris o all’Opéra Bastille che, ogni anno, presentano almeno un titolo operistico barocco. In Italia, invece, solo negli ultimi 40 anni la musica antica ha avuto un vero e proprio sviluppo: basti pensare che associazioni importanti come La Filarmonica Romana che dedicano oramai molto spazio a gruppi come il nostro.

L’uso di strumenti antichi, com’è percepito dal pubblico? È una curiosità, un esotismo oppure l’apertura su un mondo ‘altro’ oramai concluso ma ancora affascinante?

In effetti, il suono di questi strumenti è molto diverso da quello a cui siamo abituati. Ora, a parte il clavicembalo che, spero, tutti conoscano e sappiano che ha un suono molto differente dal pianoforte; nel caso di altri strumenti, come gli archi, l’effetto è molto più morbido grazie alle corde di budello ma, al tempo stesso, il suono si espande in maniera completamente differente: è meno intenso e roboante ma più intimo e accogliente. Dobbiamo pensare che, in passato, non c’erano grandi sale da concerto come oggi per cui le esigenze erano altre. Dobbiamo poi considerare anche l’accordatura degli strumenti: oggi il diapason è standardizzato sui 442 Hz mentre prima variava a seconda della zona; se a Venezia era già a 440 a Parigi era a 392. Tutto questo crea differenze rispetto alla standardizzazione cui siamo abituati oggi. Passiamo alle orchestre: erano molto piccole rispetto a quelle odierne. Per eseguire Bach si usavano 8 violini, 2 viole, i violoncelli, il contrabbasso e gli strumenti a fiato, se previsti. Nel novecento, invece, molte orchestre hanno eseguito questo tipo di repertorio come fosse quello romantico o post-romantico, quindi, con un organico enorme che crea equilibri di suono impensabili per l’epoca barocca. Poi si è cominciato a differenziare e sono nati i primi ensemble specializzati solo in un determinato repertorio: certo, all’inizio non era il massimo perché gli musicisti dovevano prendere confidenza con gli strumenti storici, c’erano fischi e stonature che ora non ritroviamo più. Ecco, all’epoca il pubblico poteva provare una certa perplessità davanti al fenomeno perché non c’era l’abitudine di ascoltare la musica barocca eseguita con criteri storici. Ora, invece, il problema non si pone perché il livello generale è cresciuto tantissimo. Anzi, ora il fenomeno si è allargato anche ad altri repertori, come quello del primo ottocento, che vengono riscoperti attraverso le pratiche esecutive che gli appartengono. Faccio un esempio: l’Orchestre Revolutionnaire et Romantique fondata e diretta da Sir Eliot Gardiner esegue con gran perizia lavori come quelli beethoveniani. A livello qualitativo non c’è differenza rispetto alle orchestre più rinomate, come una Santa Cecilia. Ma abbiamo la possibilità di fare un ascolto differente, più veritiero perché rispondente ai volumi sonori effettivamente voluti da Beethoven. Naturalmente ci sono ancora degli intransigenti che non amano questo tipo di esecuzioni e non verrebbero mai ad ascoltare noi, l’Europa Galante di Fabio Biondi… ma, onestamente, credo che la percezione di questo fenomeno sia molto cambiata nel pubblico: è stato un fenomeno tanto forte da mettere in evidenza delle qualità sonore e interpretative oramai imprescindibili. Non si è trattato di una moda passeggera, ma di un cambio di rotta importante che ha capovolto la situazione: il pubblico che vuole ascoltare il barocco, non credo vada più ai concerti delle grandi orchestre moderne ma ricerca gli ensemble specializzati in questo tipo di repertorio. In sostanza: non solo apprezza l’uso di strumenti storici ma quasi lo esige.

Il prossimo 27 giugno sarete ospiti dei Giardini della Filarmonica con il progetto “Alla Ricerca di Orfeo”, inserito all’interno della programmazione cameristica estiva. Com’è nata l’idea di una serata dedicata al mito di Orfeo?

Questo progetto è nato grazie a Laura Torelli che sarà la nostra voce recitante. Laura è un’attrice bravissima: ha studiato con Giorgio Strelher, è stata assistente di Moni Ovadia Teatherorchestra, effettua tournée in tutti i principali teatri d’Italia e d’Europa. Insomma: tante esperienze, tutte di altissima qualità. È lei che mi ha proposto di dedicare uno spettacolo a Orfeo, dopo essersi imbattuta in una tesi di laurea che dava una lettura assolutamente attuale, contemporanea e sfaccettata di questo mito. L’idea mi è piaciuta molto e, in base alle sue scelte letterarie, io ho fatto quelle musicali. Abbiamo lavorato tantissimo prima di arrivare alla sistemazione finale perché è stato difficile trovare un equilibrio tra le due parti e selezionare il materiale tra la miriade di opere che trattano il tema. Alla fine siamo riusciti a creare un percorso di letture e di musiche che seguano le diverse interpretazioni fatte nella storia del mito di Orfeo.

E voi cosa avete voluto chiedere al mito di Orfeo?

Orfeo è un personaggio fuori dal tempo, come tutti i miti. E noi, con questo lavoro, abbiamo voluto provare a restituire parte delle trasformazioni, degli echi, delle domande che questo mito ha saputo suscitare nelle diverse epoche della storia. In sostanza, la nostra richiesta al mito di Orfeo è stata quella di mostrarci tutte le sue sfaccettature, le sue potenzialità. Per farlo, abbiamo scelto letture e musiche che affrontano questo racconto da punti di vista differenti. Alle letture di Angelo Poliziano, Alessandro Striggio e Ovidio si affiancano le musiche di Claudio Monteverdi, Arcangelo Corelli o Christoph Willibald Gluck. Poi, pian piano, ci spostiamo verso la contemporaneità: ai testi di Rainer Maria Rilke abbiamo pensato di associare i Quattro Duetti per due violini di Luciano Berio. Francesco d’Orazio, infatti, oltre a essere un grande esperto di musica barocca, si dedica anche al repertorio contemporaneo. Abbiamo scelto di sfruttare questa sua versatilità per inserire le musiche di Berio che ci sono parse particolarmente evocative del testo di Rilke. Poi ci sono i Dialoghi di Leucò di Cesare Pavese ai quali affiancherò l’esecuzione al clavicembalo de Les Ombres Errantes. Concluderemo con uno dei brani più rappresentativi del barocco: La Follia di Antonio Vivaldi con cui evocheremo la parte finale del mito di Orfeo, il momento in cui viene smembrato dalle baccanti pervase da un’euforia, appunto, quasi folle. Quindi, il viaggio parte da un caposaldo, il mito classico, poi l’interpretazione del racconto quasi si capovolge rispetto alla versione originale: dall’Orfeo che sfida gli inferi per riavere la sua bella Euridice a un Orfeo turbato perché non vuole avere niente a che fare con il mondo dei morti così come Euridice che, inconsapevole, vorrebbe restarsene lì tranquilla. Questo mito, inoltre, può essere analizzato dal punto di vista di Orfeo, come hanno fatto gli autori classici; ma c’è anche un punto di vista di Euridice che nella contemporaneità comincia a prendere il sopravvento. Quindi, dalla classicità procediamo verso le interpretazioni contemporanee che si concludono con i brani (quasi femministi) di una poetessa inglese dei quali, però, non voglio anticipare nulla.

Tutti i brani scelti sono strumentali. Come siete riusciti a farli interagire con l’unico brano operistico, ossia Che farò senza Euridice di Gluck?

Sì, in effetti, il brano di Gluck è l’unico che abbiamo preso a prestito dall’opera. Ma era impossibile rinunciare perché molto evocativo e, anzi, in questo nostro viaggio diventa un vero e proprio spartiacque: finisce la parte ‘classica’ del percorso per avvicinarci al novecento. Ovviamente, era impensabile chiamare qualcuno a cantare per 2 minuti e poco più, allora abbiamo deciso di far eseguire la parte del soprano al violino che ha la stessa tessitura. Francesco D’Orazio ci ha fatto ascoltare la sua versione di Che farò senza Euridice e ci siamo resi conto che funzionava benissimo. Inoltre, è un brano molto conosciuto quindi ci siamo permessi di eseguirlo in questa versione solo strumentale senza minare la sua bellezza. Questo ci ha permesso anche di creare un piccolo intervallo, un momento di separazione tra la prima e la seconda parte della serata. Gluck, così come Monteverdi, sono due autori a cui non potevamo assolutamente rinunciare perché sono alla base di questa storia, dal punto di vista musicale.

Silvia D’Anzelmo

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