Ultimo aggiornamento15 ottobre 2024, alle 10:50

Matteo D’Amico sotto il segno di W.H. Auden

di Valerio Sebastiani - 13 Luglio 2020

Un concerto monografico per il festival Elettricità

Martedì 14 luglio dopo tre mesi di attesa ripartirà la stagione 2020 “Elettricità” dell’ensemble Sentieri Selvaggi. Ripartirà “open air”, con un concerto gratuito nel Giardino della Triennale a Milano, tutto dedicato al lavoro del compositore Matteo D’Amico, autore molto frequentato nelle programmazioni dell’ensemble guidata da Carlo Boccadoro. La musica di D’Amico non ha remore nel nutrirsi di suggestioni letterarie. Lo fa con estrema spontaneità e consapevolezza, senza tralasciare il rigore formale e il controllo del materiale. Questa dicotomia – emotività e razionalità – pervade moltissimi suoi lavori, anche quando non sono costruiti direttamente su un testo letterario. È il caso del “Trio pour un ange”, composto nel 2015. Con “Auden Cabaret” si manifesta il grande interesse di D’Amico per la poetica di W.H. Auden, essendo questa una composizione che si pone in un punto d’intersezione tra vari lavori tutti incentrati sul poema The Entertainment of the Senses, scritto nel 1973. Dall’omonima composizione del 2005 sono nate varie versioni, farcite con interpolazioni, modificate nell’organico: un cantiere aperto, che dimostra l’altro grado di riflessione sulla realizzazione in musica della “filosofia” (come la definirà D’Amico stesso) di Auden.

 L’occasione di questo concerto ci permette di parlare, maestro D’Amico, di alcuni suoi lavori che non ho problemi a definire “paradigmatici” del suo catalogo e che rappresentano un po’ l’alfa e l’omega delle sue riflessioni musicali. Iniziamo con il Trio pour un ange, raccontandoci come nasce questa composizione cameristica dal sapore “classicheggiante”.
Il Trio pour un ange è un brano cameristico per violino violoncello e pianoforte, scritto nel 2015 per la Biennale Musica di Venezia per un Trio Cecoslovacco, il Trio Josef Suk. È un pezzo che si inserisce in un periodo, quello tra il 2013-14 durato fino a un paio d’anni fa, durante il quale ho elaborato una serie di lavori cameristici, per organici classici come il Trio, il Quartetto per pianoforte, il Quartetto per archi. Lavori che si inseriscono in una prospettiva di discorsività musicale, basata sulla dialettica delle figure, sui contrasti, pur inquadrata nella ricerca di una logica interna della musica assoluta. Una problematica, questa, che avevo trascurato durante un periodo inquadrabile tra il 1995 e il 2015, durante il quale ho sempre scritto lavori che riguardavano la voce, i testi letterari, il teatro, la lirica.

Le andrebbe di spiegare alcuni tratti salienti di questo lavoro?
Andando più nello specifico del funzionamento interno del Trio, posso dire che si tratta di una composizione articolata in un tempo unico, sia per ragioni formali che, per così dire, discorsive. Infatti, all’interno di un’unica arcata, ho voluto inserire delle figurazioni mobili, fluttuanti. L’arco formale si distingue, inoltre, grazie a dei lenti movimenti fra i registri: dopo una breve introduzione c’è una parte in cui la figura principale è di tipo molto dinamico, un continuum ritmico che viene affidato al violoncello, accompagnato dal pianoforte nel registro grave. Tutta la prima sezione si muove su questo livello di profondità; mano a mano il continuum sale di registro, passando attraverso gli strumenti, raggiungendo l’apice della climax sulle regioni più acute del violino. Questa direzionalità, come ho detto, coinvolge registri e altezze, ma offre al tempo stesso un senso di rigore formale. Dopo questo punto apicale, il movimento ascendente si interrompe per lasciare spazio ad una sezione più meditativa, dove il corso figurale si fa più frammentato, meno continuo, più interrogativo, diviso tra i tre strumenti che dialogano fra loro. Piano piano poi si arriva di nuovo a una dinamizzazione. Cosa comprendiamo attraverso questa descrizione? Che, in sostanza, il pezzo ha una sua evoluzione narrativa, concretizzata attraverso questa alternanza dinamicità-riflessione…

…quindi, alla fin fine, anche in un pezzo determinato da certe logiche puramente musicali, trova comunque difficile “emanciparsi” da un andamento, per così dire, “drammaturgico”.
È verissimo. D’altra parte anche quando ho scritto le Scènes d’Hérodiade (un quartetto d’archi composto per la IUC un anno e mezzo fa), ho comunque affrontato delle tematiche che potevano essere pertinenti alla musica per il teatro o per la lirica e le ho trasportate in un contesto di musica assoluta, divertendomi a scoprire che legami potessero intercorrere con una materia come quella della musica strumentale. Noi sappiamo che tutta la grande tradizione della musica europea ha, nel corso dei secoli, sviluppato delle forme sempre più capaci di “raccontare”.

Senza dilungarmi in un excursus troppo dispersivo, con questo voglio dire che l’evoluzione delle forme strumentali secentesche ha portato a guadagnare nella realizzazione in musica degli archi formali sempre più ampi, che hanno portato alla creazione della forma-sonata, forse la scoperta più rivoluzionaria per la musica strumentale, ma che è stata capace di racchiudere in sé il maggior numero possibile di situazioni contrastanti e in dialogo fra loro, proprio come in una narrazione letteraria. Questo ha permesso di sviluppare lungo i 150 anni che sono arrivati fino all’inizio del 900, una letteratura strumentale quantomai ricca di capacità narrativa, se vogliamo usare una parola generica, che potrebbe anche essere discutibile, ma che racchiude in sé una volontà dei compositori spesso rimasta implicita. E quando Brahms inizia a raccontarci la sua interiorità attraverso un Trio, una Sonata, un Quartetto, in qualche modo si concretizza una narrazione interiore, psicologica, che poi si sublima in una forma musicale dotata di una sua validità architettonica. Oggi che siamo definitivamente usciti dai dogmi dello Strutturalismo e da quella fuga spregiudicata dalla discorsività, molti compositori si stanno ponendo il problema del recupero di una prospettiva narrativa e di racconto attraverso la musica.

Lei ha portato l’esempio di Brahms (il cui Quartetto in Sol minore n.1 op. 25 è stato tra l’altro inserito nel programma eseguito dal Josef Suk Piano Quartet in cui compare il suo Trio). Sente un’ascendenza particolare con questo compositore, rispetto ad altri?
Non saprei, forse ad un livello più profondo, del quale non sono completamente consapevole. Io mi sono formato su questa letteratura e continuamente me ne cibo, perché mi piace frequentarla, anche in Conservatorio con i miei allievi. Al di là delle sintonie che posso percepire nei confronti di alcuni compositori del passato, voglio che sia chiara una cosa: la pulsione che mi spinge a comporre, deriva tutto da una volontà di costruire dei percorsi emotivi, in perfetto equilibrio con quelli intellettuali. Io sono per una musica che sia capace di differenze, che sappia essere movimentata, sciolta, spregiudicata, in quello che comunica.

Passiamo alla seconda parte del programma, la qual ci permette di parlare di un poeta, W. H. Auden che nel suo catalogo delle opere è in una posizione piuttosto importante (accanto a poeti come Stephane Mallarmé e anche Pier Paolo Pasolini). Lo vediamo impiegato in tre composizioni, in particolare: The Entertainment of the senses (2005), Auden Cabaret (scritto nel 2007 e poi appositamente rielaborato per l’ensemble Sentieri Selvaggi nel 2020), e The nature in the grave (2015). Prima di parlare nello specifico di queste composizioni (che in qualche modo sono tutte legate a uno stesso nodo, non solo autoriale, ma anche poetico) le andrebbe di raccontare del suo rapporto personale con la poesia di Auden?
Devo esser sincero, pur non potendo sfoggiare una conoscenza così approfondita della sua opera poetica, ho sempre percepito per Auden una particolare ascendenza. Ho spesso avuto sotto mano i suoi versi più famosi, in particolare certi componimenti del 1939, quando era già emigrato in America. Poi, ovviamente, l’ho potuto approfondire attraverso i suoi libretti per Stravinskij e per Henze, soprattutto, che sono degli autentici capolavori non solo di poesia, ma di costruzione drammaturgica. Ma anche, se vogliamo, di filosofia: Auden in fondo era una persona con una grande visione d’insieme, che investiva soprattutto l’evoluzione (o involuzione?) della società occidentale. In lui è possibile cogliere il senso della Storia, della presenza dell’uomo sulla Terra e del modo attraverso cui questa presenza si è sviluppata, attraverso uno sguardo disincantato, certamente morale (e non moralistico!) e a tratti cinico. L’elemento più affascinante per me è stato proprio questo. È un poeta che guarda principalmente alla storia della società umana, e non vive solo di un’espressione lirica autocentrata; ha sempre amato l’essere umano a tutto tondo, per come si è manifestato nella storia, nella politica, ma anche nella vita di tutti i giorni. 
Infondo anche il testo che io ho musicato ha una forte valenza sociale, incarnata da una critica morale dei costumi. Auden, in effetti, è sempre stato un poeta morale, il quale concepiva il dramma non direttamente in funzione dell’analisi dei personaggi, quindi del particolare, ma della individuazione di tematiche generali, che potessero avere un largo respiro.

In effetti il testo che ha musicato per Auden Cabaret riguarda proprio un’analisi cinicamente ironica dell’affannata rincorsa dell’uomo ai “feticci del Progresso” e infatti i personaggi del componimento (i cinque diversi sensi dell’essere umano) si susseguono a dire la propria visione sul mondo.
Esattamente, si tratta di The Entertainment of the Senses, un poemetto nato in collaborazione con Chester Kalmann nel 1973 (il testo è stato pubblicato postumo nel 1974 nella raccolta Thank You, Fog, disponibile nell’edizione Adelphi come Grazie, nebbia, ndr), concepito come interpolazione alla masque barocca secentesca intitolata Cupid and Death di James Shirley. Sono propri i cinque sensi dell’essere umano, come ha giustamente ricordato Lei, ad alternarsi e fornire la visione del mondo di Auden, caratterizzato da un amaro moralismo, realizzato dal poeta in versi molto taglienti.

C’è da fare una precisazione per quanto riguarda i miei rapporti con Auden: le composizioni che lei ha citato rappresentano, in sostanza, un girare intorno a un unico pezzo. Auden Cabaret (che ho composto nel 2007 e che ora ripresento in una nuova versione per Sentieri Selvaggi) è, infatti, l’estensione di Entertainment of the Senses, che è stata il mio primo lavoro “audeniano”, scritto nel 2005 per Luisa Castellani, il Quintetto Bibiena e il pianista Roberto Cominati. Una volta terminato il lavoro su questo poemetto, che fu eseguito nel 2006 a Roma e a Bologna, decisi di operare degli interventi strutturali e di organico, per indagare nuove soluzioni espressive. Trovai infatti altre poesie nell’opera di Auden molto attinenti al tema dell’Entertainment, che decisi di integrare nella mia composizione. In particolare, una affronta il tema di una supposta età dell’oro dell’umanità (il componimento si intitola, per l’appunto, L’età dell’oro, ndr.), che Auden in un certo qual modo rimpiange (inserisce infatti alla fine del componimento la figura di Don Chisciotte, visto come l’ultimo baluardo contro la corruzione  che deve combattere la corruzione imperante) e infine Il recitativo della Morte, in cui la Vecchia Signora compare come protagonista assoluta (Io, la Morte, ancora sono e sarò sempre cosmocrate. Attraverso l’inserimento di questi componimenti ho cercato di concepire un tutto organico e, in effetti, mi è sempre piaciuto pensare che questa composizione potesse avere uno sbocco come uno spettacolo di teatro musicale, oppure come uno spettacolo tendente allo spirito del Cabaret. La somma delle cinque poesie dell’Entertainment, più le i due componimenti interpolati, va a formare questo Auden Cabaret, caratterizzato nel complesso da un tono cinico e leggero, rutilante e spigliato. La formula “teatro di parola cabarettistico” è forse la più funzionale per definire questo lavoro.

Dopodiché, quando l’ensemble Sentieri Selvaggi mi chiese un pezzo per loro, ho deciso di trasferire i materiali di Auden Cabaret in una vera e propria suite strumentale, divertendomi a saltabeccare tra un motivo e l’altro del pezzo preesistente e unendoli come si fa, classicamente, con le Suite. È venuto fuori un pezzo divertente, molto piacevole a mio avviso, che l’ensemble porta in giro da parecchio tempo (l’ultima esecuzione è avvenuta novembre 2019 presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, ndr). Fu allora che decisi di creare una nuova versione di Auden Cabaret per permettere al pezzo di continuare a vivere in nuove forme, anche per poter continuare a collaborare con questo gruppo di musicisti veramente straordinario.

Questa revisione del 2020, quindi, non va a intaccare il significato drammaturgico del pezzo precedente: è semplicemente una nuova veste tutta re-immaginata per l’ensemble di Carlo Boccadoro…
La musica è assolutamente quella dell’Auden Cabaret del 2007. L’unica differenza sta nella disposizione dei pezzi musicali, che nella versione precedente era forse un po’ ingenua. Avevo, in sostanza, sbagliato l’inserimento del Recitativo della Morte, il quale, piazzato in conclusione non creava il giusto equilibrio. Per questa occasione milanese, invece, abbiamo congegnato una sequenza di pezzi più appropriata, dove The Golden Age si trova all’inizio, essendo un componimento che affronta, in un certo qual modo, una condizione originaria, prima delle civilizzazione corrotta dell’uomo; poi seguono i pezzi dell’Entertainment of the Senses, ma dopo il terzo senso, l’Olfatto, compare il Recitative by Death che si va a collegare con l’udito e sta molto meglio collocato al centro. Perché Entertainment of the senses ha un suo fantastico finale con la morale e tutto quanto e non si poteva assolutamente mettere qualcosa dopo questo finale, è stato uno sbaglio clamoroso! Me ne sono accorto e ho provveduto a rimescolare bene le carte e credo che il senso complessivo del messaggio di Auden si colga meglio così. Dopo il senso della Vista torna in scena il cosiddetto “The Chamberlain”, il Ciambellano, oppure il Maestro di Cerimonie, che enuncia la morale e Auden prevede come didascalia che dietro al Ciambellano che fa la morale di tutto e tira le conclusioni, compaia ben in vista la figura della morte. È evidente come tutta questa struttura abbia un carattere noir, tutto immaginato da Auden, che riesce a essere al tempo stesso umano, sferzante, pessimista. Però tutto questo è realizzato in punta di forchetta, in maniera brillante, con molte rime, giochi verbali, divertimenti.
Io credo nella mia musica di aver rispettato sostanzialmente il carattere spumeggiante di questo testo. Poi, naturalmente, in mezzo a questo carattere è pieno di bordate di dissonanze, di cadute, di contraddizioni, perché il messaggio che ci consegna Auden è in realtà molto pessimista.

A questo punto le farei una domanda un po’ provocatoria, visto il suo grande interesse per l’intonazione di testi letterari. Guardando anche alle sue precedenti esperienze, durante il processo creativo di una composizione basata su un testo poetico, verso a cosa tende? Il testo è per lei solo un pretesto, uno stimolo esterno per far nascere un discorso musicale “altro”, oppure la sua musica è legata strettamente alle suggestioni fornite dal significato poetico-letterario?
Colgo la provocazione e le rispondo a tono, ribaltando un po’ di termini della questione. Non è assolutamente un pretesto! Il testo è una cosa assolutamente portante! Naturalmente gioco, in un senso per cui valga la pena di accoppiare la musica almeno nella nostra epoca, diciamo così, moderna (al tempo dei Greci era tutto un altro paio di maniche), ma parlando della civiltà moderna fra virgolette: la fatica, il senso di applicare un’altra arte a un’arte che in sé potrebbe essere considerata già perfetta, che è quella della poesia, oppure un’arte meno perfetta come quella del teatro è già più aperta, è già più suscettibili di interpolazioni, di mescolanze, quindi già è un discorso un po’ diverso. Ma comunque, parlando in termini generali, vale la pena di trasformare, chiamiamolo così, il testo in un’pera musicale, di testo e musica, se la musica porta un contribuito significativo, cioè se illumina in qualche modo il testo di altre cose. Se riesce a mettere quello che potremmo definire un suo lievito in questo testo, per farlo diventare non dico qualcosa di migliore perché nel caso di grandi poeti c’è veramente poco da migliorare, però veramente qualcosa di diverso di “altro” (come citava lei), un oggetto artistico diverso da quello originale. Ma si potrebbe anche dire che questa “alterità” che viene a determinarsi crea un livello ulteriore, questo deve necessariamente succedere perché una musica anche troppo didascalica od ossequiosa della poesia diventa anche un po’ inutile.

Da un altro punto di vista, può capitare che un compositore musicando un testo senza preoccuparsi dello sviluppo dell’idea poetica originale, si renda conto solo a posteriori di quelli che sono i suoi contenuti (di questo parla per esempio Arnold Schoenberg in un suo saggio intitolato proprio Il rapporto con il testo). Questo è verissimo. Forse ci si può arrivare sia percorrendo anche la strada del testo in maniera più fedele e poi riuscendo a spiccare il volo verso profondità maggiori e, appunto, testi nascosti, oppure come diceva Schoenberg ci si può arrivare anche tener conto del significato più evidente del testo arrivando direttamente a qualcosa di diverso e di nascosto. Penso che siano possibili entrambe le situazioni, ed è chiaro che nella storia della musica si siano verificate con esiti estremamente diversi. Penso per esempio a Luigi Nono, che frammentava il testo nascondendolo all’interno del tessuto sonoro. Questa tendenza sperimentale ovviamente oggi non può essere replicata: siamo a uno stadio ulteriore, dove magari (ma questo è valido per la mia esperienza), l’aderenza al testo è veramente giustificata da altre necessità espressive.Queste contaminazioni reciproche tra letteratura e musica comunque io le posso valorizzare su più livelli, non sempre mi interessa approfondire e scendere nei dettagli delle potenzialità espressive della musica, come a volte non mi interessa mettere la musica completamente in primo piano, come nei casi dei melologhi.

Intervista a cura di Valerio Sebastiani

Articoli correlati

Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

tutti gli articoli di Valerio Sebastiani