Testimoni del presente: dialogo con Francesco Filidei
di Valerio Sebastiani - 29 Aprile 2020
Abbiamo stimolato diversi compositori a rispondere a tre questioni legate al presente, per indagare le caratteristiche, le contraddizioni e le peculiarità del fare (e pensare) musica in un momento di così radicale crisi globale. In queste due settimane abbiamo potuto ascoltare le voci di compositori come Giorgio Battistelli, Luca Lombardi, Giorgio Colombo Taccani e Vittorio Montalti. Oggi vi proponiamo una conversazione con Francesco Filidei, il quale ci ha accompagnato nelle pieghe più profonde della sua quotidianità: da Netflix, alle riflessioni sui legami tra teatro e vita; dalle passeggiate al mercato rionale, alla scrittura di aforismi musicali per esorcizzare lo stress della quarantena.
L’intimo rapporto con se stessi: il compositore vive, per la natura del proprio mestiere, una condizione di solitudine; tuttavia, a fronte della forzata reclusione in cui ci troviamo, come cambia la percezione di questa solitudine, se cambia, e quali sono le riflessioni che emergono?
La solitudine in cui vive il compositore è forse l’aspetto più faticoso del mestiere. Ora che questa solitudine è marcata dalla forzatura della quarantena, è necessario prendere atto di come certi parametri della quotidianità siano rimessi in discussione. Cambiano a tal punto che, sommandosi al peso di una condizione già complessa, può verificarsi una paralisi creativa. Parlando con alcuni colleghi, mi sono reso conto per molti di loro risulta difficile mantenere quella lucidità di pensiero necessaria per scrivere quotidianamente. Per quanto mi riguarda, pur considerando la pesantezza della situazione, il mio stile di vita in realtà, non è cambiato così tanto: tendo comunque a passare molto tempo lavorando nella mia abitazione di Parigi, con l’unica differenza che prima, magari, uscivo per andare al ristorante con mia moglie o con amici, o che la mattina quando porto il cane a passeggio mi fermavo al mercato per comprare verdura o formaggi. Adesso che il mercato è chiuso, mi limito a camminare in quella zona, o nei vicoli limitrofi. La vita quindi, scorre un po’ come al solito. Ritagli di tempo a parte, sono tante le ore che dedico alla composizione e per stemperare, mi metto qualche serie su Netflix durante la copiatura di un pezzo. Verso le otto, nel quartiere tutti applaudono; un rito molto importante a cui mi piace prendere parte. Poi preparo la cena e infine vado a letto. Ogni giorno si ripete tale e quale.
I contatti con l’esterno sono ridotti al minimo, fatta eccezione per qualche riunione virtuale con il Teatro di Reggio Emilia. Cerco in tutti i modi di rispettare una routine, altrimenti si rischia di impazzire. Sto lavorando a due progetti importanti: un Requiem, che avevo in cantiere da lungo tempo, e che adesso aggiunge ulteriore pesantezza alla situazione, e un Concerto per pianoforte e orchestra. Per avere maggior respiro alterno la scrittura dei due pezzi: lavoro al Concerto durante la settimana e nel weekend mi dedico all’altro. Questa sorta di angoscia dell’incertezza che stiamo vivendo, forse, si sta insinuando anche nella musica: nel Requiem, in particolare, sono emersi alcuni momenti di staticità, di sospensione che prima non avrei immaginato.
Poi, per alleggerire, scrivo “pillole” quotidiane sull’impatto psicologico della quarantena. Sono nient’altro che miniature per voce sola, ironiche e molto leggere, su testi di Federico Maria Sardelli (dalla raccolta Proesie), che ogni giorno pubblico sul web nell’interpretazione di Jeanne Crousaud. Intendiamoci, sono aforismi composti magari nel giro di una mezz’ora, ma molto efficaci per alleviare lo stress o spezzare i ritmi di scrittura.
Un altro progetto, enorme, che avrei per fine 2021, sarebbe quello di un’opera ispirata ad Animal Farm di Orwell, che purtroppo, con le conseguenze virus, rischia di essere messo in discussione. In una fase iniziale di confronto, avevamo pensato di mantenerci abbastanza coerenti al testo originale; ma il fatto che il Covid-19 sembrerebbe provenire dagli animali, può anche rimettere in gioco la struttura stessa del lavoro per ridefinirlo in chiave più attuale.
La paura riempie il presente in molti suoi spazi, è vero, tuttavia, è un periodo durante il quale noi compositori abbiamo la possibilità di ripensare, con creatività, alcune modalità di fruizione della musica, anche quando si è rinchiusi in casa. Ciò può mettere in luce, sotto altri punti di vista, le particolarità, le distorsioni, le problematiche e i difetti del presente, e portarci, il più sinceramente possibile, a creare qualcosa di positivo. Per quanto mi riguarda non mi è mai capitato di essere così attivo su progetti definiti, e al contempo, l’urgenza, la voglia di scrivere ad ogni costo, mi hanno spinto a fissare su carta quei lavori in sospeso da qualche parte nella mia testa ma che adesso ho il tempo, e la motivazione, per realizzare. Un giorno di questi potrei ritrovarmi a scrivere tutto d’un fiato, un pezzo per flauto di sette minuti senza commissione alcuna, cosa fuori dalla norma per come sono abituato a lavorare.
In questo momento tragico, abbiamo la possibilità di rimettere in discussione alcune cose, di rielaborare il presente e viverlo consapevolmente. Questo sia a livello profondo che nel mestiere: ad esempio, sulle modalità di far musica d’insieme, a partire dai mezzi a disposizione con i limiti del confinamento. Naturalmente, in questi termini, è necessario trovare delle soluzioni formali che trasformino i limiti tecnici di piattaforme come Zoom o Skype, in possibilità.
Agli inizi della quarantena ho scritto un pezzo per Les Cris de Paris (Questo è tutto, su un testo di Nanni Balestrini) da realizzare live su Zoom, senza quindi preregistrare ognuno la propria parte con un beat in cuffia.
È costruito su una serie accordale disposta in modo che gli esecutori non abbiano bisogno di cantare in sincronia. Anzi, ogni accordo è raggiunto con morbide sfasature tra le voci, tenendo conto del rapporto complessivo di ogni singolo insieme, che di per sé ha una durata approssimata stabilita dal direttore. Ho però indicato anche un’altra possibile modalità di esecuzione: se si producono dei leggeri battimenti con la mano sulla bocca, il programma, che tende a captare le frequenze da una sorgente per volta, non riesce a individuare la singola fonte, permettendo agli esecutori di interagire contemporaneamente. I risultati sono molto diversi tra loro, ma la resa credo sia efficace in entrambi i casi.
Dal momento che la clausura ci costringe al solo uso di questi strumenti, perché non farne impiego per offrire al nostro lavoro un connotato di contemporaneità dal senso forte e unico?
Cambiando prospettiva è evidente che cambino gli atteggiamenti, ma anche gli strumenti con cui si lavora…
In questi trentacinque anni dedicati alla scrittura, ho cercato di prestare molta attenzione al cambiamento sociale, e di conseguenza a quello dei mezzi a disposizione. Anni in cui le idee si sono sviluppate e depositate, e che adesso, magari, trovano il modo di declinarsi alle attuali esigenze. Avevo citato questi piccoli lavori che sto realizzando con il soprano Jeanne Crousaud; ecco, possono rappresentare un buon esempio. L’idea è nata perché Radio France mi aveva chiesto di curare delle “pillole” musicali, distribuite in mini-video, da far eseguire ad amici come Maurizio Baglini, Mario Caroli o Francesco Dillon; pezzi brevi da poter registrare in casa. Sentendomi poi con Jeanne, è venuto fuori che avrebbe cantato con piacere alcune di queste miniature. Riflettendoci, avevo già messo in musica due “Proesie” di Sardelli e mi son detto: “Perché non scriverne altre?”. In un’ora ne ho composte un altro paio, che lei ha subito cantato e messo in scena. Lavorarci è risultato davvero divertente e abbiamo deciso di produrne altre. Il mezzo a disposizione e le modalità sono state “scelte obbligate”, rappresentando al tempo stesso una risorsa che abbiamo a disposizione nel presente.
Tra l’altro quella della video-performance è una direzione già intrapresa in vari ambienti artistici, con crescente interesse da alcuni anni a questa parte. Musica e video costituiscono un connubio molto efficace come mezzo espressivo. E’ un fenomeno che mi riguarda direttamente: anch’io mi muovo ormai da tempo in quella direzione, che vedo particolarmente adatta a rendere alcuni meccanismi drammaturgici del teatro. In fondo, ho sempre sostenuto che sono un operista, che nel teatro musicale affondano le mie radici. Però, se di teatro si tratta, non posso tollerare l’amplificazione della voce: ho bisogno di vedere il corpo nella sua viva naturalezza, sentire il suono vocale riportarci ai rapporti umani, alle relazioni della psiche, ai contatti tra gli uomini nelle loro società. Contatti che, paradossalmente, ora rappresentano problematiche di cui discutere per il futuro. Quello che serve a una società credo sia proprio il rapporto umano, fisico, che questo virus ha messo fortemente in discussione, perché anche quando vedremo la fine lock-down, sarà comunque necessario tanto, troppo tempo per poter recuperare il contatto tra gli individui. Quando esco, non so voi, mi viene istintivo tenermi almeno a due metri di distanza dagli altri; come tutti poi, vado a giro con la mascherina e se necessario uso i guanti. Intendiamoci: è bene che sia così. Questa condizione, che purtroppo è destinata a perdurare, porta con sé qualcosa di terribile. Non voglio immaginare quando e in che modalità potremo tornare a teatro. Come può un’orchestra suonare mantenendo le distanze di sicurezza? E se gli ottoni venissero esclusi perché impossibilitati a suonare con la mascherina? È evidente che si dovrà pensare a delle possibili soluzioni, e riflettere sull’eventualità di far lavorare un’orchestra anche da casa (magari con progetti di montaggio, o comunque cose di questo tipo).
Maestro Filidei, definendosi un “operista” ha toccato un aspetto molto importante: il ruolo del teatro. Come collocarlo nella situazione attuale?
Io parto dal presupposto che l’opera sia uno strumento del passato che adesso non può essere riprodotto nelle condizioni in cui viveva prima. Ha dato la sua massima espressione per un altro tipo di società, per la quale era specificatamente realizzato. Rappresentava la voce di un altro modo di vivere e di pensare. Ciò che mi interessa dell’opera nell’attualità è proprio il suo appartenere ad altre epoche storiche; questo è un punto di forza che uno strumento contemporaneo non potrebbe avere, in quanto forte di secoli di stratificazioni. L’opera ha un peso culturale che da una parte blocca noi compositori e ne impedisce una rifondazione; ma è altrettanto vero che la storia del genere è il motore che ci permette di ripensare il teatro stesso. Prescindere dai simboli che il teatro musicale nel corso dei secoli ha sviluppato, è pressoché impossibile in quanto connaturati nel linguaggio stesso; piuttosto potrebbe essere interessante attribuire ai medesimi simboli nuovi possibili significati.
Personalmente mi affascina insinuarmi nelle strutture dell’opera non da archeologo, ma da esploratore: conoscerne i meccanismi permette una riedificazione della forma dal suo interno, coniugata a un contesto di attualità. E’ impensabile ignorare le fondamenta della nostra cultura musicale: l’immenso lascito di Monteverdi, Donizetti, Puccini, o Verdi. Per incrinare queste imponenti architetture bisogna metterle in relazione con le problematiche e le necessità del presente; così le colonne portanti vengono meno, si sgretolano e possono essere riedificate. Con la crisi che abbiamo davanti chissà se sarà possibile continuare a immaginare una forma faraonica, dispendiosa e al contempo necessaria, come quella del teatro musicale. Forse saremo costretti a mettere in discussione anche questo aspetto organizzativo della macchina teatrale, cercando di contenerne i costi senza limitare la creatività.
Riguardo al rapporto con un passato storico citerei il Requiem a cui sto lavorando. Si possono tracciare degli evidenti parallelismi tra ciò che dicevo a proposito del teatro e questa forma musicale altrettanto storicizzata. Proprio per sottolinearne il significato, ho scelto alcuni passi canonici del testo senza interpolazioni esterne, a differenza, per esempio, del War Requiem di Britten: Introitus, Kyrie, Dies Irae e Agnus dei.
Maestro Filidei, ha parlato di incrinare la forma del teatro d’opera dall’interno; come lo realizza in termini compositivi?
Prenderei come esempio la prima delle due opere che ho scritto: Giordano Bruno (il link rimanda all’opera completa). Questo lavoro ha una complessa e rigorosa struttura formale, concepita affinché collassi quando, nell’undicesima scena, Giordano Bruno viene mandato al rogo. Lo sgretolamento avviene a partire dal suono che simbolicamente ho associato alla vita; in contrapposizione quindi, nel momento in cui sopraggiunge la morte, il suono si trasforma in rumore. Come non c’è reale separazione tra vita e morte, altrettanto suono e rumore sono morfologicamente uniti. In questo caso il segno della morte è rappresentato da un gesto musicale chiave, spesso ricorrente nella mia musica: il battito della mano sul legno. Un suono che mi è rimasto impresso da piccolo quando mia nonna batteva ripetutamente il pugno sulla bara dove giaceva mio nonno, come cercasse disperatamente, fuori di sé, di ridargli vita attraverso il legno inanimato. Da una parte il corpo vivente, dall’altra la morte, tra loro proprio il legno, che in Giordano Bruno brucia legando indissolubilmente le due dimensioni.
Questo momento cruciale è reso in musica mediante la distruzione sonora di tutto ciò che prima era venuto creandosi: le mani percuotono a lungo tavole di legno e battono sul suolo; dal coro provengono grida di incitazione; poi, tutto il frastuono si trasforma in applauso. È la fine prima della fine. L’applauso sembra evocare il crepitio del fuoco ma al contempo ci riporta a una scena precedente, scandita anch’essa dal medesimo gesto. Al termine di entrambe resta continuo il rintocco di una campana, il fa diesis con cui si apre l’opera, che ora, però, accompagna il passaggio tra la vita e la morte.
Per quanto riguarda l’altra opera L’inondation, presente in rete in una versione televisiva, la scena della confessione della protagonista, colpevole di omicidio, è resa con uno specifico suono: il respiro. Il delirio della La Femme, l’affanno tra le parole, si amplifica lentamente in tutta l’orchestra che inizia a respirare. Come lei si libera dai propri demoni, così il flauto, l’oboe, il clarinetto liberano il loro respiro che vaga tra l’orchestra, oltre lo strumento, oltre il corpo; è una sorta di ectoplasma che allaga la fossa, e lì resta, fino a perdersi con la fine dell’opera. Questa è la vera inondazione.
Operazione, questa, che sembrerebbe aprire una nuova dimensione: tagliare la tela per ritrovarsi su una nuova tela; uscire dal teatro, osservarlo attraverso altre prospettive, per entrare “nel” teatro…
Esiste una diretta continuità fra teatro e vita, per questo mi preme considerare a fondo lo scorrere del tempo nell’arcata di una forma chiusa, perché in qualche modo non c’è interruzione. Alla fine degli anni Novanta avevo cominciato a scrivere dei pezzi che in questo senso oggi sarebbero molto attuali: una serie di lavori da realizzarsi all’interno di se stessi con dei tappi nelle orecchie; per cui l’esecutore coincide con l’ascoltatore. L’ascoltatore-esecutore, nel confinare il proprio spazio uditivo, si proietta su un palcoscenico interiore, un teatro dentro di sé nel quale risuonano respiro, battito dei denti, scorrere della saliva, pulsazione del cuore e della pressione sanguigna. Applicando diverse pressioni sui lobi si ottengono diverse gradazioni del suono e così si costruisce la materia sonora. Premendo le pupille, spalancando gli occhi, o cambiando la direzione dello sguardo si modifica la percezione della luce arrivando perfino a una sorta di danza. Il tutto naturalmente annotato con una scrittura particolare. All’interno di sé, l’esecutore-ascoltatore sperimenta la dualità che lega interprete e spettatore. Si organizza quindi un suono interno, al contrario di quanto solitamente accade all’esecutore, che invece organizza un suono esterno volto a influenzare l’interiorità di chi ascolta. Il dubbio che può sorgere, è se si tratti di una musica finalizzata a vivere solo dentro se stessi. Sono io soltanto? Assolutamente no: dentro me stesso ho la possibilità di ritrovare una moltitudine di alterità. Liberandomi da questa concezione di “uno”, di separazione fra me e il mondo, alla fine dei conti, io perlomeno, ho meno paura di morire. Se è vero che tutto quello che ci muove è la paura della morte, la musica può aiutarci a prendere consapevolezza di questo fenomeno: con la fine di un brano, possiamo capire meglio come affrontare la fine della vita.
Le strategie per il futuro prossimo: alla luce dello sconvolgimento globale attuale, con la consapevolezza di una possibile e ancor più profonda crisi economica all’orizzonte e i rischi e le paure di ritrovarsi in luoghi affollati, ora più che mai le sovrintendenze dei teatri e delle istituzioni concertistiche, dovranno mettere in campo strategie in grado di reagire alle difficoltà verso cui andremo incontro. Maestro Filidei, quali scenari si prospettano secondo Lei e come riporteremo le persone nelle sale da concerto?
Come ho detto il rapporto fisico tra gli esseri umani è fondamentale; io almeno sento la profonda mancanza del contatto umano. Lo stesso per me vale in ambito musicale: ho sempre evitato di lavorare con l’elettronica proprio perché mi dà l’idea di uno strumento che allontani l’essere umano. Ora che ci rapportiamo separati da uno schermo, sento amplificarsi un divario di carattere culturale. Come già ho spiegato, quello che mi affascina della musica è il rapporto con la memoria, intesa quale relazione con il nostro passato biografico e culturale, e soprattutto come possibilità di mantenere vivo ciò che altrimenti si perderebbe: non c’è niente di più emozionante, per esempio, di rinvenire da un archivio un pezzo rimasto ineseguito da secoli e suonarlo ancora.
Spero che i teatri possano riaprire quanto prima, anche se sarà necessario far entrare meno pubblico per mantenere le distanze di sicurezza, o magari, dislocare gli strumenti in diverse posizioni all’interno della sala. La dislocazione spaziale degli strumentisti (sperimentazione già ampiamente realizzata nella storia della musica), può essere anche un ottimo espediente per creare dei pezzi in cui il pubblico, rigorosamente distanziato, sia immerso nel suono degli esecutori. Così si potrebbe, al contempo, continuare le attività di un teatro nel rispetto delle norme sanitarie, e dare la possibilità ai compositori di produrre nuovi lavori. È il momento che i giovani si sveglino e “approfittino” della situazione, per comporre lavori in sintonia con le attuali esigenze: questa per loro potrebbe essere è un’occasione unica.
Il compositore: testimone del proprio tempo. Superata l’emergenza della pandemia l’arte dovrà riuscire a essere un reale e necessario sostegno, se riconosciuta come “medicina dell’anima”, e il compositore una voce di riferimento; ma alla luce delle difficili condizioni di un mestiere non sempre riconosciuto, come riuscirà a farsi ascoltare? Maestro Filidei, se dovesse dare un consiglio a un giovane compositore, cosa direbbe?
…di non andare a cercare le risposte da quelli più vecchi come me! Ormai, alla soglia dei cinquant’anni, non ho più quella carica propulsiva che dovrebbero avere i giovani: loro possono impugnare le redini, inventare nuovi strumenti, trovare nuove modalità espressive. Se uno prende per esempio il giovane Stockhausen – qualcuno potrebbe dire un pazzo fulminato! – questi è riuscito a farsi strada in quanto profondamente convinto. A volte bisogna essere un po’ scemi e molto testardi per continuare questo lavoro, ma se si ha una spinta interiore e si riesce a canalizzare l’energia propulsiva che genera, prima o poi i riscontri positivi arriveranno. Siamo in una situazione per certi versi simile al panorama postbellico: possiamo ricostruire. Nel dopoguerra italiano, un’intera generazione (Eco, Sanguineti, Berio per dirne alcuni) hanno avuto davvero campo libero, cosa che finora non è stata possibile, perché a ricoprire la maggior parte delle posizioni influenti sono sempre stati gli stessi. Con l’esperienza del virus abbiamo l’opportunità di vedere una nuova generazione reinventarsi, e così emergere. Non andate a cercare risposte dai più vecchi: trovatele in voi!
Si è compositori indipendentemente dal fatto che ciò si che scrive risponda alle esigenze della società. Anche chi scrive musica è però immerso in un contesto sociale, ne è lui stesso parte, come tutti gli altri d’altronde. Ci sono stati dei periodi nella storia in cui questo legame era molto forte e riconosciuto, e il compositore godeva di un rispetto che oggi, a parte alcuni rari casi, è impensabile. Posso sentirmi compositore anche solo scrivendo un pezzo per me stesso, destinato al mio corpo, come a una grande orchestra. È chiaro però che per un’orchestra ci vogliono finanziamenti e un opportuno lavoro di divulgazione, ma io resto comunque un compositore. Potrei scrivere anche per una matita che percuoto su una superficie: tutto può diventare un espediente sonoro, il problema sta appunto nella realizzazione. Per quanto riguarda le problematiche culturali della nostra società credo il discorso da affrontare sarebbe ampio e complesso…certe posizioni di alcuni compositori hanno danneggiato il rapporto con il pubblico, va riconosciuto, perché arroccati su posizioni che magari non interessavano a una più larga parte. Un Paese per esempio come l’Inghilterra, è riuscito a coniugare meglio i rapporti tra le varie componenti. Basti pensare ai lavori di George Benjamin o Thomas Adès: sono comunicativi e avvicinano il pubblico che li accoglie con grandissimo calore. Per quanto riguarda invece il nostro contesto culturale, piuttosto che valorizzare il patrimonio abbiamo creato una profonda scissione: da una parte Sanremo, che è tutto, e dall’altra i compositori che fanno la loro musica, che non è niente. Mentre, fino a un certo periodo, quello per esempio dei grandi compositori d’opera, le due istanze erano riunite. Poi, chiaramente, la mia posizione è ora forse più mitigata rispetto a quando avevo vent’anni – a quel tempo volevo veramente spaccare tutto. Non è un caso infatti che in questo periodo abbia iniziato ad ascoltare e apprezzare compositori che prima nemmeno prendevo in considerazione, come Benjamin Britten. La grande sfida odierna sta proprio nell’essere comunicativi, riuscendo al tempo stesso a superare certe necessità che appartengono al passato.
Intervista a cura di Michele Sarti e Valerio Sebastiani