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Un Concorso per salvare l’Opera Italiana

di Alessandro Tommasi - 15 Maggio 2021

Durante i miei giorni di residenza al Concorso Internazionale di Direzione d’Orchestra “Arturo Toscanini”, ho avuto modo di intervistare il Sovrintendente e Direttore Artistico Alberto Triola in merito alla genesi del concorso, alle ragioni che lo muovono e di come questo rinnovato slancio dato al concorso si integri nella sua visione della Toscanini. Qualche giorno fa vi abbiamo presentato la nuova edizione Concorso, che da quest’anno è interamente dedicato all’opera italiana: con questo articolo inizieremo ad approfondire e a raccontarvi cosa si svolge a Parma in queste frenetiche giornate con un gran numero di contenuti.

Partirei proprio chiedendole quale sia il senso di questa nuova edizione del Concorso: perché dedicarlo all’opera italiana?

Rientra tutto nella riprofilazione della Fondazione che è in atto da quasi tre anni, che mette al centro di tutto il nome di Toscanini, non tanto come occasione agiografica, ma in riferimento ai valori di cui questo nume tutelare è garante. Il Concorso Toscanini c’era da anni, ma era uno dei tanti, non aveva particolari caratteristiche che lo distinguessero e mi sembrava che il nome che recava non si riflettesse nella sua programmazione. Allora ci siamo detti: Toscanini è ancora oggi un simbolo dell’Italia e di un modo italiano di intendere la direzione d’orchestra, indissolubilmente legato al teatro e ai nomi della Scala, del Colón e del Metropolitan. Qui ci troviamo a Parma, città paradigmatica per l’opera, inserita in una regione che è considerata forse la più operistica d’Italia. Non esisteva un concorso dedicato all’opera italiana, dunque chi se non noi? In più c’era la complicità straordinaria di Parma Capitale Italiana della Cultura e quando il Comune ha chiesto delle progettualità che connotassero Parma a livello internazionale, la cosa è diventata chiara. A questo punto abbiamo iniziato a strutturare tutto, in primo luogo partendo dalla giuria.

Come funziona la giuria? Ce ne sono ben tre per questo concorso.

Esattamente. La giuria delle finali, la nostra Giuria d’Onore se così la possiamo chiamare, volevamo che rappresentasse la sintesi del meglio dell’opera al mondo, oltre che una vetrina prestigiosa. È presieduta dal Maestro Luisi, che per la sua autorevolezza e la sua caratura internazionale rappresenta il modello del nostro direttore d’opera italiana ideale, ma per il resto è composta interamente da sovrintendenti. In genere le giurie sono un insieme di direttori d’orchestra, agenti, direttori di teatro, e può essere anche un bene. Ma sono trent’anni che partecipo a giurie e mi rendo conto che alla fine quello che fa la differenza dopo un concorso sono i contratti che uno riceve. Nella scelta dei sovrintendenti abbiamo chiamato dei teatri simbolici, partendo da Colón, Scala e Metropolitan per ovvie ragioni legate a Toscanini, poi spaziando per il mondo, da Mosca a Tokyo. Chiaramente i sovrintendenti possono segnarsi un nome, ma poi dovranno seguire gli sviluppi di carriera dei loro concorrenti favoriti prima di poterli chiamare, per questo esiste una seconda giuria tecnica, composta al momento da, se non erro, 25 direttori artistici e sovrintendenti italiani.

Qual è il ruolo di questa seconda giuria?

I giurati avranno la facoltà di indicare, ognuno per la sua istituzione, uno o più nomi per futuri ingaggi. E sono figure prestigiose: abbiamo tutte le fondazioni lirico-sinfoniche italiane da Trieste a Palermo, almeno un teatro di tradizione per ogni regione, tutti i più grandi festival operistici d’Italia… Insomma, i tre finalisti si giocano la carriera. Quelli sono contratti che possono nascere istantaneamente durante il concorso e non è detto che debbano andare al primo premio, questa commissione tecnica valuta autonomamente tra i tre finalisti.

E la terza giuria?

È la giuria delle eliminatorie, presieduta da Antonello Allemandi, che è la più formativa delle tre, in quanto composta da chi ha seguito i ragazzi nelle masterclass, dunque con esperti che hanno anche modo di dialogare con i ragazzi (abbiamo inserito anche un colloquio tra le prove) e decidono i sei che avanzano e i sei che si fermano. Ma tutte le giurie sono fondamentali, il nostro sistema di punteggio lo mostra chiaramente.

Come funziona?

È impostato su dei crediti: c’è un massimo di 100 punti, suddiviso in percentuali per le varie fasi, il workshop, la semifinale, la finale. Inoltre durante workshop e masterclass ogni docente ha delle schede valutative che vengono passate a chi viene dopo. Anche il Maestro Luisi, nella sua masterclass, assegna un punteggio ai ragazzi. In questo modo si va a costruire un vero e proprio dossier che la giuria di semifinali e finali potrà consultare per avere un quadro valutativo il più completo e ragionato possibile, che tenga conto di tutte le fasi e non solo di quei dieci minuti in cui arrivi, ti presenti, dirigi, poi si segna “Sì/No” e fine.

Quello dei workshop è un altro meccanismo interessante: in un concorso così professionalizzante, che si dispone a lanciare la carriera dei suoi concorrenti, avete scelto di inserire una sezione così legata alla didattica. Perché?

Si torna sempre all’opera italiana. Per i direttori d’orchestra non esistono concorsi che presentino workshop di questo tipo, ma l’abbiamo fatto soprattutto perché è importante evitare che il mestiere, la tradizione dell’opera italiana non si disperda. Io ho iniziato ad occuparmi di teatro trent’anni fa, quando ancora eravamo nel Novecento e sembrava che le cose si potessero fare solo in un dato modo. Nel giro di 20 anni il mondo si è capovolto e i punti di riferimento sono cambiati, precipitati, persi, ribaltati, con il rischio di perdere una consapevolezza, un saper fare, un mestiere dell’opera italiana. Non posso rassegnarmi all’idea che il direttore sia solo quello che batte il tempo e fa in modo che tutti vadano insieme, più o meno bene. Bisogna avere una consapevolezza non solo dello stile, ma anche di tutte le trappole, le scorciatoie comode ma da non prendere, tutte le scaltrezze necessarie per muoversi nel mondo dell’opera italiana. Poi chiaro che il vero artista sa anche liberarsi dai suoi modelli imprescindibile: il grande interprete è colui che fa risuonare la qualità del suo tempo, che vive nel presente. Ma nel mondo ci sono tanti grandi talenti e chi nasce lontano da questa tradizione non ha modo di confrontarsi con una scuola che vive di un passaggio di consegne plurisecolare tra maestro e allievo, in Italia troppo spesso dato per scontato e a rischio. Dunque nel momento in cui abbiamo deciso di fare un concorso dedicato all’opera italiana, abbiamo voluto dare un contributo alla trasmissione di questo sapere. Inoltre questo ci permette, prima di metterli al centro delle selezioni, di ridurre un po’ le differenze tra i concorrenti, dare pari possibilità a tutti, arricchire chi viene al concorso e permettere loro di avere anche una sorta di riscaldamento in vista delle selezioni.

Il concorso dunque è anche un’azione di divulgazione, sfruttando l’esca della carriera per tramandare questa tradizione.

Esatto. Non ho ancora risposto davvero alla tua domanda, però: hai sottolineato una sorta di discrepanza tra le finali così esposte professionalmente e le prime fasi così didattiche. È chiaro che questa tensione non si scioglie in una risposta risolutiva, ma posso risponderti così: io sto considerando questo concorso anche come un esperimento per strutturare due diversi progetti, distinti ma in contatto. Uno sarà un concorso sempre sull’opera italiana ma più standard, senza questa fase didattica, e l’altro un organismo permanente di alta formazione per direttori d’opera italiana, così che la Fondazione Toscanini possa assumersi l’onere di essere un centro di richiamo di altissima formazione per direttori d’orchestra che vogliono passare qui qualche mese l’anno per entrare nel mondo dell’opera, vivere in Italia, imparare la lingua, impadronirsi del mestiere.

Parlando del repertorio, la scelta è molto guidata, è rimasta comunque una traccia del repertorio sinfonico classico e manca quel primo Novecento di cui Toscanini fu alfiere. Perché?

Ogni anno il Concorso avrà un focus toscaniano. Quest’anno il focus della finale è Verdi, dovendo dirigere un grande atto al Teatro Regio, oltre ai duetti di Rossini che richiedono un altro tipo di tecnica e di attenzione. Nelle fasi precedenti, invece, siamo stati sui classici canonici del genere. Per il futuro, invece, guarderemo a Puccini, al Novecento di Toscanini e persino, ma lì bisognerà strutturarlo molto bene, pensare di fare un’edizione dedicata a Wagner. Però a Wagner bisogna arrivarci con i piedi di piombo, quando la struttura sarà talmente solidificata da permetterci ulteriori esperimenti.

Abbiamo parlato della giuria, dei docenti, ma questo concorso ha anche una grande partecipazione di cantanti. Come si struttura?

Beh, l’opera senza cantanti chiaramente non si fa! Nel percorso formativo abbiamo ritenuto fondamentale trasmettere ai concorrenti il modo di trattare con i cantanti, conoscere i loro bisogni, sapere quali trappole evitare. Ringrazio davvero il Conservatorio di Parma e il suo Direttore Riccardo Ceni per la collaborazione importantissima che ha portato i cantanti in questa fase di workshop, oltre agli strumentisti che saranno aggiunti in orchestra durante la masterclass di Fabio Luisi. Questa è una sorta di doppio percorso formativo: i giovani cantanti servono al direttore perché un cantante non professionista può essere un problema e non c’è niente di meglio per insegnare a guidare che dare in mano una macchina che ha bisogno di essere davvero controllata. Viceversa per questi giovani cantanti è importante misurarsi con l’esigenza di assecondare un gesto e confrontarsi in un’esperienza di questo genere. Ovviamente nel momento in cui con il Maestro Luisi i direttori si confronteranno con l’orchestra, che è un’orchestra di grandi professionisti come la Filarmonica Toscanini, anche i cantanti saranno professionisti. In quel momento il focus è sul rapporto direttore-orchestra e i cantanti devono avere l’esperienza per saper assecondare le indicazioni del direttore. Ancor di più nella finale, al Teatro Regio. Per essere giudicati da quel tipo di giuria, bisogna contare su una situazione di grande professionalità. Solo così un giovane direttore potrà dimostrare con evidenza di essere pronto a dirigere nelle più importanti istituzioni del mondo.

Alessandro Tommasi

Autore

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro.

Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia.

Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella.

Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

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