Quattro chiacchiere con il “nuovo” Quartetto Klimt
di Matteo Camogliano - 9 Maggio 2022
In una dolce serata di aprile abbiamo fatto quattro chiacchiere con il Quartetto Klimt, sodalizio nato ventisette anni or sono, lungo i quali l’ensemble si è affermato e ha ricevuto ampi consensi di critica e pubblico in Italia e all’estero. Dopo tanto cammino la compagine ha tuttavia deciso di rinnovarsi, sostituendo la violoncellista Alice Gabbiani con il collega Jacopo Di Tonno, che completa così la formazione composta da Matteo Fossi, pianoforte, Duccio Ceccanti, violino, Edoardo Rosadini, viola. Il quartetto si è dato una veste nuova anche online, con un accattivante sito web e un logo appositamente creato.
La domanda che sorge spontanea per rompere il ghiaccio è dunque: cosa spinge un gruppo così ben consolidato a voler cambiare dopo tanti anni e qual è lo stimolo per migliorarsi ancora?
Edoardo: Nella vita da musicisti è naturale condividere molto insieme, ma è altrettanto naturale che alcune strade possano divergere, altre convergere e prendere nuove direzioni. Inoltre per non invecchiare, in senso sia letterale che figurato, è sicuramente sana nonché necessaria abitudine quella di doversi rinnovare ogni tanto. Tutti e quattro siamo legati dall’amore per la musica da camera, che ci fa vivere delle emozioni incredibili, da cui la volontà di continuare il nostro già lungo percorso. Nel momento in cui si trattava di scegliere con chi proseguire la scelta di Jacopo è stata piuttosto naturale poiché tutti quanti abbiamo condiviso con lui numerosi momenti della nostra esperienza artistica. Il suo ingresso rappresenta davvero un nuovo inizio e ciò ci spinge come dicevi tu ad avere grande motivazione per continuare a migliorarci.
Jacopo: Anche per me questa nuova esperienza è estremamente stimolante, inoltre come diceva Edoardo avevo già la fortuna di conoscere tutti i miei compagni, tant’è che alla chiamata di Matteo Fossi che mi chiedeva se volessi far parte di questa nuova avventura credo di non averci messo più di cinque secondi a dare la mia disponibilità.
Avete un repertorio che vi è più caro o congeniale? Quale ritenete possa essere il vostro tratto caratterizzante come ensemble?
Matteo: Il bello del fare musica da camera è proprio lavorare insieme e poter fare un percorso di crescita e arricchimento collettivo. Per quanto riguarda il nostro gruppo, penso che da sempre e ancora oggi ciò che lo caratterizzi sia innanzitutto questo amore per la musica da camera e per un approccio al lavoro d’ensemble di tipo quartettistico. Mi spiego, negli ultimi anni mi pare di aver assistito all’interno del mondo della musica a un cambiamento: oggi spesso i gruppi nascenti, formati da giovani, hanno un modus operandi che vede un numero di prove o di ore di lavoro collettivo molto inferiore a quanto si faceva un tempo. Sia chiaro, con ciò non si vuole togliere alcun valore ai numerosi e validissimi gruppi in questione, davvero promettenti se non già affermati. E tuttavia il nostro è ancora un ensemble a cui piace lavorare alla vecchia maniera, alla stregua del quartetto d’archi, il che implica un gran numero di prove e la ricerca quasi all’estremo della cura del dettaglio. Per quanto riguarda il repertorio è chiaro che quello per quartetto con pianoforte non sia ampio quanto quello per quartetto d’archi o per il trio con pianoforte. Tuttavia proprio l’essere meno nutrito fa sì che sia allo stesso modo prezioso e straordinario.
Duccio: Esattamente. Per quanto riguarda il repertorio accanto ai grandi classici da Brahms a Schumann si possono riscoprire anche opere del passato meno note, tra autori meno celebri, fino alla musica moderna e contemporanea, cui il nostro quartetto negli anni ha dato ampio spazio. Spesso anzi la carta vincente quando si stabilisce il programma di un concerto può essere giustapporre opere anche molto distanti nel tempo ma legate tra loro da un fil rouge più o meno evidente, ma quasi sempre efficace, quindi con ampi margini di scelta e sperimentazione.
Il mio omonimo parlava di un cambiamento nelle generazioni di musicisti, quale cambiamento avete potuto osservare invece nel pubblico nel corso degli anni? Quanto è importante capirne i gusti e quanto osare, anche riguardo la musica contemporanea?
Jacopo: Io penso che la musica sia molto simile al cinema, che è l’esempio più lampante, ci sono differenti tipi di pubblico che si appassionano a differenti generi musicali, così come uno spettatore predilige film western oppure film horror. Allo stesso modo ci si può emozionare ascoltando Brahms tanto quanto ascoltando Fabio Vacchi, a seconda della sensibilità di ciascuno, perché la musica è un linguaggio universale che ha diverse forme ed espressioni. Nella mia esperienza fortunatamente ho riscontrato molto entusiasmo anche in concerti in cui abbiamo eseguito prettamente musica contemporanea. Ovviamente, come è normale che sia, ci sono determinati luoghi e situazioni in cui si crea un particolare gusto condiviso, e dunque si sa che in quel determinato contesto il pubblico si aspetta o meglio è maggiormente gratificato da un certo genere musicale. Del resto il gusto nasce sempre dalla passione, e finché la musica vive di passione non può che uscirne vincitrice.
Matteo: Una carta vincente da tenere in considerazione in questo frangente è sicuramente quella dei “fili rossi”, come diceva poco fa Duccio. Un errore dei decenni scorsi nel nostro paese è stato a mio avviso quello di “ghettizzare” la musica contemporanea, ad esempio con numerosi festival monotematici dedicati ad essa, assolutamente importanti a livello sociologico e storico, ma con il risultato di creare un pubblico in un certo senso elitario. Invece far capire e dunque sentire quali sono i legami che quasi sempre legano gli autori contemporanei ai classici può essere un modo per avvicinare a questa musica anche chi non la conosce. Del resto bisogna fare molta attenzione oggi quando si parla di pubblico, a volte mi viene quasi da ridere. Le stagioni musicali hanno un’età media degli abbonati che è ormai molto alta, dove sono i figli e i nipoti dei signori e delle signore che riempiono le sale da cinquant’anni? Nel conservatorio dove insegno mi capita di dover spesso insistere con gli studenti perché vengano a sentire i concerti, cosa che mi infastidisce dover fare, ma del resto è quanto già accadeva a parti invertite ai miei tempi con il maestro Farulli, il quale voleva che per noi studenti andare a sentire i concerti non fosse una scelta, ma una sorta di imperativo categorico. Ad ogni modo è importante avvicinare e spingere i giovani all’ascolto dal vivo, perché l’esperienza dell’ascolto è fondamentale per la crescita musicale.
Duccio: Concordo, sicuramente i giovani vanno stimolati e incoraggiati all’ascolto dal vivo, nonché incuriositi verso la musica contemporanea. Al Maggio Musicale Fiorentino ricordo un concerto interamente dedicato a Steve Reich da cui più di duecento ragazzi e ragazze uscirono entusiasti come da un concerto di musica leggera. Credo dunque sia una strada che valga la pena di perseguire, come dicevo già in precedenza senza dimenticarsi del passato ma aprendosi al futuro.
Gli ultimi due anni sono stati sicuramente particolari e stranianti per chiunque lavori con un pubblico, ma cosa ci hanno lasciato di buono ed utile per il futuro?
Jacopo: Di positivo c’è sicuramente che le istituzioni musicali italiane hanno dovuto accelerare il passo in campo tecnologico per avvicinarsi allo standard di altre realtà estere che in questo senso sono già all’avanguardia da tempo. Se penso a concerti di musica classica con un alto standard qualitativo sulle varie piattaforme multimediali e di streaming televisivo mi vengono in mente quasi esclusivamente esempi esteri. Il problema in tal senso è legato alla mancanza di mezzi di registrazione e di sale da concerto adatti a questo scopo, ma anche all’interesse generale da parte dei media e del sistema culturale. Nel nostro invece, per quanto riguarda gli studenti, in questi due anni sicuramente l’essere costretti nella propria cameretta ha implicato un approccio allo studio differente e per certi aspetti vantaggioso: la necessità di registrarsi ad esempio ha permesso di imparare ad ascoltarsi. Ovviamente però per chi come noi vive e suona quasi esclusivamente per il piacere di un pubblico sono stati due anni molto difficili, l’assenza di questa entità fisica e di questo scambio di emozioni è stata la morte nel cuore.
Duccio: Concordo assolutamente, l’assenza del pubblico è stata alla lunga una condizione svilente, differente da quella che si ha quando per esempio ci si reca in uno studio di registrazione.
Matteo: Sicuramente ad esempio la doppia modalità di fruizione dei concerti dal vivo e in streaming è una buona eredità. Del resto, come già accennava Jacopo, all’estero sono avanti anni luce su questi aspetti da parecchio tempo, si pensi ai Berliner Philharmoniker, che sono stati la prima grande orchestra ad aprire un proprio canale autonomo di streaming. Speriamo che anche in Italia si seguano questi esempi virtuosi e si incentivino quelle proposte già interessanti come per esempio il palinsesto di Rai5. Tuttavia sull’eredità di questa pandemia non mi sento ancora in grado di esprimere un giudizio, ai posteri l’ardua sentenza.
Arriva adesso la domanda scomoda e spinosa ma inevitabile vista la triste attualità dei fatti in Ucraina, con le conseguenti polemiche che si sono abbattute anche sul mondo della musica (si pensi al caso Gergiev di cui si è tanto parlato). Quale ruolo sociale pensate rivesta la musica e la figura del musicista o artista? È davvero possibile scindere l’atto artistico da quello politico?
Edoardo: Domanda effettivamente di non semplice risoluzione. Inizierei col dire che noi quattro membri del gruppo siamo anche accomunati dall’essere tutti insegnanti, dunque abbiamo la fortuna di lavorare con i giovani e giovanissimi. Ognuno di noi in questo senso nell’insegnare fa effettivamente della politica, intesa nel senso alto, greco, del termine. La formazione è infatti la prima forma di politica, il plasmare le coscienze, gli uomini e le donne del domani. Tutte le culture del mondo devono servire ad unire i popoli, avvicinare gli uni agli altri, il messaggio che deve passare nell’insegnamento è quindi innanzitutto questo. Il musicista a maggior ragione è investito di questa missione proprio perché la musica è un linguaggio universale. Il mio maestro diceva che la musica è l’unica arte che sulla carta è morta, composta solo da puntini apparentemente insignificanti, ma che cela un messaggio universale. Il rischio oggi, come nel caso dell’esempio da te citato, è quello di rendere la toppa peggiore del buco, ad esempio censurando ottusamente una determinata cultura che risulta al momento scomoda. Questo non va fatto perché va contro i principi stessi della cultura e della musica, che deve appunto unire e mai dividere. Lavorando con i ragazzi ci si rende conto di quanto sia importante e al contempo difficile cercare di trasmettere questo messaggio, non solo con le parole ma nei fatti e anche attraverso l’ascolto e l’esecuzione di un brano. Sicuramente in momenti come questo c’è il bisogno di osare e di volare alto, anche in termini di contenuti.
Matteo: Se posso dare anche io una piccola testimonianza, ho qui con me sulla scrivania un fogliettino scritto da una mia allieva, la più piccola della mia classe. Il giorno successivo allo scoppio della guerra arrivata a fare lezione era visibilmente sconvolta, mi disse «Maestro come facciamo a fare lezione? È scoppiata la guerra» Allora ho provato a suggerirle questo piccolo esperimento, cioè di trovare e scrivere le differenze tra la musica e la guerra, per vedere come siano l’una l’opposto dell’altra. Questo è quanto ha prodotto praticamente da sola in meno di cinque minuti, sfruttando il mio semplice suggerimento: «Musica è respiro, guerra è affanno; musica è libertà, guerra è schiavitù; musica è ascolto, guerra è sopraffazione; musica è unione, guerra è divisione; musica è dolcezza, guerra è violenza; musica è eleganza, guerra è volgarità; musica è vita, guerra è morte.» Ecco, penso che sia sufficiente lasciar parlare i bambini. Mai come adesso c’è bisogno di musica. Come ha già detto Edoardo, ciò che si sta verificando in alcuni casi nei confronti dei musicisti e della cultura russa è il contrario del messaggio di pace che dovrebbe passare, la musica deve unire e deve essere essa per prima esempio di politica nel senso più alto del termine.
Duccio: D’altronde la musica è per definizione dialogo tra voci, ricerca di un’armonia, ancor di più la musica da camera. Può sembrare scontato ma è importante evidenziare come nel fare musica si utilizzi un linguaggio universale che trascende i confini e le barriere di qualsiasi genere, anche linguistiche, e faccia sì che ci si possa capire tra persone di qualsiasi nazionalità.
Grazie mille per questa testimonianza, spero sia di buon auspicio per tutti noi, musicisti e non, più o meno giovani, affinché la musica sia davvero strumento di pace e veicolo di un rinascimento culturale, forse utopico ma non impossibile per le generazioni a venire.
Jacopo: Su questo mi unisco e vorrei aggiungere un incoraggiamento a voi giovani e giovanissimi. Siete sicuramente stati catapultati in un’epoca per molti aspetti più complicata di quella in cui eravamo giovani noi, ma molti di voi hanno già un bagaglio culturale e una maturità come uomini e donne (e musicisti) davvero invidiabile. Per cui il mio invito è: datevi da fare, fatevi sentire e non abbiate paura di fare cose che vi sembrano “da grandi” o troppo grandi per voi, perché avete i mezzi per realizzarle. Coraggio!
Un’ultima curiosità, come è nata la scelta del nome, ventisette anni fa?
Matteo: Beh ai tempi non era ancora di moda scegliere il nome di un artista per un ensemble cameristico, poi in molti ci hanno copiato [ride]. Non sono mancate per altro le storpiature, essendo gli anni del presidente americano Clinton. Battute a parte Klimt è stato uno dei più grandi pittori di tutti i tempi e sicuramente tra Ottocento e Novecento è stato uno dei più legati anche al mondo musicale viennese che amava e frequentava. Si pensi al suo ritratto di Mahler, alla rappresentazione del cosiddetto Fregio di Beethoven eccetera, insomma la sua arte è intimamente pervasa e legata alla musica per ragioni estetiche e biografiche. È stato il poeta dei colori e quindi questo rimanda anche ai colori musicali, che cerchiamo a modo nostro di imitare.
Dovete sapere, essendo i quattro musicisti anche appassionati tifosi di calcio, che in chiusura alla nostra chiacchierata hanno svelato un divertente retroscena che vede schierati i tre membri storici del gruppo contro il nuovo entrato, in merito a una partita che si doveva disputare in quei giorni. L’inserimento a titolo definitivo del violoncellista nell’ensemble doveva dipendere proprio dall’esito di questo scontro fondamentale. Ora, non sappiamo come sia andata a finire, ma ci auguriamo che i rapporti non si siano rovinati, perché sì (spoiler), ha avuto la meglio la squadra del m. Di Tonno. Se volete recuperarvi il siparietto e capire di che squadre si parla, andate a vedere sul sito del Quartetto il video riassunto della nostra intervista!