Ultimo aggiornamento14 ottobre 2024, alle 16:05

Alberto Mattioli, o di come i gatti salveranno l’opera

di Alessandro Tommasi - 4 Marzo 2021

Alberto Mattioli lo conosciamo tutti. Modenese, giornalista, melomane, gattaro. La sua attività l’ha portato ad essere uno dei punti di riferimento del panorama teatrale nostrano, di cui, ben più che semplice testimone, è un (g)attore a tutti gli effetti. Io l’ho incontrato finalmente l’estate scorsa durante l’intensivo Tour della Ripartenza, quando tra Valle d’Itria e Sferisferio sono stato sottoposto ai riti di iniziazione della critica operistica italiana: fare il pellegrinaggio dei festival estivi, imparare il corretto rito devozionale per il Divino Toti (il gatto di Antonio Smaldone), sfondarsi di carne alla brace a Martina Franca, scoprire che le fave porchettate non hanno la porchetta, rimanerne estremamente deluso, assaggiarle comunque, venerarle da qui a per sempre. Con questo ritratto, però, volevo approfondire la sfaccettata e al contempo monomaniacale figura di Mattioli, riflettendo con lui sul ruolo del critico e sul destino dell’opera. I virgolettati sono tratti da una rapida conversazione telefonica o, quando indicato, dai suoi libri.

Il giornalista

Questo è il volto che conosciamo meglio e con la regolarità di uno sciroppo per la tosse ci somministriamo le recensioni di spettacoli “cotti e mangiati” pubblicate su La Stampa, quotidiano per cui lavora dal 1 luglio del 5 p.G. (post Gattum, cinque anni dall’arrivo di Violetta, il primo felino adottato da Mattioli nel 2001 [per i più pigri o per chi ha fatto il Classico, il 2006]). I più attenti e i più longevi avranno letto anche i suoi articoli su Il Resto del Carlino, Il Giorno, Classic Voice, Musica, L’Opera e molte altre riviste.

Insomma, Alberto Mattioli è senza dubbio uno dei critici più influenti d’Italia. Su Libero il fu Paolo Isotta lo investì il 27 novembre con il titolo di “più famoso critico italiano”, fondamentalmente cedendogli il trono con un passaggio di consegne che sa di profetico. Non che Mattioli sia poi così d’accordo: “Io non ho la forma mentis del critico, ho la forma mentis del giornalista”, specifica. E infatti Mattioli si occupa di molte altre cose, oltre alle recensioni d’opera. Ciononostante – o forse, proprio per questo – lo spazio critico da lui ricoperto è importante e seguitissimo. “Proprio il fatto che, non per merito mio ma di alcune direzioni illuminate de La Stampa, io abbia questo spazio, significa che uno spazio c’è, esiste, c’è un’offerta perché c’è una domanda”. Una domanda che, contrariamente a quanto si ripete con tono lamentoso e spesso autogiustificatorio, “nel resoconto del fatto operistico non si accontenta di qualche riga che gli dice se il tremillesimo Rigoletto è bello o brutto in relazione a tutti i Rigoletti che l’hanno preceduto”.

E non finisce qui: “alla critica musicale, in Italia ma anche all’estero, hanno scippato il suo core business, ossia dire com’è la nuova musica: se non la si fa, è un po’ difficile scriverne”. È la contemporaneità, per Mattioli, l’unico criterio rilevante per un critico, che si tratti di repertorio o prime esecuzioni: “Perché andiamo a teatro? Perché facciamo l’opera? Se l’opera è un museo e si va solo per confermare le proprie certezze, non ha senso scriverne. Altrimenti possiamo giocarcela come una delle manifestazioni di questa nostra contemporaneità e allora è diverso. È inutile lamentarsi dello spazio che sparisce dai giornali, se ciò che i teatri propongono è sempre la stessa cosa”. E questo è uno dei temi più cari al Mattioli giornalista, che confluisce abbondantemente nei suoi libri.

Lo scrittore

Ci si potrebbe chiedere se il giornalista non sia in fin dei conti anch’egli uno scrittore, ma perdonatemi, mi serviva il titolo di paragrafo per questioni di redazione. E d’altronde i libri di Alberto Mattioli meritano effettivamente un paragrafo a parte: inferiori numericamente alla sua torrenziale attività giornalistica, non lo sono certo per qualità. Dei cinque volumi pubblicati dal giornalista, lo scrivente ha affondato le grinfie solo sugli ultimi tre, pubblicati per Garzanti, tre libri che hanno peraltro preso rapidamente il volo con nuove edizioni, versioni tascabili ed eleganti fascette celebrative. Meno grigi più Verdi, il primo a sbancare il botteghino, porta le riflessioni sul ruolo eminentemente sociale dell’opera verdiana in una forma più estesa e rifinita rispetto agli articoli e alle dichiarazioni del Mattioli, mantenendo al contempo tutto lo stile asciutto, laconico e faceto così propri del più famoso gattolico italiano – un titolo, questo sì, che il Nostro accetterebbe con gioia (ma, da vero devoto, risponderebbe che non ne è degno).

E parlando di gatti, a Meno grigi più Verdi segue Il gattolico praticante, un serissimo divertissement dedicato ai carini e coccolosi dominatori del mondo (i gatti, chiaramente), che è semplicemente perfetto come regalo per l’amico gattaro cui non sai mai cosa portare quando vuoi essere simpatico, ma al contempo mostrarti uomo di scienza e di sapienza. Io, personalmente, c’ho trovato il prossimo regalo per mia sorella (e i suoi tre gatti assassini). Il terzo libro per Garzanti, Pazzo per l’opera, è il più interessante dei tre, a mio avviso. Suddiviso in Ouverture, cinque Atti, quattro Intervalli e quattro (brevi) Finali, “il Pazzo” tratta con feroce lucidità camuffata da un ghigno sornione di tutto il mondo lirico, dipinto con le pennellate nitide e sicure di chi in quel mondo ci sguazza da tutta la vita. Pazzo per l’opera è più che un volume autobiografico sulla totalizzante passione di Alberto Mattioli, è un manuale di retorica operistica, un vero libretto di istruzioni per l’uso e l’abuso del teatro, un’immersione totale in quelle sale, in quei palchi, dietro quelle quinte. In appena 200 (scorrevolissime) pagine si parla di cosa significhi il teatro, si viaggia tra spettacoli e festival che tutti dovremmo conoscere, si lancia un appello a tutti coloro che lo vogliono ascoltare.

Ma chi è, dunque, l’ascoltatore del Pazzo? L’appassionato? Il curioso? L’operatore? L’esperto? Il Melomane Medio? Non saprei, ma per ognuno di loro Mattioli sa trovare uno spunto di riflessione adatto, che sia un pratico consiglio per mangiare bene al Glyndebourne Festival o una penetrante riflessione sul come il meccanismo organizzativo dei teatri non risponda più alle esigenze del pubblico contemporaneo. E questa è un’altra questione assai cara al nostro GM (gattomane medio).

Il drammaturgo

“Come sappiamo non ha alcun senso fare Aida perché sono 10 anni che non la facciamo e quindi serve una nuova produzione, come fanno i teatri italiani, appunto. Ha senso fare Aida se hai un’idea forte di cosa significhi. Il Dramaturg è quello che discute di questa idea con la Direzione Artistica e coordina le attività intorno alla produzione, tra cui la comunicazione”. Questo è quello che, in teoria, dovrebbe fare un Dramaturg, figura chiave nei teatri d’oltralpe, ma in Italia non particolarmente visitata. Finché Francesco Micheli, Direttore Artistico del pluripremiato Festival Donizetti di Bergamo, non invitò Mattioli a ricoprire quel ruolo. Era l’autunno del 19 p.G. (o il 2020, in anni umani), quando Alberto Gattioli iniziò in piena pandemia a curare la drammaturgia del Festival. Ma proprio la pandemia ha portato il giornalista quasi ad una co-autorialità nell’immaginare il palinsesto della WebTV del Donizetti, esondando dal ruolo normalmente previsto per il drammaturgo, ma consegnandoci uno dei progetti di streaming organicamente meglio concepiti e curati.

D’altronde, “un festival ha meno bisogno di una figura del genere, avendo un’identità molto forte di suo, specie un festival monografico come il Donizetti. Non ti nascondo però che, nell’idea di Francesco Micheli, c’è un po’ di provocazione: introdurre una figura diversa significa anche mostrare che nel resto del mondo è stata inventata la luce elettrica, è stato inventato il motore a scoppio”. L’incarico di Alberto Mattioli continuerà nella prossima edizione del Festival bergamasco e non ci resta dunque che sperare in un anno più fortunato per l’opera italiana.

Il librettista

Proseguendo nell’impegno operistico del Nostro, un lato non così noto dell’opera di Alberto Mattioli è quello del librettista, ulteriore declinazione della sua attività di scrittore. Mattioli debutta nel ruolo di librettista nel 2015 per La Paura al Teatro Coccia, con le musiche di Orazio Sciortino. “È stata un’esperienza da librettista sui generis. La cosa mi fu chiesta da Orazio, che è un caro amico, e il libretto è tratto da una novella di Federico de Roberto, quello dei Viceré, da cui in realtà io feci solo una riduzione, nel senso che non c’è una sola parola che non sia della novella”. Diversamente da quanto avvenuto nel 2016 per il secondo progetto La Rivale, da un racconto di Éric-Emmanuel Schmitt, sempre per il Teatro Coccia e con le musiche di Marco Taralli. La Rivale è la vicenda di una prima donna ossessionata dalla Callas, “una classica opera sull’opera”. Racconta Mattioli: “quello fu divertente e un ottimo successo, ripreso in un paio di altre occasioni, anche in Ungheria. Penso che il librettista sia, in questi casi citati, una figura secondaria, l’opera è del musicista, io son dispostissimo a fare gli aggiustamenti necessari. Mentre Orazio se li è fatti da solo, con Taralli c’è stato proprio un lavoro, direi, ottocentesco, sillaba per sillaba”. Ma non è il suo ultimo impegno: vedremo Mattioli di nuovo all’opera come librettista prossimamente, per un progetto tratto da Gianni Rodari con musiche di Alberto Cara, commissionato da Gian Maria Aliverta. Quello dei libretti è poi un tema centrale per l’opera di oggi: “Il più bel libretto degli ultimi anni in assoluto, per me, è Written on skin di Martin Crimp, messo in musica da Benjamin. Non è un testo facile, è leggibile a più livelli, ma ha una grandissima efficacia teatrale”. Qual è dunque il compito di un librettista? “Il librettista deve chiarire al compositore ciò che in teatro funziona e ciò che non funziona. Da questo punto di vista aveva ragione Auden, quando parlava del libretto del Rake’s Progress. La qualità letteraria, pur altissima, non è fondamentale, fondamentale è dare al compositore un testo che funzioni, anche se poi è dal pieno ‘800 che il vero drammaturgo non è il librettista, ma il compositore stesso”.

Il melomane

Con Alberto Mattioli, alla fine, si torna sempre lì: all’opera, al perché funziona, perché non funziona, come potrebbe funzionare, perché non la si fa funzionare in quel modo. “Nel momento in cui morirà l’ultimo abbonato ottuagenario, le Fondazioni Lirico Sinfoniche si troveranno senza pubblico e dovranno o cercarsene uno nuovo, o chiudere. Questo è il futuro in Italia, benché si continui a far finta, in malafede, che il tradizionale pubblico nazionalpopolare esista ancora”. Ci si potrebbe chiedere com’è possibile che una cosa così evidente non abbia portato ad immediati provvedimenti, nelle varie gestioni non solo italiane dei massimi teatri nostrani. “Alcuni sovrintendenti c’hanno provato. Ho trovato la gestione Lissner della Scala, fra molti alti e bassi, comunque connotata dal tentativo di fare qualcosa di nuovo, il problema è che la resistenza dell’ambiente è molto forte. Un sovrintendente non è da solo alla guida, ha un consiglio di amministrazione cui render conto, ha una classe politica indecente dal punto di vista culturale con cui dialogare, ha un mondo intero col quale relazionarsi”.

Non c’è nulla da fare, quindi? Dobbiamo rassegnarci a guardare l’opera lirica come ad uno spettacolo decadente in un mondo in decadenza? Neanche per sogno: “L’opera lirica è in crisi da quando esiste”, esordisce Mattioli nel Quinto Atto del suo Pazzo (i prossimi virgolettati sono tratti da lì), in crisi sia perché costa (ed è sempre costata), sia perché “a teatro, da sempre, ogni epoca guarda a quelle che l’hanno preceduta come a un’età dell’oro, bella ma perduta”. E d’altronde, i meccanismi che si attivano per chi regge e gestisce i teatri lirici sono un circolo vizioso. I teatri temono la sala vuota in quanto “dà, là fuori, al mondo ostile che li circonda, la conferma della loro irrilevanza” e, di conseguenza, “i direttori artistici, magari in buona fede, credono che il loro compito sia di offrire al pubblico quello che vuole, invece che quello di dargli ciò che non sa di volere”. Insomma, tenuti sotto scacco dal timore di perdere pubblico, ci si starebbe collettivamente cacciando in un vicolo cieco alla cui fine ci troveremo con ancora meno pubblico, senza mai avere il coraggio di compiere quel salto, di correre il rischio, magari fallendo ai primi tentativi, ma riprovandoci finché non si imbocca la strada giusta. “Si tratta di fare un grande sforzo per mettere questi capolavori a contatto con la contemporaneità. E allora, proprio perché di capolavori si tratta, ci esploderanno in mano con tutta la loro forza, da quella dinamite emozionale che sono.”

Questa, credo, è la morale mattiolica, se di morale possiamo parlare. C’è speranza per l’opera in Italia, la condanna all’irrilevanza che così spesso Mattioli denuncia è un rischio, non il nostro inevitabile destino. C’è speranza perché, nascosto dietro ogni tagliente sferzata che può lanciare dai suoi scritti, Mattioli ha fiducia in chi l’opera la fa, in chi la ama e persino in chi ancora non sa di amarla. C’è speranza perché, in fondo (ma molto in fondo), Mattioli crede ancora che le persone possano fare la differenza.

E se le persone ci deluderanno, ci restano sempre i gatti.

Alessandro Tommasi

Autore

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro.

Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia.

Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella.

Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

tutti gli articoli di Alessandro Tommasi