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La mercificazione dell’arte secondo Adorno

di Emanuela Borghi - 17 Novembre 2017

La dimensione attuale del consumo musicale mira a raggiungere la massa. In un mondo nel quale tutti dobbiamo esser consumatori, meglio se onnivori, voraci ed acritici, il dato quantitativo diventa il più significativo. La cultura di massa sembra quindi muoversi verso prodotti che possano essere distribuiti ed accettati in grandi quantità, ma non è certo il consumatore che modella il prodotto in base alle sue esigenze, bensì il contrario. Per togliere alla cultura di massa ogni accezione legata alla spontaneità della creazione di un prodotto dal basso, Theodor Adorno gli contrappone il termine industria culturale:

L’industria culturale è preordinata integrazione , dall’alto, dei suoi consumatori.

L’analisi di Adorno sul carattere di sistema dell’industria culturale si diffonde dalla pubblicazione della Dialettica dell’illuminismo del 1947, ma è ancora un attualissimo strumento in grado di leggere la realtà contemporanea. L’industria culturale è un sistema gerarchico verticistico, come tutte le grandi industrie, e non si limita a produrre e distribuire beni: il suo compito è quello di togliere la soggettività al consumatore e renderlo oggetto. Il filosofo sottolinea le tecniche di produzione del consumatore attraverso il controllo dei mass media, che diffondono strategicamente messaggi in grado di costruire la domanda ancora prima dell’offerta, mettendo in moto un meccanismo che era stato già intuito da Bertolt Brecht, attivo nella rivitalizzazione del senso critico del pubblico teatrale mediante lo straniamento. Sia Brecht che Adorno leggono nella diffusione dell’ideologia dell’industria culturale la volontà di estirpare il conflitto e la tensione per ottenere una pacificazione delle masse. Le ricadute sulla scelta di un repertorio musicale che Adorno definirebbe come ideologico vanno a selezionare quelle opere all’interno delle quali strutturalmente le tensioni ed i conflitti non restano aperti, ma vengono risolti e pacificati. Si crea un forte parallelismo con la realtà sociale ed il suo modo di manovrarla, celando i contrasti aperti ed irrisolti. All’interno della musica colta l’ideologia trionfa nella forma-sonata, all’interno della quale i temi presentati nell’esposizione vengono condotti sino alla risoluzione della ripresa, che neutralizza ogni contrasto. Solo la dodecafonia rappresentata da Arnold Schönberg ha il coraggio di rappresentare la realtà, con tutte le sue dissonanze, che sono le contraddizioni ed i conflitti che restano aperti sia nella partitura che nella realtà sociale. L’ascoltatore, così come lo vorrebbe l’industria culturale, è capace solo di padroneggiare piccole parti dissociate dell’opera, che si imprimono in quest’ultimo grazie alla ripetizione ed agli effetti del crescendo dinamico. Il filosofo riscontra proprio nella potenzialità di alcune idee musicali di esser facilmente memorizzate la chiave per il successo. L’ascoltatore interiorizzandole le acquisisce e le rende un oggetto di sua proprietà. Il Finale della I Sinfonia è legato ad un crescendo dinamico che ha il compito di facilitare la memorizzazione del tema melodico principale, così come la ripetizione dei Leitmotive wagneriani è un’altra strategia per raggiungere il medesimo scopo. L’opera non interessa più integralmente, poiché è impossibile appropriarsene nella sua interezza.

Questa parcellizzazione dell’opera porta inevitabilmente ad un regresso delle capacità di ascolto:

Non si tratta di una ricaduta dell’ascoltatore singolo in una fase anteriore del suo sviluppo né di una decadenza del livello complessivo, dal momento che i milioni e milioni di individui raggiunti dalla musica coi mezzi dell’odierna comunicazione di massa non possono certo paragonarsi agli uditori del passato, piuttosto l’attuale tipo di ascolto è quello di individui regrediti, inchiodati ad uno stadio di sviluppo infantile.

Lo sport, il cinema, i principali circuiti artistici museali, la musica di massa sono fruibili solo attraverso la struttura infantilistica. Un ascolto fatto secondo questa modalità è atomizzato e porta a dissociare le parti dal tutto. Il modo d’ascolto regressivo incatena il fruitore in una sorta di cantilena infantile ripetitiva, che li intrappola inconsciamente. I motivetti che attraversano tutti i mass media  vengono continuamente dimenticati e ricordanti in un meccanismo che crea una finta sicurezza e piacere del riconoscimento. Come il bambino, anche l’ascoltatore è felice di ricordare e riconoscere qualcosa che era stato immagazzinato suo malgrado nella memoria. I ricordi affiorano anche durante un ascolto deconcentrato, per questo motivo il loro successo permane nel tempo. Il gusto al riconoscimento delle citazioni si esprime bene negli arrangiamenti del patrimonio classico ed operistico. Concentrazione e lavoro critico sul materiale musicale sono totalmente estromessi dalla modalità di ascolto della musica di massa, poiché risulterebbero superflui in quanto il materiale offerto è caratterizzato da una grande standardizzazione. Al contrario, concentrarsi sul questo tipo di produzione musicale porterebbe solo alla frustrazione. Nel fruitore di prodotti dell’industria culturale l’ascolto concentrato è una capacità che gradualmente si perde. Adorno cita nuovamente Benjamin per creare un parallelismo fra ascolto deconcentrato e stato di distrazione che caratterizza la visione dei film, ma mentre quest’ultimo può comunque essere fruito nella sua totalità nonostante la distrazione, questo risulta impossibile per la musica. Un ascolto deconcentrato rende impossibile la percezione del tutto e riemergono solo gli intervalli melodici più appariscenti, le brusche transizioni armoniche, i ritmi adatti alla danza, che investono tutto il jazz commerciale e delle particolari fusioni di melodie col testo. Se nella musica colta l’ascolto atomizzato produce una decomposizione progressiva del tutto, in quella leggera non vi è più nulla da destrutturare, essendo già preconfezionata in banalissime forme standard ridotte al minimo.

L’Interesse musicale si sposta sempre di più dalla complessità tecnica al fascino e seduzione particolare che esercitano alcune strategie ritmiche, melodiche e timbriche. Significativa è la partecipazione dell’ascoltatore durante i passaggi virtuosistici ed il cambiamento timbrico, ossia il passaggio della stessa linea melodica da uno strumento all’altro. Adorno insiste anche in questo caso col parallelismo con le modalità di gioco del bambino, che viene attratto da forme semplici e colori tanto quanto l’adulto è attratto dai colori dei vari strumenti musicali e dalle strutture semplici che eseguono. Il tipo di ascolto infantilistico esige una sonorità ricca sensorialmente e poco strutturalmente. L’industria culturale, che confeziona sia il prodotto che il consumatore, si occupa di mettere in atto i meccanismi adatti alla regressione dell’ascolto, indispensabile requisito per consumare i prodotti della mercificazione della musica.

Arte come merce

L’opera d’arte è sempre stata il prodotto di una determinata società e cultura, mai del tutto svincolata dal contesto economico e politico nel quale l’artista è inserito. Nel contesto della produzione dell’industria culturale non si discute della perdita di una totale autonomia che l’arte non ha realisticamente mai avuto, ma di una totale perdita del valore artistico fagocitato dalla sua mercificazione.

I prodotti dello spirito stilizzati dall’industria culturale non sono anche merci, ma sono, ormai, merci da cima a fondo. La tensione fra parvenza ed essenza arriva al suo limite nei prodotti dello spirito che abbandonano l’essenza a favore di una parvenza che si sostituisce ad essa.

Il profitto viene ricavato dai prodotti dello spirito, come l’arte, snaturata attraverso una tecnica di distribuzione e riproduzione meccanica che la diffonde su vastissima scala. Per funzionare questo meccanismo necessita di una strategia in grado di camuffare la standardizzazione e lasciare al consumatore l’illusione di aver effettuato una scelta autonoma ed individuale nella fruizione del prodotto. Adorno afferma che l’industria culturale non vuole distruggere quella che Walter Benjamin definiva come aura, ossia la presenza del non presente come fattore determinante dell’opera d’arte, bensì conserva l’aura solo superficialmente, edulcorando il prodotto standardizzato con dei residui individualistici, atmosfere romantiche e variazioni appena percepibili. In altre parole la strategia messa in atto è l’inganno.

Il carattere di feticcio

La musica è fra quei prodotti dello spirito snaturati e traditi che Theodor Adorno analizza con maggior enfasi. Le basi teoriche sono poste dalla reinterpretazione del pensiero marxista sul feticismo della merce, generato dalla conversione del valore d’uso in valore di scambio, che è un valore determinato da fattori sociali carichi di un carattere mistico che offusca il valore d’uso della merce. Il divismo che investe il mondo della musica è un chiaro esempio della costruzione del feticcio musicale. Star non sono solo i grandi cantanti, venerati per doti che esulano il talento musicale, ma anche i direttori d’orchestra, i grandi produttori musicali e radiofonici, i pezzi di maggior successo. Quest’ultima star, ossia il pezzo di successo, mette in moto il circolo vizioso tipico della merce-feticcio: più un brano diventa famoso e più spesso viene riproposto in radio e nei programmi teatrali, offuscando tutta quella produzione artistica che non risponde al gusto culinario, adatto ad innescare questo processo.

Feticcio è un termine che deriva dal portoghese feitiço adottato nel XVI secolo dai navigatori portoghesi per designare gli idoli e gli amuleti venerati dalle popolazioni africane. Feticcio è qualcosa di fabbricato, che non esiste in natura, un assemblaggio di materia grezza dallo scarso valore d’uso, che si carica di un enorme valore simbolico, rendendo la materia grezza qualcosa di venerabile. La musica leggera è quella materia grezza, fatta di pochi e banali elementi che, configurati in un modo strategico, generano il pezzo di grande successo apprezzato acriticamente dalla massa. Adorno considera tutta l’arte leggera come ingannevole e bugiarda, governata di un gusto puramente culinario, improntato al raggiungimento di un piacere immediato. L’industria culturale è il prodotto di una realtà sociale sovrastante che per replicare se stessa deve disinnescare ogni forma di pensiero critico ed individuale, possibile generatore di turbamento dell’accettazione dell’ordine esistente. Il piacere immediato e facilmente raggiungibile garantisce uno stato di apparente benessere alle masse, che accettano così pacificamente lo stato delle cose inalterato. Un’arte ideologica è la massima espressione di una società che vuole gestire le masse senza incontrare impedimenti di alcun tipo. Adorno intende con arte ideologica la costruzione di un sistema di produzione, diffusione e fruizione dell’arte libera da ogni tensione, contrasto o difficoltà tecnico-strutturale, libera dunque da tutti quegli elementi che possano istillare nel consumatore un senso critico non solo nei confronti dell’opera d’arte, ma anche in quelle della società all’interno della quale vive.


L’ideologia è l’oppio che stordisce le masse e può essere veicolata anche attraverso la musica prodotta nella reificazione tipica del divismo. La reificazione di un’idea musicale investe anche la musica colta, soprattutto nei suoi aspetti melodici. L’ascoltatore si appropria delle più semplici e seducenti linee melodiche, le memorizza, le canticchia e se le porta con sé. Opere come i quartetti di Schubert o i concerti grossi di Händel sono considerata da Adorno delle “collezioni di farfalle”, che cristallizzano e vanno ad inanellare una seria di forme del banale, come melodie cantabili e ballabili, ingiustamente celebrati come custodi  e rappresentanti della cultura alta. Da questo punto di vista non c’è distinzione fra musica colta e musica leggera: le forme del banale investono entrambe. Il punto di contatto fra le due realtà musicali è la liquidazione dell’individuo, totalmente espunto dal sistema di produzione musicale:

Tra questi due poli non c’è posto per l’individuo, le cui esigenze, ammettendo che ancora ne abbia, sono solo apparenti, cioè ricalcate sugli standard stessi: la liquidazione dell’individuo è il vero suggello del nuovo stadio della musica.

Le due sfere della musica sono tristemente accomunate dalle manipolazioni che vengono fatte per rendere i prodotti il più smerciabili possibile. Fra i prodotti che meglio si prestano alla dimensione della merce-feticcio troviamo le voci. La voce viene esaltata come tale e non come un mezzo attraverso il quale l’artista sfoggia le sue doti tecniche, come almeno si pretendeva dalle star del passato, i castrati e le primedonne, che, seppur nelle forme che Adorno definisce della banalità, sapevano muoversi con grande abilità sulle cadenze. Nell’epoca dell’industria culturale avere una voce ed esser cantati sono diventati sinonimi. Dalle doti canore si pretende solo un minimo di originalità timbrica, è sufficiente che la voce sia grave e profonda oppure particolarmente acuta per legittimare il proprietario alla professione di cantante. La voce viene quindi reificata, resa oggetto e venerata con la stessa cieca modalità con la quale si venerano i violini d’autore, che da strumenti perdono qualsiasi tipo di funzione e diventato oggetti di culto. Il carattere di feticcio posto al centro dell’orchestra ma che risulta esser il più occulto di tutti è il ruolo del direttore d’orchestra, definito come un soggetto inutile, in tensione fra la standardizzazione delle opere che dirige ed un’apparente impronta stilistica individuale.

Il successo massimo dell’industria culturale è quello di reificare il consumatore, che diventa il vero feticcio nella perdita totale della sua soggettività. Ci si muove verso la distruzione dell’individuo conscio di ciò che accade nelle realtà sociale che lo circonda secondo la spinta delle forze collettive che costruiscono un sistema all’interno del quale la condizione catastrofica del mondo dell’arte, e non solo, non viene percepita a causa dell’accettazione inconscia del regresso.

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