Carmen, abbiamo un problema
di Filippo Simonelli - 9 Gennaio 2018
Secondo le analisi statistiche del sito Bachtrack, Carmen di Bizet è una delle opere più eseguite del mondo. Occupa in pianta stabile i primi posti della top ten delle produzioni più in programma dei teatri di tutto il mondo, ed è forse l’unico tributo adeguato alla sorte sfortunata del suo autore, che non poté in vita godere i frutti di tanto successo. La gran parte delle produzioni, data appunto la frequenza delle esecuzioni, passa sotto silenzio. Ma ne abbiamo una, quest’anno, che sta facendo e farà discutere molto a lungo. Si tratta della recita firmata Maggio Fiorentino, sotto la regia di Leo Muscato, che ha introdotto un finale alternativo. Non sarà più Carmen a soccombere alla violenza di Josè, ma l’eroina dell’opera avrà la meglio in uno scontro a fuoco in cui ucciderà il suo assassino originario.
La reazione del pubblico
Il pubblico d’opera notoriamente ha una gran facilità a polarizzarsi. Come era facile immaginare, ci si è divisi immediatamente tra chi invoca la fedeltà al libretto originale e chi invece trova la nuova modifica come una perfetta occasione per lanciare messaggi contro la piaga del femminicidio da un alto pulpito culturale. A complicare la già ingarbugliata situazione è arrivata la schiera di chi ha visto in questo finale alternativo un altro frutto del politicamente corretto. Il TG2, nell’edizione delle 20:30 di lunedì 8 gennaio, ha riportato una reazione generalmente positiva da parte del pubblico più giovane del Maggio Fiorentino, che ha levato meno fischi di indignazione rispetto al resto del teatro.
Anche l’ambientazione, non più nella Spagna del 1800 bensì in un campo nomadi alle periferie di una città italiana negli anni ’70 si presta ad interpretazioni alternative, pur rimanendo fedele al carattere gitano dei personaggi. Come riportato dalla stampa internazionale, il crudo realismo della trama originaria aveva scioccato il pubblico parigino fin dalle prime rappresentazioni, facendo scandalo poi in tutti i suoi primi anni. Che sia una scelta politicamente corretta o meno, l’idea di sostituire l’omicidio di Carmen con quello di Josè non intacca questo aspetto crudo e sanguinario dell’opera. Probabilmente a far discutere di per sé dovrebbe essere il movente della scelta, ovvero quello di voler alterare una creazione artistica per lanciare un messaggio politico. Ma prima occorre fare un passo indietro.
Un precedente di peso?
La storia delle ingerenze del potere politico nelle creazioni artistiche è vecchia quanto l’arte stessa, e le imposizioni subite dai musicisti, con gli operisti in testa, fanno scuola. Da Verdi a Brecht, il teatro musicale ha visto politica e musica legarsi profondamente, si potrebbero citare casi innumerevoli: dalle alterne vicende di Verdi con la censura per Rigoletto e Ballo in Maschera al Don Carlo, modificato ben 5 volte per intervenire proprio sulle parti che per lui avevano maggior valenza, all’intero teatro politico di Brecht e Weill, che aveva lo scopo di riscuotere le masse e mostrare le colpe del capitalismo. C’è, però, un precedente in particolare, che, pur nella assoluta eccezionalità del periodo storico a cui risale, può essere utile a trattare un parallelismo con la vicenda della Carmen fiorentina.
Nel 1935 Sergei Prokofiev si trovava a Parigi negli ultimi giorni del suo lungo esilio dalla madrepatria sovietica: le lusinghe di Stalin e la commissione di un balletto da eseguire al Teatro Bolshoi, unite al richiamo della terra natia erano irresistibili per il compositore, da quasi vent’anni in giro per il mondo. Il balletto sarebbe diventato il celeberrimo Romeo e Giulietta, uno dei lavori orchestrali più acclamati di Prokofiev. Nonostante il successo ancora duraturo, la genesi del lavoro fu tormentata a causa delle pesanti ingerenze staliniane nel processo creativo. Dall’orchestrazione alla scrittura ritmica, il dittatore aveva avuto da ridire su tutto. Persino sul finale, che Prokofiev aveva deciso di riscrivere con un lieto fine, non incontrò il gusto del leader sovietico che lo costrinse ad una riscrittura più tradizionale con la morte degli amanti. La versione originale, completa di scoppiettante pas de deux finale di Romeo e Giulietta, è stata rinvenuta più di 70 anni dopo la sua composizione.
Le motivazioni dei dissidi tra Stalin e Prokofiev sono oggetto di studi molto approfonditi da parte degli esperti del periodo, che però concedono quasi unanimemente un dettaglio non indifferente: la scelta di Stalin era quella di lanciare un messaggio politico forte attraverso una musica chiaramente non sua. Ora, è chiaro che non è possibile e neppure si vuole azzardare un paragone tra le autorità fiorentine e il politburo dell’Unione Sovietica di Stalin. Ma la motivazione che ha portato alla modifica dei finali delle due opere in questione è la stessa: mandare un messaggio. Ancora una volta, pur ribadendo i distinguo tra le due situazioni, le somiglianze nella modalità di azione ci sono, e sono scolpite nel tweet con cui Dario Nardella ha mostrato il proprio sostegno alla scelta della produzione:
Questione di scelte
La scelta di lanciare un messaggio può avere dei risvolti anche qui molto ambigui. Stalin e il politburo sovietico dovevano costruire una storia che ben si conciliasse con il realismo sovietico e rappresentasse l’oppressione del proletariato da parte della borghesia.
La produzione del Maggio ha ideali ben più nobili, come quello di sensibilizzare il pubblico verso un problema grave come il femminicidio. Resta però il fatto che si tratta di una scelta ambigua. Per sensibilizzare contro la violenza sulle donne è necessario ricorrere ad altra violenza, seppur di senso opposto? Questa risposta avrebbe un che di paradossale nella migliore delle ipotesi, mentre se venisse presa alla lettera potrebbe essere interpretata in maniera molto spiacevole con risvolti che esulano decisamente da qualsiasi considerazione politicamente corretto. Giova comunque ricordare che il messaggio lanciato dal sindaco di Firenze contiene un’imprecisione fattuale: i femmincidi non sono in aumento ma in costante flessione, secondo quanto riportato dal Ministero dell’Interno e dall’ISTAT.
Il caso Carmen pone infine una domanda ben più grave della contingente discussione su cosa sia politicamente corretto o scorretto: è giusto modificare un’opera d’arte per andare incontro al gusto del pubblico o per nobilitarne il messaggio politico? Il problema è ricorrente nella storia della musica, ma la scelta adottata da questa produzione, così come le varie modifiche apportate ad alcuni libretti per non urtare la sensibilità dei lettori, rischia appunto di prendere una china pericolosa. Il messaggio di Bizet non si presta facilmente ad interpretazioni misogine, ma anzi viene preso spesso come spunto per mettere in luce tematiche importanti come la violenza sulle donne. Inoltre, a forza di cercare di attualizzare secondo il gusto odierno un’opera, si rischia di perdere di vista il dato più importante: il valore di un prodotto artistico in quanto tale, al di là delle epoche e dei risvolti politici e sociali e si tradisce poi il matrimonio tra musica e azione scenica che in un’Opera dovrebbe farla da padrone, rispettando sempre l’autore. Se fosse necessario lanciare anche un messaggio in linea con i gusti e le esigenze del pubblico contemporaneo, perché non commissionare opere nuove a compositori d’oggi, certamente più inclini alla sensibilità contemporanea che non un Bizet-Frankenstein?
Dulcis in fundo
La vicenda, lungi dall’essere conclusa, non manca di offrire spunti di riflessione e persino lo spazio per qualche risata. Al momento del fatidico gesto di ribellione con cui Carmen avrebbe dovuto impallinare il suo oppressore, la pistola ha fatto cilecca, o meglio non ha funzionato come avrebbe dovuto. Che si sia trattato di una sorta di nemesi o che lo spirito di Bizet si sia levato indignato per tenere fede al suo disegno originario?
Filippo Simonelli