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Testimoni del presente: dialogo con Silvia Colasanti

di Valerio Sebastiani - 30 Maggio 2020

Testimoni del presente: una rubrica di interviste e colloqui con i compositori europei, per indagare le caratteristiche, le contraddizioni e le peculiarità del fare musica in un momento di così radicale cambiamento globale. Dei dialoghi riguardanti un presente profondamente segnato dagli effetti della pandemia e i possibili (e necessari) sviluppi dell’arte musicale in un panorama futuro. 

Abbiamo raccolto fino ad ora testimonianze molto ricche ed eterogenee: le conversazioni con Giorgio Battistelli, Luca Lombardi, Giorgio Colombo Taccani, Vittorio Montalti, Francesco Filidei, Fabio Massimo Capogrosso, Fabio Vacchi, Lucia Ronchetti, Marco Tutino e Orazio Sciortino sono consultabili ai link qui riportati.

Oggi è la volta di Silvia Colasanti, già protagonista di una nostra intervista per la rubrica “Nuove Strade”. Con lei, oggi, abbiamo approfondito gli intimi aspetti della propria attività, mantenendo sempre una prospettiva storica nell’affrontare sia la figura sociale del compositore, che lo sviluppo dei linguaggi musicali.


L’intimo rapporto con se stessi: il compositore vive, per la natura stessa del proprio mestiere, una condizione di solitudine; tuttavia, a fronte della forzata reclusione, come cambia la percezione di questa solitudine, se cambia, e quali sono le riflessioni che emergono?

Credo che con la propria musica il compositore vada a raccontare gran parte di sé, per cui, almeno nel mio caso, il contatto con l’altro è fondamentale.
La solitudine è necessaria per scrivere, nel momento in cui ci troviamo in profondo contatto con noi stessi: ci aiuta a prendere consapevolezza del nostro mondo interiore e del nostro trascorso storico, biografico.

In questo caso, però, non si è scelta. Una solitudine forzata quindi, segnata da ciò che accade intorno a noi. Non ho vissuto questo periodo come un momento troppo felice per scrivere, anche se in realtà, poi, ho composto molto, ma non è stato possibile per me isolarmi senza sentire il peso di quanto accadeva fuori.

Senz’altro il clima emotivo, la preoccupazione, e via dicendo, hanno una loro traccia nella musica, che ora però non posso del tutto identificare.

Un fatto curioso tra l’altro è che in questi due mesi ho lavorato a delle lettere tratte dalle Eroidi di Ovidio (per una commissione del Festival di Spoleto), che costituiscono i testi per Tre Monodrammi per attrice, orchestra e coro femminile. Sono appunto lettere di eroine abbandonate: Arianna che scrive a Teseo, Fedra a Ippolito e Didone a Enea. Missive, quindi, segnate dalla lontananza. 

Quanto è importante per Lei il destinatario della sua opera?

Non mi sono mai posta di fronte a un foglio pensando se il pezzo venga eseguito a Parigi o a Londra. 

La scrittura per me è un gesto di comunicazione a prescindere da quanti ascolteranno – che siano duecento persone o mille, in una piazza inglese, o in teatro francese – perché mi rivolgo a un destinatario che è parte integrante dell’opera stessa e che vorrei fosse il più eterogeneo possibile, affinché ciascuno possa rispecchiarsi da angolature differenti.

In questo periodo in cui la destinazione è diventata incerta, ho comunque composto come avrei sempre fatto, immaginando di narrare qualcosa a un pubblico che prima o poi (si spera) prenderà parte all’esecuzione.

L’arte ci offre un prisma di soluzioni in cui ciascuno può identificarsi. E questo è qualcosa che cerco fortemente, non pensando a quanto uno conosca o meno certa musica perché il mio tentativo è di risvegliare le componenti emotive dell’ascoltatore. 

Se un lavoro è caratterizzato da forza espressiva e da stratificazione di significati, è destinato ad arrivare anche se complesso. Affinché ciascuno si possa ritrovare è quindi necessario che non vi sia un solo e univoco messaggio.

Allo stesso modo vorrei dare al pubblico qualcosa in cui potersi ritrovare, commuoversi anche, o contrapporsi, ma comunque in qualche modo identificarsi.

Le Eroidi di Ovidio, in questo senso, sono esemplari: rappresentando i personaggi in tutti i loro aspetti e mediante una profonda comprensione delle loro sfaccettature, ci parlano di noi come individui complessi, con le nostre emozioni e le nostre ombre, i nostri lati più oscuri.

Sta affrontando un aspetto molto importante della scrittura: il rapporto con il pubblico. Anche se la destinazione di una tua opera non influenza il tuo modo di comporre, senz’altro il dato della comunicazione nel tuo lavoro è molto importante. Se vogliamo storicizzare questa tendenza, dovremmo dire che negli scorsi decenni spesso la comunicazione con il pubblico era sacrificata alla sperimentazione, all’individualismo dell’artista, che non si preoccupava di chi aveva di fronte.

Pur vivendo in un presente ricco di complessità e contraddizioni, segnato dai suoi duemila anni di storia musicale con la quale doverci confrontare, il compositore deve comunque saper comunicare con chiarezza. Ovviamente rifiutando di ricorrere a banalità o a scorciatoie.

Piuttosto: la complessità necessita di essere vissuta, attraversata, e trasmessa in modo limpido, ma nella sua essenza resta articolata, perché articolati siamo noi esseri umani.

In tal senso il mio percorso di ricerca è proprio rivolto ad esprimere con una certa trasparenza comunicativa le nostre complessità emotive. 

Quello che ci stai raccontando è testimonianza del fatto che siamo ormai lontani una certa tendenza decostruzionista…


Per la mia generazione in particolare, quella è stata una fase significativa, anche perché attraverso quella storia ci siamo problematizzati. Quindi, seppur mi senta lontana dai presupposti delle avanguardie, non lo sono dalle necessità storiche che le hanno prodotte.

Quella grande stagione di sperimentazione ci ha lasciato dei vocaboli, delle estetiche che qualora ci interessino possiamo fare nostre.

Non conoscere certi periodi storici, non considerare il lascito delle avanguardie, per me è un errore tanto quanto restarci imprigionati. 

L’importanza del confronto con la storia è evidente nella Sua musica…


La tradizione alla fine non è altro che la somma di tante rivoluzioni. Conoscere la tradizione e vivere nella tradizione non significa restare ancorati nel passato, ma con esso confrontarsi.

Oggi, fortunatamente siamo più liberi di poterci muovere nei vari linguaggi, ma va fatto con piena consapevolezza, con discernimento.

Il fascino del presente è offerto proprio dalla possibilità di guardare diverse epoche storiche sullo stesso piano, dalla medesima distanza, che si tratti di Monteverdi, di Henze o di Berio. Per cui credo si possano anche impiegare vocaboli anche arcaici, se ricontestualizzati, rendendoli quindi ancora fonte di meraviglia, di stupore.

Occupandomi spesso di opera trovo molto utile usare linguaggi o stilemi eterogenei, perché il teatro musicale si presta naturalmente all’eterogeneità. 

A quali modelli si sente più vicina?

Ho una grande affinità con la musica barocca e non ho mai avuto remore nel mostrarla! Inoltre amo gran parte della musica espressionista della Vienna di primo Novecento, un mondo sonoro molto vicino al mio modo di sentire. Ma in generale estenderei alla linea che collega Schubert, Mahler, Berg fino a Henze.

Quando avvicino e rielaboro questi frammenti di memoria, anche di epoche lontane, questi riescono a fondersi in un insieme in cui la coerenza non è data solo dal linguaggio, ma anche dalla forma e dal sentire.

Qual è il suo rapporto con l’interprete?

Mi piace il confronto anche con letture interpretative differenti a cui magari io non avevo pensato.

Lavorando spesso con artisti di grande spessore mi incuriosisce ascoltare quello che loro leggono nel mio pezzo, e conoscerli anche attraverso quelle sfumature che aggiungono al lavoro.

Inoltre, mi trovo particolarmente bene con le personalità sfaccettate, soprattutto nel teatro che amo essere, appunto, dai molti volti…

La Sua produzione per il teatro è molto feconda. Parliamo per un momento delle scelte dei soggetti, penso in particolare a La metamorfosi, a Minotauro, al Faust su testo di Pessoa.

Sono scelte che nascono da una grande passione per la letteratura e per la forza del mito. Naturalmente tutto ciò si lega virtuosamente anche al rapporto con il committente, che io vedo sempre come uno stimolo piuttosto che una prigione perché ti pone confini che stimolano la creatività.

Avete ricordato Kafka. Nel 2011 il Maggio Musicale Fiorentino mi contattò per un lavoro; il tema del festival sarebbe stato la Mitteleuropa e mi fu chiesto di trovare un soggetto attinente. Col regista Pierluigi Pieralli abbiamo pensato a La metamorfosi, racconto simbolo del Novecento.

La sfida è stata mettere in scena un testo così conosciuto, ma anche confrontarsi con le molte particolarità del racconto e tradurle in musica (come per esempio lo scarafaggio… che resi con uno personaggio polifonico). Con Kafka si trattava la diversità, ma prendendo ad esempio il Faust di Pessoa, centrale era l’intelligenza impiegata con fini distruttivi.

Nel Minotauro di nuovo torna l’idea del diverso e della mostruosità. In Proserpina il femminile. Alla fine anche in questo caso si tratta di un’indagine delle infinite sfumature umane.

Quali sono per Lei Maestro Colasanti le prospettive future nell’ambito della composizione in Italia?

Ci tengo a dirlo: sono molto positiva riguardo al futuro del nostro lavoro come compositori, perché abbiamo ancora bisogno, ora più che mai forse, di manifestazioni artistiche, di confrontarci con le nostre parti emotive, di quello straordinario rituale collettivo che è il concerto.

Credo che questa esigenza non morirà mai nell’uomo; quello semmai che sento mancare, da parte di alcune direzioni artistiche perlomeno, è il rinnovamento dei linguaggi. È questa mancanza di attenzione al presente che mi preoccupa

La nostra generazione vive spinta dalla necessità molto pronunciata di una ricerca di dialogo. In fondo sono moltissimi quelli che da esperienze come il Festival di Milano Musica (quello dedicato a Francesconi) o la Biennale di Venezia che ha recentemente dato il premio a George Benjamin per la sua ultima opera, escono coinvolte, emozionate. 

Io credo che un desiderio di tornare a parlare della musica contemporanea ci sia, e certe paure rispetto al pregiudizio di un’arte contemporanea lontana dal pubblico si stanno a poco a poco scardinando.

Che ruolo ha l’insegnamento della composizione nella sua attività professionale?

L’insegnamento è una parte fondamentale della mia vita di compositrice, sia per il rapporto con i miei studenti, sia perché mi aiuta a sintetizzare alcune riflessioni personali. L’aspetto a cui tengo di più è il confronto tra tante posizioni diverse; cerco di fare in modo, inoltre, che ognuno possa sviluppare la propria individualità. Alla fine il mio compito è quello di riuscire a far sì che imparino a muoversi liberamente, con loro gambe.

Uno spazio significativo delle lezioni lo dedico all’analisi delle partiture.
È davvero entusiasmante quando i ragazzi scoprono con meraviglia qualcosa che non conoscevano; poi molto semplicemente mi piace parlare di ciò che appassiona me in primis, e provare a spiegare cosa mi colpisce, attraverso la comprensione del pensiero musicale di una partitura.

Ovviamente parlare in classe di un lavoro non è sufficiente affinché un ragazzo possa prendere totale consapevolezza di ciò che scrive: bisogna ascoltare. L’esecuzione (anche non finalizzata al concerto), è il momento di crescita più importante nel nostro mestiere. 

Un approccio all’insegnamento maieutico, quindi…

Esatto! Che dovrebbe valere per qualunque disciplina. Per quanto mi riguarda, cerco di riconsegnare nel modo più sincero possibile quanto ho ereditato dai miei maestri.

Azio Corghi, in questo senso, è stato per me esemplare. L’insegnamento più importante che ho estrapolato dalle sue lezioni (che è al tempo stesso il segreto della disciplina musicale) è stato ricavare la propria propria libertà dentro un rigore assoluto.

Le regole, a volte limitanti, della musica, diventano poi uno strumento di libertà poiché permettono di esprimerti con coerenza e chiarezza. 

Tiriamo le fila per fissare dei concetti che potrebbero essere utili per un giovane che vuole avvicinarsi alla composizione…

Pensare l’arte come ricerca, ma saperla raccontare con grande forza di sentimento e di pensiero. 

Intervista a cura di Michele Sarti e Valerio Sebastiani

Foto di copertina © Max Pucciariello 

Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

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