Ceol na hÉireann: Musiche classiche d’Irlanda in Seán Ó Riada
di Lorenzo Pompeo - 20 Marzo 2017
La musica in Irlanda.
L’Irlanda è sicuramente tra i luoghi del mondo dove più autenticamente si faccia musica, e nel dire “fare musica” non stiamo parlando unicamente di produzione di opere e composizioni ma dell’importanza capitale che la musica possiede all’interno del tessuto sociale di un luogo dove la testimonianza del proprio patrimonio di canti, danze e strumenti tradizionali assume una parte fondamentale del nucleo genetico nazionale. Anche il lettore che non abbia avuto occasione di trovarvisi può avere un’idea di cosa sia una session di appassionati che nei pub coinvolgono tutti i commensali, o di camminare per le strade di città e paesi, trovandosi ad ogni passo ad ascoltare musica tratta quasi esclusivamente dal repertorio locale.
La domanda che ci poniamo è questa: perché, contrariamente ad altre culture in cui si danno caratteri affini, quella irlandese non viene mai considerata per una sua musica “classica”? Una sorta di “Scuola nazionale irlandese” non esiste o magari in parte sì?
Per quanto riguarda la prima questione va detto che una musica classica in Irlanda esiste e annovera tanti compositori di epoche diverse, figli di scambi culturali con i centri della cultura europea, ma anche di una discreta attività accademica nell’isola. Per fare una rapida rassegna si potrebbe partire da Turlough O’Carolan, arpista e cantore reso cieco dal vaiolo che viaggiò cinquant’anni lungo l’Irlanda componendo arie per i nobili, e poi, nel secolo XVIII, incontrare artisti come John Andrew Stevenson, l’ancora più celebre John Field che ispirò i Notturni di Chopin, e ancora, andando avanti nel tempo, Michael William Balfe, Charles Villiers Stanford o Hamilton Harty, escludendo molti altri che meriterebbero una citazione.
Nelle riflessioni sul perché questi compositori non abbiano ricevuto sempre piena considerazione, bisogna tenere conto di tutti i fattori storici, politici ed economici connessi ai rapporti con la monarchia inglese e la difficoltà della posizione isolata rispetto al continente, ma qui noi cercheremo di soffermarci sull’aspetto musicale della questione; se la dominazione britannica e le annesse conseguenze hanno sicuramente reso difficile l’emergere di solide strutture accademiche nell’isola, d’altro canto questo non esaurisce l’argomento e ci viene reso necessario soffermarci sul rapporto tra musica colta e musica popolare per avvicinarci a una possibile risposta.
Gli autori irlandesi di tutte le epoche hanno in comune il costante riferimento alla tradizione musicale della loro terra, una fonte di ispirazione inesauribile cui attinsero i compositori del XIX secolo, il secolo dove emergono prepotentemente identità nazionali e conseguentemente le Scuole nazionali, ma l’occupazione inglese sancita dal 1800 a seguito dell’Act of Union e la crescente emigrazione verso l’America non aiutò il fiorire di una scuola vera e propria e di musica colta legata a sentimenti nazionali. Sappiamo, ormai, che la definizione in termini rigorosi di “Scuola” è pertinente soprattutto per quanto riguarda la Russia, mentre negli altri casi si trattava di gruppi di compositori le cui opere erano legate al contesto nazionale dove vi era una fiorente tradizione di musica folklorica. Tuttavia, se in Irlanda il sentimento nazionale nel XIX secolo si conformò per lo più in una scelta di gusti e forme, nel secolo successivo emerse in diversi compositori in concomitanza delle Guerre d’indipendenza, dalla Rivolta di Pasqua del 1916 in poi.
Proveremo a dare un’immagine di questo articolato rapporto tra musica classica e tradizionale in Irlanda attraverso un figlio di questa tradizione a due poli congiunti e distinti: Seán Ó Riada.
Seán Ó Riada e la sua Irlanda, tra Grecia e Parigi
Potremmo presentare brevemente il personaggio definendolo, magari in modo un po’ardito, una sorta di Gershwin d’Irlanda, vuoi per le varie assonanze del repertorio, o per come entrambi hanno coniugato la composizione di musica colta con la matrice popolare e per la composizione di un certo tipo di colonne sonore, ma soprattutto perché nelle scelte musicali di entrambi è presente e forte l’impronta viva e sonora di una società, con tutti i suoi valori e le sue miserie, le sue speranze e i suoi dolori.
Seán Ó Riada “nasce” solo intorno agli anni ’60, ma John Reidy è il nome inglese con cui viene battezzato alla sua nascita nel 1931, a Cork, città del sud dell’Irlanda considerata la maggiore dell’isola dopo Dublino. Questo luogo di nascita non deve passare inosservato perché aiuta a comprendere molti dei successivi sviluppi di Ó Riada: Cork viene chiamata “The Rebel City” per il suo ruolo attivo in tutte le rivolte anti-britanniche, a partire da quella di Warbeck del 1495 ma soprattutto nelle Guerre d’indipendenza dove la città fu luogo dei più feroci scontri del conflitto, si costituì come un baluardo del fronte opposto al Trattato Anglo-Irlandese firmato da Michael Collins nel 1921 e si considerava (o si considera) The Real Capital in opposizione a Dublino, feudo del fronte pro-trattato. Oltre al luogo, anche la data è emblematica nel quadro di una nazione che tentava di rialzarsi seguendo la via democratica: nel 1932, un anno dopo la nascita di Ó Riada, De Valera, leader del partito repubblicano Fianna Fàil vince le elezioni, avviando un corposo tentativo di riforme.
Prima di Cork, il luogo dove avviene l’educazione giovanile di Ó Riada è Adare, nella contea di Limerick, ad opera di un tale Frate Long di Dingle; questa figura assume un ruolo importante nella sua formazione poiché gettò le basi di una passione per la lingua irlandese che durò tutta la vita e che, vedremo, avrà un ruolo centrale nella sua attività musicale. Per anni si forma in teoria e contrappunto, poi, nel 1943, vince una borsa di studio presso l’Università di Cork ma per prendere parte ai corsi deve aspettare fino al 1948, ossia il compimento della età legale per iscriversi agli studi di Arte e Musica. La presenza di molti studenti stranieri rifugiatisi in Irlanda a causa della Guerra Mondiale rendeva l’ambiente universitario oltremodo stimolante e, oltre a quello della propria cultura, intraprende un fecondo studio della cultura europea antica e moderna, appassionandosi al Latino e al Greco, mentre negli studi musicali suo maestro fu Aloys Fleishmann senior, tedesco naturalizzato irlandese e padre dell’omonimo e più celebre compositore Aloys Fleishmann, amico di Ó Riada.
Gli studi li completerà nel 1952, e un anno dopo inizia a lavorare come Direttore Artistico della Musica per la radio nazionale Raidió Teilifís Éireann a partire dal 1953, ma l’esperienza che segna una svolta nella sua vita avviene nel 1955, quando Ó Riada lascia l’incarico alla radio e parte per Parigi, con l’intenzione e l’ambizione di ampliare i propri orizzonti compositivi grazie alle nuove avanguardie e al jazz che vedeva nella capitale francese la massima espressione europea. Nella Ville lumière proprio il pianoforte e il jazz gli garantiranno un minimo sostentamento, finendo per suonare anche dei brani per una radio parigina, ma alla fine a Parigi non resta a lungo, riportato in Irlanda dalla moglie Ruth Coghlan che lo trova in miseria a condurre una vita bohemienne e con problemi di dipendenza dall’alcool. Per ora ci limitiamo alla cronaca biografica, ma possiamo dire che questo viaggio ebbe una serie di conseguenze creative molto rilevanti ai fini della nostra indagine e ne ebbe anche nelle riflessioni di Ó Riada su quella che sarebbe dovuta essere la sua attività successivamente. Inoltre pare che non fosse rimasto positivamente colpito dalla vita nel continente, visto che alla moglie confidò «Preferisco spaccare pietre in Irlanda piuttosto che essere il più ricco di quelli che vivono in Europa».
Tornato in Irlanda, inizia per Seán Ó Riada il periodo più produttivo della sua vita artistica: lavora come Direttore Musicale presso l’Abbey Theatre di Dublino, realizza vari arrangiamenti orchestrali per la radio nazionale e, soprattutto, compone tanto e in ambiti che comprendono musica sinfonica, musica da camera, musica vocale, strumentale e colonne sonore.
A questo punto, nel nostro percorso a tappe fondamentali, dobbiamo necessariamente evidenziare il 1959 come un nuovo anno di svolta per Ó Riada innanzitutto perché è l’anno in cui soggiorna per la prima volta assieme alla famiglia in una Gaeltacht, ossia una delle zone d’Irlanda dove si continua a parlare Gaelico irlandese, esperienza che lo coinvolge nel profondo e lo porterà, per l’appunto, a scegliere il nome di Seán Ó Riada.
L’avvenimento fondamentale del 1959, tuttavia, è la composizione della colonna sonora del documentario diretto da George Morrison e dedicato alla nascita dello stato irlandese, Mise Eire, “I am Ireland”, l’opera che mantiene viva la sua memoria in Irlanda tutt’oggi.
Anche la grande Dublino si rivela troppo distante dall’ideale dell’essenza irlandese che cerca Ó Riada, così nel 1962 lascia il lavoro all’Abbey Theatre per trasferirsi a Corca Dhuibhne per un anno, continuando a lavorare per la RTE e iniziando a scrivere per l’Irish Times; già nel 1963 però trova lavoro come assistente all’Università di Cork e si trasferisce definitivamente nella Gaeltacht di Cui Aodha, a poche miglia di distanza da dove nacque la madre.
In quegli anni, tra il 1961 e il 1969, si occupa anche della fondazione di un complesso strumentale dedicato alla musica tradizionale irlandese chiamato Ceoltóirí Chualann, composto da molti dei membri che poi formeranno il celebre gruppo dei Chieftains: nel gruppo Ó Riada suona il clavicembalo e il bodhràn, uno strumento a percussione tradizionale.
Dopo anni di fervida attività nazionale e internazionale, studi (anche nuovi, ad esempio sulla musica indiana e orientale) e concerti, nel 1971, a causa di un corpo lacerato dal consumo di alcool, Ó Riada muore, lasciando più di settecento arrangiamenti e venticinque trascrizioni orchestrali di musica tradizionale, centoventi adattamenti corali di canzoni, pezzi per pianoforte solo, colonne sonore e la prima Messa scritta completamente in gaelico, oltre a tanti scritti sulla musica in Irlanda.
Ma Ó Riada allora è un compositore di musica “classica”, nella nostra accezione del termine? Assolutamente sì, e oltre a essere un compositore che conosce la tradizione classica europea delle origini è anche un compositore moderno, caratteristiche che si intrecciano nel Nomos n.1 “Hercules Dux Ferrarie”, risalente al 1957 e destinato ad orchestra d’archi. Il titolo rimanda a un doppio canale di ispirazione: abbiamo accennato agli studi grecisti di Ó Riada e il titolo Nomos fa riferimento proprio a quella tradizione per indicare una composizione che segua strettamente i canoni e le leggi dell’estetica classica; Hercules Dux Ferrarie, invece, è il nome che Josquin Desprez diede alla Messa dedicata a Ercole I d’ Este duca di Ferrara a inizio ‘500, di cui il Nomos, nelle intenzioni di Ó Riada, doveva presentarsi come parafrasi.
L’antico, dunque, ma anche il moderno, visto che la genesi dell’opera risale al periodo parigino ed è evidente l’influenza dell’incontro con le tecniche del Serialismo e con autori come Florent Schmitt e Olivier Messiaen. Il Nomos è strutturato in una serie di variazioni su tema, dove le tecniche d’avanguardia vengono elaborate in modo anche discretamente originale.
Al Nomos n.1 ne seguono altri cinque, a prova del fatto che non parliamo di sperimentalismo isolato, bensì di tecniche ampiamente conosciute ed elaborate. Il Nomos n.2 è ancora una volta un incrocio di citazioni e riferimenti della tradizione (questa volta anche di giganti come Mozart e Beethoven) e nuove esplorazioni di tecniche seriali, destinate a un organico orchestrale coadiuvato da coro e da baritono solista che intonano, ritornando ancora alla Grecia, brani dall’Edipo a Colono e dall’Antigone di Sofocle. Lo sperimentalismo continua nel Nomos n.4 e nel n.6, poiché del Nomos n.3 resta solo un manoscritto incompleto e un n.5 non è mai stato scritto: il n.4 è una sorta di Concerto per pianoforte e orchestra dove, curiosamente, il pianoforte ha un ruolo subordinato, non troppo diversamente da come accade in Noches en los jardines de España di Manuel de Falla, mentre il n.6 alle dissonanze aggiungerà anche elementi jazzistici.
I Nomoi sono le composizioni classiche più significative di Ò Riada, ma ci sono anche varie altre composizioni dove si rintracciano caratteri simili, come i dieci “Epigrams from the Greek Anthology” per organici variamente composti, l’ “Ouverture Olintiaca” oppure l’elegia pastorale “The Banks of Sulàn”, e non si esaurirebbe qui l’elenco.
A questo punto un elemento salta subito all’occhio e all’orecchio: dov’è l’Irlanda? Ó Riada inserisce spesso e volentieri armonie e temi tipici della cultura celtico-irlandese, che vuol dire, in buona sostanza, il riferimento a una scala generalmente pentatonica e un armonia che evita accordi diminuiti, fondate su un modo ionico, eolico, dorico o misolidio a seconda dei diversi brani. L’Irlanda quindi ovviamente c’è, ma le sue tracce dobbiamo trovarle in tutt’altre composizioni, a cominciare dai numerosi adattamenti orchestrali di brani della tradizione nazionale, ad esempio l’ouverture festiva “Seoladh na nGamhan” del 1959.
Sempre il 1959 che, abbiamo avuto modo di dirlo, è stato un anno molto fecondo per lo sviluppo personale e musicale di Seán Ó Riada, consegna alla nostra analisi l’esemplificazione più vivida della sua vocazione verso la cultura gaelica d’Irlanda: “Mise Eire”. Mise Eire è una poesia di Patrick Pearse del 1912 dove l’Irlanda viene personalizzata nell’immagine di una vecchia signora costretta alla sofferenza più atroce dalla condotta dei suoi figli, assumendo le sembianze di un canto profetico del sangue e del dolore che l’attraverserà negli anni a venire.
Ne riportiamo una nostra traduzione in italiano.
Io sono l’Irlanda:
sono più vecchia dell’anziana strega del Beara.
Grande la mia gloria:
io che ho dato alla luce Cuchulainn, il coraggioso.
Grande la mia vergogna:
sono i miei stessi figli ad aver venduto la propria madre.
Grande il mio dolore:
il mio inconciliabile nemico che mi tormenta senza requie.
Grande la mia tristezza:
quella folla, in cui riposi la mia fiducia, è decaduta.
Io sono l’Irlanda:
sono più sola dell’anziana strega del Beara.
La colonna sonora acquisisce così una potente valenza evocativa, alternando l’infervorata passione per i martiri della libertà nel celebre tema principale a brani dal tono più sommesso e vicino agli avvenimenti più tragici della storia recente dell’Eire.
L’influenza della musica tradizionale del paese che abbiamo ricostruito per sommi capi popola tutti i brani della colonna sonora, una colonna sonora dove si parla di uomini e donne, delle loro passioni, dei loro martiri e delle storie di coloro che da un giorno all’altro si trovarono a essere da compagni a furiosi nemici: si intona il canto dell’Irlanda che soffre, sanguina, ma non smette mai di spandere i suoi canti senza tempo lungo le sue vaste e silenziose pianure verdi.
Oltre a Mise Eire, un discorso simile vale anche per le altre colonne sonore del compositore di Cork, come “Saoirse?” (1960), ma anche per una serie di composizioni basate su poesie di altri poeti irlandesi come Thomas Kinsella (il cui fratello, per inciso, è considerato uno dei massimi sinfonisti irlandesi), John Montague, Seámus Heaney e in special modo Peadar Ó Doirnín, di cui musicò la celebre poesia “Mná na hÉireann”, tradotto “Women of Ireland”, di cui i “The Chieftains” realizzarono una versione per il celebre film di Stanley Kubrick “Barry Lyndon” (1975).
Giunti a questo punto dobbiamo provare a trattare delle conclusioni. Alcune potrebbero esser già state tratte, molte ci vengono suggerite da questa breve intervista a Seán Ò Riada.
La musica classica irlandese, dice Ó Riada, ha un suo patrimonio specifico di notazione, armonie, scale e, soprattutto, conferisce un ruolo fondamentale all’improvvisazione. Le parole del compositore celano un significato ben più denso: tutta la musica classica dei grandi autori ha sempre conferito un ruolo centrale all’improvvisazione e molti di loro erano grandi improvvisatori e Ó Riada sembra dirci che la musica “classica” irlandese è rimasta più pura della classica europea per la sua capacità di esprimere una dimensione spontanea senza perdere legami con scale, stili e armonie, un po’ come doveva essere la musica nell’antica Grecia, nelle corti rinascimentali o nel Barocco.
Più che essere distinte come bianco e nero le due musiche sono in un rapporto quasi filiale, infatti Ó Riada affianca alla musica irlandese quella greca o quella della valle dell’Indo, grazie a una somiglianza di suoni e armonie che non è il solo ad aver sentito: se la musica classica è figlia di secoli e secoli di elaborazione e complicazione delle nozioni delle prime civiltà, la musica irlandese è più vicina a quella dimensione originaria piuttosto che agli sviluppi moderni.
Il vero “act of union” degli irlandesi: la musica
Ora possiamo ritornare alla domanda originaria, senza aver la presunzione di esaurire il problema né da un punto di vista musicale né nelle sue peculiarità storiche, culturali e politiche: perché in Irlanda il rapporto tra la popolarità e la diffusione tra le due musiche è così sbilanciato?
La musica in Irlanda non può essere vissuta come un fenomeno frontale, dove si esegue da una parte e si ascolta dall’altra, è piuttosto un evento circolare dove chiunque deve poter sentirsi parte integrante. Qualcuno inizierà accennando magari Highland Paddy o Molly Malone e lo seguiranno con bodhràn, flauti e così via, ma chi sarà seduto vicino potrà cantare, ballare, farsi prestare il violino o (ruolo di prim’ordine) chiamare le birre per tutti, perché la musica è aggregazione e partecipazione e i Pub sono piazze per i non proprio rarissimi tempi di pioggia, non sale da concerto.
Ascoltando Enya o i Clannad, invece, forse ci si sentirà uniti ai ricordi di persone, allo spirito dei vecchi castelli, dei mari e delle cliffs che vi si affacciano, del vento che passa sempre veloce e l’Irlanda che non è mai passata. Melodie eteree allo stesso tempo così impregnate di questa terra sembrano ricondurre ad un passato ancestrale che sempre fu e sempre è, un canto perenne e vitale che tutti sanno, possono e vogliono cantare, magari insieme e con una buona birra tra le mani.
Lorenzo Pompeo