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L’opera di Fabio Luisi: uno specchio della nostra esistenza

di Gioia Bertuccini - 23 Maggio 2021

Come molti di voi già sapranno, noi di Quinte Parallele abbiamo avuto la fortuna di recarci a Parma per seguire per alcuni giorni le Masterclass del Concorso Internazionale di Direzione d’Orchestra “Arturo Toscanini”. Durante il mio soggiorno al Centro di Produzione Musicale ho avuto l’occasione di assistere non solo alle lezioni del Maestro Fabio Luisi, ma anche a un’intervista esclusiva: il Maestro genovese ha gentilmente risposto alle domande di Francesco Micheli, autore e drammaturgo che, insieme al regista e coautore Alberto Amoretti, sta girando un docufilm sul Concorso e sull’esperienza parmigiana dei suoi giovani concorrenti.

Numerose sono state le domande, con silenzi riflessivi e qualche amichevole risate e, da umile ascoltatrice, sono lieta di riportavi alcune delle risposte del Maestro Luisi che, con parole mai scontate, è riuscito a far di un’ora pochi minuti.

Qual è stato il primo momento o la prima esperienza in cui ha detto: “Sì, da grande farò il direttore d’orchestra”?

Questo momento è arrivato piuttosto tardi, sapevo bene che la musica sarebbe rimasta una costante della mia vita, ma il desiderio di farne una vera e propria professione è arrivato intorno a diciotto, diciannove anni, non prima.

È indiscutibile che c’è una dimensione di performance molto importante nel suo lavoro: il fatto di avere un’orchestra davanti che la guarda e un pubblico dietro che la osserva e, allo stesso tempo, di avere il compito di mediare la musica dagli uni agli altri, come lo vive?

Il direttore d’orchestra non deve essere un performer. Il direttore d’orchestra ha una funzione e un senso preciso nel momento dell’esecuzione che è quello del trasmettere; quindi, il mettersi davanti ai professori d’orchestra, o il solista che sta accompagnando (che sono i veri performers), oppure alla composizione che sta dirigendo sarebbe un errore fatale, un qualcosa che non gli compete e quindi qualcosa di completamente sbagliato. La sua funzione è quella di aiutare, di mediare e di tradurre secondo quelle che sono le sue direttive, le sue idee, la sua cultura e la sua sensibilità. In questo senso avviene il trasporto di quello che è scritto sulla partitura, un trasporto che passa tramite i musicisti dell’orchestra e che viene poi trasmesso al pubblico dietro di sé.

Quindi lo sguardo del pubblico su di Lei non ha nessun effetto?

No, lo sguardo del pubblico su di me non ha effetto, ma è importante! È importante perché la musica viene presentata al pubblico, e la musica non presentata al pubblico non ha ragione di essere.

E come si pone rispetto a chi dice che “la vanità e il narcisismo sono doti imprescindibile per un ottimo direttore d’orchestra”?

Non sono assolutamente d’accordo! Vanità e narcisismo non hanno nulla a che vedere con la professione del direttore d’orchestra, sono completamente fuori posto.

Come si pone con le varie orchestre che di volta in volta si trova di fronte?

Il mio lavoro di direttore d’orchestra non dipende dall’orchestra che mi trovo davanti, perché quello che ho davanti a me è l’obiettivo che voglio raggiungere. Il modo che utilizzo per arrivare all’obiettivo può magari essere diverso nei confronti di un’orchestra di studenti rispetto a un’orchestra di grandi professionisti, ma questa è una questione di comunicazione: con degli studenti dovrò probabilmente spiegare dei concetti che invece con un’orchestra di professionisti non è necessario affrontare, ma l’obiettivo resta sempre lo stesso, ossia la trasmissione di quello che è scritto in partitura e di quello che sta dietro la partitura, il substrato che non viene reso palese dal testo ma su cui bisogna lavorare ugualmente.

L’ascolto è una funzione fondamentale per un musicista e a maggior ragione per un direttore d’orchestra. Come si sviluppa l’ascolto?

L’ascolto si studia esattamente come si studia uno strumento, esercitando il nostro intelletto, la nostra tecnica, il nostro tempo di reazione. Ci si abitua e ci si sforza ad ascoltare, una cosa che ripeto sempre alle mie orchestre è quella di ascoltarsi, che per me è anche più importante del suonare attivamente. Soltanto ascoltando quello che accade intorno a sé si può far parte di uno strumento unico, che è l’orchestra. La stessa cosa vale per un direttore d’orchestra, e soprattutto nel campo dell’opera l’ascolto è assolutamente irrinunciabile: non possiamo essere direttori d’opera se non ascoltiamo i cantanti. Ascoltare significa capire, aiutare e andare insieme; senza la possibilità di ascolto siamo isolati e quindi impossibilitati a fare musica insieme.

Altra attitudine delicata è la gestione del tempo: come condivide la sua visione del tempo con le orchestre?

Il tempo ha molte valenze, ha significati molto diversi: c’è un significato tecnico, ossia: “a che tempo suoniamo questa musica, a quale velocità?” Ma ha anche un significato più profondo, che è: “come valutiamo l’importanza del tempo nell’espressione musicale?” beh, direi che è fondamentale, perché la musica si esprime soltanto in un filare del tempo, non c’è un momento isolato dal tempo in cui possiamo fare musica. Credo addirittura che la percezione del tempo vari non solo da direttore d’orchestra a direttore, ma persino all’interno della stessa persona: la percezione del tempo di un ventenne è molto diversa da quella di un sessantenne, e quindi è per questo che penso che si evolva con il trascorrere della vita.

E infatti c’è un’altra percezione del tempo: quella del proprio tempo personale. Che consigli può dare a un giovane che si ritrova a gestire il proprio tempo personale rispetto al futuro e rispetto alla sua volontà di farsi una carriera?

Un errore che fanno tutti i giovani solisti e quindi anche i giovani direttore d’orchestra, è quello di condizionare la propria attività a un tempo rapido, a una fretta, a un voler andare avanti velocemente. La carriera dipende sicuramente anche dall’esperienza umana che si ha e che si matura col tempo, e che quindi non si può avere quando si ha venti, venticinque o trent’anni. Il consiglio che do a tutti, e soprattutto ai giovani direttori di orchestra, è quello di non avere fretta; la fretta è un pessimo ingrediente per la nostra attività. Sarebbe un grave errore far condizionare la propria attività da una forma di impazienza; è fondamentale aspettare che il tempo abbia la sua influenza nella propria crescita, che è sia musicale che umana.

Ha già cominciato a conoscere i concorrenti del concorso. Se lei pensa a se stesso alla loro età o comunque nella sua fase iniziale, come si ricorda? E se quel giovane Fabio Luisi fosse qui, cosa le direbbe?

Sarei molto più severo con lui di quanto io lo sia con loro. (Ride).

Ricordo il periodo in cui ho cominciato a lavorare con le orchestre e a pensare alla mia carriera come un momento molto difficile; e devo dire che è ugualmente difficile per me oggi, in veste di insegnante, dire a questi ragazzi cosa fare. La maggior parte di cose le ho imparate con l’esperienza, e io quella non gliela posso inoculare, quella se la devono fare da soli, e devono anche fare degli errori. Mi riferisco a quegli errori fondamentali che possono essere anche la chiave che fa capire se continuare la propria attività o no. Il modo in cui posso cercare di aiutarli è sicuramente incoraggiandoli a essere sempre preparati e ad avere l’audacia di seguire e sviluppare le proprie idee.

Per lei che valore ha l’opera lirica oggi per noi e per il mondo? Perché ci è ancora necessaria?

L’opera ci è necessaria perché è uno specchio della nostra esistenza, come tutte le forme d’arte, deve essere uno specchio davanti al quale noi ci mettiamo e capiamo che quello che vediamo è il nostro riflesso: “Traviata sei tu”, “questo sono io”, è un momento storico, un momento sociale, e questo vale per qualsiasi opera. L’opera lirica è un microcosmo, in sé ha tutte le espressioni dell’esistenza umana, in due ore abbiamo una riproduzione in piccolo (neanche troppo in piccolo tutto sommato) di ciò che siamo noi, di quello che fa parte della nostra vita, che ci emoziona e ci tocca l’anima nel profondo.

Le faccio adesso una domanda con cui ho concluso tutte le interviste che ho già fatto ai giovani concorrenti del concorso: dove si vede tra dieci anni?

E lo chiede a me?! (Ride).

Onestamente spero di poter dare di più a chi ne ha bisogno. Quello che stiamo facendo qui con questi giovani è di un’importanza fondamentale. Devo dire che sono molto felice di farlo ma anche molto fiero, ciò dà alla mia attività un plusvalore importantissimo. La valenza è quello che lasci agli altri quando non ci sarai più. Tra dieci anni spero di poter dare a questi giovani un aiuto più concreto, un miglior consiglio, un maggior sostegno. E sarà la mia eredità, molto più di quanto sia la produzione di un’opera in un teatro o un concerto. Ciò che rimane non sarà quello. Io vorrei che tra cinquant’anni, quando ormai non ci sarò, questi ragazzi si ricorderanno delle mie lezioni pensando “queste giornate mi hanno aiutato e mi hanno dato un imput importante per la mia vita artistica”.

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