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La chiave smarrita del pianoforte: Anton Čechov

di Redazione - 26 Settembre 2016

“Da migliaia di secoli ormai la terra non porta sul dorso nemmeno una sola creatura viva, e questa luna accende invano la propria lanterna.”

Si annoiano terribilmente. Il tempo scialbo e insapore, a poco a poco, lentamente scorre davanti ai loro occhi immobili. Sono goffi, a volte un po’ buffi. Arrancando sopravvivono, vagano:

“Mi aggiro come un’ombra tra gli uomini e non so chi sono, perché vivo, cosa voglio”
.

Si interrogano sul perché della sofferenza:

“Il mio bambino è morto, è affogato… Perché? Perché?”, “Giorno e notte, come un demone del focolare, mi soffoca il pensiero che la mia vita sia perduta senza rimedio. […] il presente è terribile per la sua assurdità”

Piangendo i desideri infranti, le speranze inappagate, i propri fallimenti, ciò che avrebbero voluto essere e che non sono diventati; nostalgicamente si trastullano nei  ricordi del passato:

“Una volta, quando il papà era ancora vivo […] c’era chiasso, vita. Oggi invece siamo in tre gatti, è proprio un mortorio”.

La volontà in frantumi lascia spazio a un’inspiegabile incapacità di agire, di operare, di vivere:

“Non ho mai avuto una mia volontà… Fiacco, molle, sempre ubbidiente”.

Dunque, che fare?

“Non so, insomma, se valga più la pena vivere o spararmi”

Si avvicinano l’un l’altro e, in un susseguirsi monotono di soliloqui, si lagnano vicendevolmente del destino avverso che li ha condotti a sentirsi irrealizzati, falliti:

“In giovinezza una volta volevo diventare un uomo di lettere, e non lo sono diventato […] volevo sposarmi, e non mi sono sposato; volevo vivere sempre in città, e finisco la mia vita in campagna”, “E la vita stessa è noiosa, stupida, sudicia… Non voglio niente, non ho bisogno di niente,  non amo nessuno”

Così il dialogo non è più un tramite di comprensione, ma il luogo adatto nel quale lamentarsi delle proprie sofferenze, senza alcuno che possa ascoltare:

“La mia voce risuona squallida in questo vuoto, e nessuno la sente”, “Sono proprio sola, sì, sola, non posso contare su nessuno…”

Ma è lecito sognare, è ciò che rimane loro da fare:

“Quando manca l’autentica vita, si vive di miraggi. Sempre meglio che niente.”

Crudelmente delusi dal destino, convivono col sotterraneo bisogno di qualcuno che conosca le loro sofferenze:

“Io soffro. Nessuno, nessuno conosce le mie sofferenze!”.

E il desiderio di una vita nuova, poter riscattare la propria esistenza:

“Oh, Dio mio… ho quarantasette anni anni. Se, supponiamo, vivrò sino a sessanta, me ne restano ancora tredici. E’ lunga! Come passerò questi tredici anni? Che farò?, con che cosa colmarli?… se fosse possibile vivere il resto della vita in qualche modo, in un modo nuovo.  Svegliarsi in un limpido, quieto mattino e sentire che la vita ricomincia di nuovo, che tutto il passato è dimenticato e si è dissolto come il fumo”.

“Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo” direbbe Sorrentino.

Il loro anelito di bellezza, irrefrenabile e spasmodico, (l’incantesimo della natura: il lago stregone, il cielo sognato, il giardino di ciliegi) si mostra inerme e fugace; si dilegua lasciando un vuoto incolmabile.

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(Quadro di Levitan, amico di Čechov di sensibilità simile alla sua)

Siamo nella fredda e arida Russia degli anni Novanta e sì, stiamo parlando degli eroi-antieroi del teatro čechoviano.
Stiamo parlando di quei drammi fatti di dialoghi così toccanti ed esistenziali:

“Secondo me, l’uomo deve avere una fede, oppure deve cercarsela. Altrimenti la sua vita non può che essere vuota. Vivere e non capire perché le gru volano, i bimbi nascono, ci sono le stelle nel cielo… Bisogna avere un’idea sul perché si vive, altrimenti sembra tutto una sciocchezza, uno scherzo idiota…”.

Dialoghi che passano da una cruda rassegnazione nei confronti della vita:

“Non fanno altro che mangiare, bere, dormire, aspettando di morire… e mettere al mondo altri simile che, a loro volta, mangiano, bevono e dormono e, per non inebetirsi dalla noia, movimentano la loro vita dandosi ai pettegolezzi, al vino, alle carte, alle tresche. […]spegnendo quel barlume di scintilla divina che portano dentro”;

ad una fede piena di speranza:

Gli uomini no, ma in cambio sarà Dio a ricordarci”, “Adesso io so, io capisco, Kostja,[…] l’essenziale non è la gloria, non è il lustro, non è ciò che sognavo, ma la capacità di soffrire. Sappi portar la tua croce e abbi fede. Io ho fede, e questo mi allevia il dolore, e ,quando penso alla mia vocazione, non ho paura della vita.” ,

Angelo Maria Ripellino si esprimeva così: “E si muovono, si muovono a vuoto, quasi toccassero strumenti senza corde: con una cadenza aggranchita, stagnante, ipnotica, che ci richiama alla musica di Rachmaninov. La vita scivola come acqua dalle loro mani, e li trascina, li inghiotte come turaccioli.”

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Levitan – “Luna”

Ma andiamo a vedere cosa hanno a che fare i drammi di Anton Čechov con la musica.

Lo scrittore russo mette in scena, in un continuo flusso di musiche e suoni, ogni genere di accompagnamento sonoro: arpeggi di chitarra, violini che gemono, valzer patetici che si odono in lontananza, il suono di un’armonica, l’arpa e il violino di musicanti girovaghi, lo schianto metallico di una corda spezzata al morire del crepuscolo; ma ricordiamo anche un duetto per pianoforte e violoncello, il malinconico violino di Andrej, una Preghiera alla Vergine eseguita al pianoforte.
Insomma di musica, quando si tratta di Čechov, ce n’è in abbondanza.

Negli anni del successo di Čechov (1898-1904) al Teatro d’Arte di Mosca  non si può non menzionarlo quando si tratta del drammaturgo russo – fu il carismatico Stanislavskij che, oltre a rivoluzionare la tecnica recitativa (celebre l’omonimo metodo) e la figura di regista, approfondì l’universo sonoro trasformando la scena in un vero e proprio Teatro-Orchestra. Mitigando i lati comici delle opere di Čechov, curando nei minimi dettagli la scenografia, gli arredamenti e l’oggettistica, diede vita a quei caratteristici movimenti pigri e indolenti, alle lunghe pause e inquietanti silenzi, utilizzando mezze luci, e soprattutto abusando d’ogni varietà di suoni e mezzi acustici. Così, quando si andava a vedere Čechov, si potevano sentire altalene scricchiolare, zoccoli di cavallo tamburellare, campane rimbombare, ranocchie gracchiare, il vento sibilare, e qualche Chopin sfumare di lontano.
Il tutto contribuiva a creare atmosfere affascinanti, a volte spettrali, e assolutamente nuove per il teatro dell’epoca.

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Stanislavskij

Ma c’è altro. In Čechov la musica assume spesso valenza simbolica.
Già in Zio Vanja risulta interessante il modo con cui termina il secondo atto:
Sonja e Elena agognano musica ma il loro desiderio è irrealizzabile venendo così tristemente stroncato.

Elena: Ed io ho voglia di suonare… vorrei suonare qualcosa adesso
Sonja: Suona. Non posso dormire… suona!
Elena: Tuo padre non dorme. Quando sta male, la musica lo irrita. Va a domandarglielo.

Mentre Sonja va a chiedere il permesso al padrone di casa Elena pensa tra sé:

Da molto tempo non suono. Suonerò e piangerò, piangerò come una sciocca.”

Sonja torna e sconsolata le comunica: Non si può!

Il motivo dell’impossibilità di fare musica è approfondito squisitamente nel personaggio di Irina in Tre Sorelle.

Irina, la più giovane e bella di tre figlie orfane di padre, vive in provincia e non fa altro che sognare il ritorno a Mosca, suo irrefrenabile desiderio. Inizialmente si presenta come una ragazza piena di vita, di stimoli, di speranze, di voglia di fare; è sempre allegra, non fa altro che sognare; gioisce della vita e continuamente dice che, prendendo l’esempio delle sorelle maggiori, prestò troverà un lavoro. Ma col passare delle battute, Irina si rivela fragile e incline alla nostalgia, al cattivo umore.

E così pian piano viene alla luce il suo carattere profondamente insoluto, irrisolto, il suo male di vivere. Troverà il lavoro, ma un senso di incompiutezza e insoddisfazione inizierà a tormentarla:

“Sono così infelice. Non sono fatta per lavorare, non lavorerò mai più. Basta, basta! […] ho ventiquattro anni ormai e a furia di lavorare mi si è inaridito il cervello. Eccomi qua: magra brutta, vecchia, e senza nessuna, propria nessuna soddisfazione. Più il tempo passa più sembra che la vita vera, quella meravigliosa, scivoli […] perché non mi sono ancora uccisa, perché? Non capisco…”

Nel II atto il barone Tuzenbach, che insieme ad altri è solito frequentare la casa da villeggiatura delle tre sorelle, dichiara il proprio sofferto amore alla giovane infelice:

“Sono passati cinque anni ormai, e ancora non mi sono abituato. Mi sembri ogni giorno più bella! Che capelli lucenti e splendenti che hai! E che occhi! Domani ti porterò via, lavoreremo, faremo fortuna, i nostri sogni rifioriranno. Tu sarai felice, vedrai. C’è una cosa sola che non va: tu non mi ami.”

La risposta della sconsolata Irina segue prontamente:

“Ma non è colpa mia! Ti sposerò, sarò una moglie fedele e devota, ma non riesco proprio ad amarti. (Piange) Io non ho mai amato nessuno, mai. L’ho tanto invocato, l’amore, lo sogno da molto tempo, di giorno e di notte, ma la mia anima è come un pianoforte prezioso: è chiuso, e la chiave è andata persa. (Pausa) Hai uno sguardo inquieto.

Tuzenbach: Non ho chiuso occhio, stanotte. Io non ho paura di niente, al mondo, se non di questa chiave che è perduta: sta tormentando la mia anima, non mi lascia dormire. Dimmi qualche cosa ti prego (Pausa). Dimmi qualche cosa.
Irina: Cosa? Cosa ti devo dire?
Tuzenbach: Non so. Qualche cosa.
Irina: Basta, ti prego, basta!

Come abbiamo appena letto, l’anima di Irina è paragonata ad un pianoforte di cui si è perduta la chiave, ad un pianoforte che non può più suonare, che non può respirare, che non può vivere. Irina ha perso la volontà, lo slancio vitale, la speranza, il desiderio, il senso della vita; ed ecco che il pianoforte, divenuto muto, si fa simbolo di tutto questo: speranza, desiderio, slancio vitale, amore per la vita.

“Tra i piaceri della vita, solo all’amore la musica è seconda. Ma l’amore stesso è musica.” (Aleksandr Sergeevič Puškin)

Le ultime parole di Tre Sorelle, capolavoro del teatro moderno, sono quelle che seguono.

Irina: Verrà il giorno in cui sapremo il perché di tutto questo, di tante sofferenze… Allora non ci saranno più misteri, ma nel frattempo dobbiamo vivere! Bisogna lavorare, solo lavorare… Domani partirò sola, insegnerò in una scuola e dedicherò tutta la mia vita a chi, forse, ne avrà bisogno.

Ol’ga: La musica della banda è così allegra e vivace che ti fa venire voglia di vivere! Dio mio! Passerà del tempo e anche noi ce ne andremo, per sempre. Si dimenticheranno di noi sorelle, dei nostri visi, delle nostri voci e di quante eravamo;[…] Oh, sorelle care, la nostra vita non è ancora finita. Vivremo ancora! La banda suona allegra e festosa, e sembra che da un momento all’altro sapremo il perché viviamo e soffriamo… poterlo sapere, poterlo sapere!

Nell’analizzare l’uomo e le sue ferite (chi poteva farlo meglio se non un uomo che ha passato la vita a fare il medico) Čechov credeva, e ci vide lungo, che qualcosa nell’uomo del suo tempo era andato storto, forse la capacità di vivere era venuta meno (di vivere davvero, non di sopravvivere). Qualcosa deve essersi rotto, lo dice Maša ne Il Gabbiano:

Migliaia di persone hanno tirato su una campana, hanno speso soldi ed energia, ed all’improvviso questa campana cosa fa? Cade e si rompe in mille pezzi”

Possiamo dire quindi che, se da una parte Čechov non fa altro che colmare i suoi drammi di musica arricchendo la scena, dall’altra parte la sua grande forza è il non detto, è il momento in cui la musica “non suona”; l’impossibilità di fare musica, il pianoforte che non può suonare, la campana che si rompe in mille pezzi. La musica è un modo di esprimersi, è forma comunicativa. E se non si può fare musica non ci si può esprimere, non si può comunicare.
Quello dell’artista russo è il grande teatro moderno dell’impossibilità e dell’incapacità inesorabile ed esistenziale di comunicare. Ma non solo, l’impossibilità di fare musica è impossibilità di vivere, incapacità di farlo (la chiave del pianoforte smarrita). In Čechov la musica oltre ad avere a che fare con l’interiorità e l’intimità dell’uomo, è bellezza, è amore per la vita, è vita (“Ti fa venire voglia di vivere!”, lo abbiamo appena letto).

E’ bene comunque ribadire, e lo abbiamo notato leggendo alcuni spezzoni dai suoi drammi, come alternandosi a scoraggiamenti nei confronti della vita, certe volte dalla bocca dei suoi protagonisti si possano ascoltare parole colme di sincera speranza e, come vedremo nel seguente video, riferiribili ad una vita ultraterrena.

Vogliamo così concludere questo approfondimento con questo monologo, tra i più toccanti ed emozionanti dell’intera opera čechoviana e tra i più famosi del teatro russo.

https://www.youtube.com/watch?v=n_MQZE1urG4

Paolo Di Piramo

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