Il mistero del silenzio
di Redazione - 29 Aprile 2017
A Minneapolis, negli Stati Uniti, c’è una camera anecoica, attualmente uno dei posti più silenziosi del mondo, costruita in maniera tale da annullare del tutto sia i suoni provenienti dall’esterno, sia i suoni riflessi provenienti dall’interno.
Per farlo la camera è composta da un involucro esterno nel cui interno sono presenti le effettive pareti della camera, composte da una fibra di vetro spessa 1 metro e ricoperte da una tappezzeria tridimensionale in schiuma sintetica, la cui peculiarità è quella di spezzare e assorbire il 99% delle onde sonore. Si dice che sia così silenziosa che può portare allo squilibrio mentale chiunque si trovi al suo interno entro un’ora. Così, una volta entrati, si dovrebbe venire a contatto con il silenzio puro, con il silenzio assoluto, se definiamo il silenzio come ‘assenza di suoni’.
Una volta che l’apparato uditivo si abitua al silenzio, per assurdo, il nostro corpo diventa l’unica fonte di suoni: il sangue che scorre nelle vene, il cuore che batte, l’aria che entra ed esce dal nostro apparato respiratorio.
In queste condizioni capita di perdere l’equilibrio fisico e psicologico, e spegnendo la luce è possibile sperimentare una vera e propria privazione sensoriale che può provocare claustrofobia, nausea, attacchi di panico e allucinazioni uditive.
Così, nel posto più silenzioso al mondo, dove vengono assorbiti e annullati tutti i suoni, banalmente si potrebbe pensare che non si dovrebbe sentire nulla, che dovrebbe esserci solamente ‘silenzio’, essendo silenzio il termine contrario al sostantivo ‘suono’.
Aprendo un dizionario qualsiasi il termine silenzio probabilmente sarà definito come assenza di suono, come ‘’mancanza di perturbazioni sonore’’, e questo può essere vero in parte, ma probabilmente è un’idea piuttosto povera e restrittiva. Penso che ci sia qualcosa di più profondo e nascosto che una semplice ‘’assenza di suono’’.
A prova di ciò ci sono i cosiddetti ‘’Padri del deserto’’, ovvero monaci, eremiti e anacoreti che che nel IV secolo, dopo la pace costantiniana, abbandonarono le città per vivere in solitudine nei deserti d’Egitto, di Palestina e di Siria. Molti scrittori come Lucien Regnault hanno raccolto i loro apoftegmi, i loro insegnamenti, parole nate e maturate nel silenzio la cui profondità rispecchia la ancestralità e la primordialità dei posti in cui sono state prodotte e pensate. In questo caso è improponibile dire che questi uomini, conosciuti anche come ‘’i seminatori del silenzio’’, siano riusciti ad elaborare tra i più alti insegnamenti solamente grazie alla ricerca di uno sterile silenzio. Penso, invece, che la loro esperienza sia stata intensamente connotata da una dimensione sacrale, primordiale, raggiunta grazie e con il silenzio. Per continuare questo viaggio alla scoperta del silenzio, farei un piccolo excursus parlando di alcune opere di alcuni maestri del passato.
Seminatori del silenzio
La prima opera di cui vorrei parlare è una tela di Michelangelo Merisi (più conosciuto con il nome di Caravaggio), dal titolo San Girolamo scrivente, realizzata tra il 1605 e il 1606, probabilmente realizzata tra il soggiorno Genovese e Romano. Un periodo piuttosto travagliato, in cui ogni occasione sembrava buona per mettersi nei guai, tanto che a Roma ricevette come condanna la decapitazione, che poteva esser eseguita da chiunque lo avesse riconosciuto per strada.
(San Girolamo – Caravaggio)
La tela citata rappresenta il santo nell’atto di tradurre della Bibbia dall’ebraico al latino, più precisamente l’Antico testamento dall’ebraico, mentre il Vangelo dal greco. L’opera propone contemporaneamente una visione unitaria e dualistica della scena: Il corpo del santo rappresentato a tre quarti in un formato orizzontale sembra quasi voler comporre, insieme al teschio, alla carta e al tavolo su cui sta lavorando, una natura morta della quale San Girolamo non è un corpo esterno, ma ne è parte integrante.
A questa composizione unitaria, che occupa orizzontalmente l’intera tela, si oppone un dualismo tonale espresso da un forte chiaro-scuro. L’intensa oscurità presente sullo sfondo è risaltata e contemporaneamente esalta la vivacità cromatica, nonostante ci sia una sobria varietà di colori, composta dal rosso del manto del Santo e dal bianco rispettivamente dei drappeggi e del libro. In quest’opera che non potrei che definire sensazionale non è possibile pensare all’ombra come un colore che esprima il vuoto, che esprima mancanza di materialità. Altrettanto inconcepibile è classificare l’oscurità della scena come una ‘’mancanza di colore’’. Il buio coesiste pacificamente con la luce integrandosi a vicenda, anzi, innalzandosi a vicenda. Solo grazie al buio la luce viene esaltata. Solo in presenza della morte si comprende e s’illumina la vita.
Il secondo capolavoro in esame è il noto gruppo scultoreo di Antonio Canova, dal titolo Amore e Psiche, realizzato tra il 1787 ed il 1793.
(Amore e Psiche – Antonio Canova)
Al di là dell’incredibile sensibilità e dell’erotismo con cui Canova rappresenta il momento in cui Amore e Psiche si baciano (scena tratta dall’opera L’asino d’oro di Lucio Apuleio) penso che sia interessante come l’artista non abbia scelto di rappresentare l’istante in cui i due giovani si baciano, ma l’istante appena precedente.
Nella composizione il punto di maggiore intensità, in cui sembrano concentrarsi le tensioni e la passione dei due giovani, non è un punto scolpito nel marmo, ma un punto vuoto, ovvero nello spazio presenta tra le labbra di Cupido e Psiche. Come se lo scultore per poter proporre uno spazio ‘’vuoto’’ avesse dovuto realizzare una delle sculture più belle della storia. Ovviamente lo spazio tra lo sguardo di Cupido e il volto di Psiche non è semplicemente uno spazio vuoto ricavato da un blocco di marmo, ma un punto in cui si concentrano fortissime tensioni, in cui è possibile percepire la forza dell’amore, in cui si può cogliere una nobile semplicità e contemporaneamente una quieta grandezza.
Con questo particolare Canova ci offre un ottimo spunto per un ragionamento su come il silenzio in musica possa essere l’equivalente del vuoto nella scultura, dell’ombra nella pittura.
Musica e silenzio
Tornando alla musica, nella tradizione occidentale dal XVIII fino alla fine del XIX secolo circa il silenzio è stato inteso in senso negativo, ovvero come negazione e assenza del suono. Questa concezione iniziò a mutare con l’avvicinarsi del XX secolo, periodo in cui il mondo musicale, profondamente influenzato dalle avanguardie e dai nuovi contesti sociali e storici, iniziò a considerare il silenzio per la sua qualità positiva, rompendo gli schemi classici.
Un valido esempio di come iniziò a cambiare la concezione del silenzio è presentato da Alban Berg, compositore austriaco del primo novecento, le cui composizioni spesso non hanno una chiusura chiara bensì svaniscono nella distanza, verso l’infinità. In questo senso (ma anche per molti altri aspetti) possiamo dire che l’attività di Berg risente pesantemente dell’influenza del romanticismo.
I suoni nascono dal silenzio, vivono e si muovono all’interno del brano per poi svanire e morire nel vuoto, così che quando cessa il suono, sembra che la musica sia ancora presente. Questa pratica era ben consolidata nella tradizione romantica, e a testimonianza di ciò ci sono le parole che Leopardi scrisse nello Zibaldone riguardo gli effetti da applicare al suono per renderlo particolarmente piacevole all’udito:
È piacevole per se stesso, cioè non per altro se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo o che si vada a poco a poco allontanando e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi
Tuttavia in Berg il silenzio rimane un momento particolare e speciale, all’interno della composizione solamente sfruttato in maniera periferica, soprattutto nella chiusura.
Allo stesso modo da Webern, uno dei membri con a Berg della cosiddetta ‘’seconda scuola viennese’’, il silenzio viene usato per produrre effetti drammatici nei momenti di tensione ed un profondo senso di pace nei momenti di distensione. Nonostante questo progressivo allontanamento dagli schemi classici il suono però continua ad essere l’aspetto principale della composizione, tanto che l’uso del silenzio non sembra ancora un uso totalmente consapevole, ma più una conseguenza del modo in cui elabora il materiale tonale. Un esempio lo possiamo trovare nel brano ‘’Sechs Bagatellen, numero V’’ in cui in alcuni istanti il silenzio viene emancipato in maniera singolare e significativa.
Arnold Schönberg invece, compositore austriaco d’avanguardia naturalizzato statunitense, oltre ad essere uno dei primi compositori ad andare oltre alle regole del sistema tonale, in alcune sue composizioni dimostra una certa sensibilità nell’utilizzo del silenzio e ci propone l’idea secondo cui un brano non necessariamente deve iniziare con una nota, dato che il silenzio è presente prima, durante e dopo il brano; Schönberg è uno dei primi compositori che propone scientemente momenti di musica servendosi di un silenzio maturo e ragionato. Rimane il problema di capire se è il silenzio subordinato al suono o se è il suono che si erge grazie al silenzio.
La scelta di John Cage
Con John Cage invece avviene una rivoluzione del suono, in quanto non si limita infrangere gli schemi classici sostenendo che il silenzio è musica, ma stravolge anche l’idea di ascolto, mettendo in discussione l’immaginario secondo cui l’ascoltatore deve ascoltare esclusivamente ciò che il compositore vuole coscientemente trasmettergli.
Ma andiamo per gradi. Una delle esperienze che più influenzò Cage fu la visita alla camera anecoica di Harvard (similare alla camera di Minneapolis) in cui Cage avrebbe dovuto sperimentare il ‘’silenzio assoluto’’. Una volta entrato nella camera però, percepì due suoni: il battito del cuore e il sangue in circolazione.
L’immediata conseguenza che Cage ne ricava è che il silenzio assoluto non esiste, è un’utopia irrealizzabile. Al punto che, nel tentativo di raggiungerlo, togliendo qualsiasi fonte sonora, noi stessi diventiamo fonte di suono.
In questo senso, ricorda una frase di Epicuro:
perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più
che potremmo trasformare così:
perché quando ci siamo noi c’è il suono, quando c’è il silenzio noi non ci siamo più
Da questa esperienza John Cage nel 1952 arrivò ad elaborare il celebre pezzo 4’33, pezzo articolato in 3 movimenti (il primo di 30 secondi, il secondo di 2 minuti e 23 secondi, il terzo di 1 minuto e 40 secondi) per qualunque strumento musicale o ensemble.
La durata complessiva del brano, appunto di quattro minuti e trentatré secondi, è equivalente a 273 secondi. Forse si tratta di un richiamo alla temperatura dello zero assoluto, ovvero -273,15°C, notoriamente irraggiungibile. Ma è difficile pensare che il collegamento silenzio (utopia)-temperatura (irraggiungibile) non sia intenzionale.
Tecnicamente è un pezzo che presenta assenza di suono; sostanzialmente è un pezzo pieno di singolari rumori: il colpo di tosse di uno spettatore, il singhiozzo di un bambino, se viene eseguita in un ambiente esterno allora si sentirà il rumore del vento o il cinguettio di qualche volatile. Il silenzio diventa la rinuncia a qualsiasi intenzione e il risultato dell’esibizione diventa una sorpresa sia per l’ascoltatore sia per l’esecutore. Ogni performance diventa unica e inimitabile, e viene profondamente connotata dall’ambiente in cui viene eseguita. Eseguito in una chiesa secolare, o nei pressi di un deserto, o ancora sulla vetta di una montagna, acquista sempre un significato nuovo, profondo, magico.
In questa maniera avviene la rinuncia all’antropocentrismo: il musicista e l’uomo non sono più al centro dell’opera (in senso improprio) d’arte. Non è l’artista a decidere cos’è musica ma è l’ascoltatore che decide e seleziona cosa per lui è musica e cosa no, cosa gli provoca emozioni e cosa no. In un certo senso, potremmo dire che è la massima espressione di centrismo del suono della musica, allo stadio più naturale ed eterno.
Filippo Marin