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Intervista a Aldo Brizzi

di Valerio Sebastiani - 26 Novembre 2019

musica libera e realismo magico

Aldo Brizzi, compositore originario di Alessandria, studia a Milano composizione e direzione d’orchestra, perfezionandosi (tra gli altri) con Leonard Bernstein e Sergiu Celibidache, ha impostato la sua ricerca compositiva verso uno studio peculiare sulla materia sonora, coniugandolo con una grande capacità di orientare il suo linguaggio verso le lontane aree della musica popolare, metabolizzandone i materiali nell’ottica di un incontro etico e sinergico tra culture. Eclettismo, certo, ma estremamente democratico. E libero. In questo senso, due esperienze sono state di fondamentale importanza per lui: l’incontro con Giacinto Scelsi, negli anni 80, la cui frequentazione ha permesso a Brizzi di cambiare alcuni aspetti della sua attitudine compositiva; il trasferimento a Salvador de Bahia e lo studio della musica popolare brasiliana, divenuto una marca idiomatica nel linguaggio del compositore. In questa intervista, intrattenuta in occasione di un suo concerto all’interno della cornice del 56° festival di Nuova Consonanza, sono state toccate molte sponde della conoscenza musicale di Brizzi, parlando inoltre di importanti progetti futuri.

IL CONCERTO A NUOVA CONSONANZA

Maestro Brizzi, dal momento che questa intervista si tiene in occasione del suo concerto del 5 dicembre al 56° festival di Nuova Consonanza “Musica e/è pensiero”, mi piacerebbe partire proprio dalle composizioni che saranno eseguite. Nel suo ciclo di Lieder per voce, sintetizzatori e immagini, Wieder (di nuovo, ancora in tedesco), viene messa brutalmente in primo piano la condizione degli emarginati, degli spossessati di Salvador de Bahia. Le fotografie scattate da Hirosuke Kitamura, che fungeranno durante il concerto da contrappunto visivo, sono caratterizzate da un crudo espressionismo: riescono a essere al tempo stesso ossessive e melanconiche, brutali e dolcissime. Il titolo Wieder sembra essere allora un triste presagio: l’impossibilità di emancipazione, un essere incastonati all’interno di un eterno ritorno. Come si relaziona la musica a tutto ciò?

Io avevo pensato a un ciclo di Lieder su un tema, una specie di Adagio per elettronica che si ripete ciclicamente con minime variazioni dal punto di vista melodico e armonico, ma con una lunga sequenza di varianti progressive sul timbro, che genera progressivamente tutta un’altra serie di situazioni musicali che vanno molto lontane da questa specie di eterno ritorno della stessa melodia. Il ciclo completo dura più di un’ora e mezza, mentre invece appositamente per Nuova Consonanza ho fatto una selezione del secondo e del terzo Lied con breve introduzione, un solo ponte strumentale completo tra il secondo e il terzo lied e poi un finale. Quindi ha un senso assolutamente completo tutto ciò, tuttavia è da concepire come una specie di work in progress. Su questo materiale circolare, sempre uguale, ma molto diverso in conclusione, ho cercato di offrire il medesimo senso al testo.

Ovvero?

Ovvero che tutta la musica è accompagnata dalla linea melodica della cantante, impostata come un contrappunto alla melodia strumentale che definirei ossessiva, ma che al tempo stesso non ha niente a che fare con questa: inizialmente ne è una specie di arricchimento armonico, poi si trasforma nella vera e propria melodia, facendo diventare l’altra principale un po’ secondaria – come certe cose della vita (ride). Ed è tutto strutturato su questa cellula semantica wieder, che ha centinaia di possibilità significanti. Agganciando questa sorta di prefisso wieder- alle altre parole tematiche del libretto, quasi come fosse un mantra, si ripete la stessa parola, producendo ogni volta una diversa significazione, e si arriva a un’ipnosi al quadrato, sia musicale sia testuale. Quattro anni fa, mentre stavo imbastendo le prime parti della composizione, pensavo di usare questa musica per un balletto, un balletto che fosse completamente autonomo (e in effetti era impostato su ritmica molto lenta, quasi da Adagio mahleriano infinito). Il balletto è stato poi eliminato, con l’intenzione di utilizzarlo per un altro progetto, ma poi ho conosciuto questo grandissimo artista giapponese, inviato dalla Sony Village quindici anni fa per documentare tutto ciò che di interessante avveniva in Brasile e in Latino America. In Brasile però alla fine ci è rimasto! Ha, in effetti, questa poetica un po’ da moderno Mishima, ma nella sua capacità di assembleare l’orrore e la dolcezza, lo stupore e la bellezza, la crudeltà e l’incanto in una sola cosa è il giapponese più brasiliano che io conosca! Per Wieder ha montato foto e video, i quali vengono sovrapposti su diversi livelli: alla musica, nella proiezione video del ciclorama e sul vestito della cantante, un vestito di seta bianca di cinque metri quadri che quando sarà tenuto su dai due altri cantanti che saranno impiegati come comparse, diventerà un secondo schermo, in contrappunto al primo.

Kitamura fotografava questi spaccati dei bassifondi brasiliani per poi andare in altre zone-limite per allestire delle mostre temporanee, che poi fotografava nuovamente. Sembra avere una forte valenza di critica sociale, estetizzata chiaramente, o sbaglio?

Esattamente, ma c’è da aggiungere una cosa: i luoghi e le persone che hanno fornito il soggetto a Kitamura per queste fotografie, non esistono più! I luoghi sono stati distrutti da ruspe e molte di queste persone, anche giovanissime, sono morte. Ciononostante il disagio sociale in certe zone di Bahia è ancora altissimo. Allora il significato di questo “ancora”, assume un senso ancora più tremendo…

…la concezione di questo ciclo di Lieder, “mutatis mutandis”, mi sembra molto wagneriana. Non soltanto per la tensione a voler creare un’opera d’arte “totale”, ma anche per una questione legata al libretto: questo prefisso “wieder” viene utilizzato e sviluppato semanticamente nel cantato…

Precisamente, combinato continuamente con altre parole…

…in modo da elasticizzare, ampliare e rendere più complesse le implicazioni semantiche del testo poetico. Mi ricorda, non voglio dire però che sia identico, al procedimento di assonanze che Wagner accompagna al nome di “Tristan”. Ovvero tutta quella serie di parole assonanti, che concorrono a definire l’identità psicologica del protagonista del dramma e che creano un campo semantico in continuo sviluppo: “Trug” (inganno), “Treu” (fedele), “Traum” (sogno), “Trank” (filtro d’amore), “Troszt” (consolazione)… Quanto c’è di Wagner nella sua poetica e nel suo linguaggio?

Ha colto un punto fondamentale della mia identità di compositore, direi quasi imprescindibile, e che ovviamente in Wieder si lega all’idea del mantra e della ripetizione continua, ossessiva del testo poetico, in cui per l’appunto appare questa assonanza semantica. Wagner, in generale, è il mio punto di riferimento costante e segreto. Nel senso che quasi tutta la mia musica la penso come wagneriana, nel senso più intimo della parola ma assolutamente non post-wagneriana. (Tra l’altro ultimamente sto tentando di scrivere un’opera su un progetto incompiuto di Wagner, Die Sieger, sulla storia di Buddha. Un atto è già pronto, il resto deve ancora venire…) Comunque il mio senso wagneriano nel condurre l’idea di una possibile creatività compositiva oggi, viene da una radice che è la più indiana possibile della musica e del pensiero di Wagner, che come ben sappiamo deriva da Schopenhauer; e che è anche molto scelsiana, alla fine (Scelsi è infatti un mio altro riferimento costante). Nel senso che sono compositori che, con un linguaggio completamente personale, hanno comunque concretizzato la possibilità in occidente di andare oltre al sistema del circolo dialettico della musica tonale (io lo chiamerei del “botta e risposta”). Ed è questo che mi interessa: andare al di là della “musica pantomimica” come la chiama Radulescu.

Tornando alle composizioni che saranno eseguite il 5 dicembre per Nuova Consonanza. La sua è quindi una musica che si rivolge verso le aporie e le contraddizioni della società e anche Ópera dos Terreiros, ambientata nei campi di lavoro a Bahia intorno ai primi decenni del XIX secolo, direi che riflette pienamente questa qualità riuscendo a parlare di questioni ancora fortemente collegate al presente. Maestro Brizzi, ci può anticipare qualcosa di quest’opera, raccontandoci anche della drammaturgia musicale?

Andiamo con ordine. Ho cercato di scrivere un libretto a quattro mani con Jorge Portugal, un grandissimo scrittore in lingua portoghese, ma soprattutto specializzato nello scrivere canzoni popolari di alto livello, una specie di Mogol brasiliano che ha lavorato anche per Gilberto Gil. L’idea era nata dal ministero dei beni culturali dello stato di Bahia, che mi aveva chiesto di scrivere qualcosa che si legasse ai dieci Terreiros (il Terreiro è un luogo di culto comunitario, ndr) di Candomblè, che lo stato di Bahia aveva definito come “patrimonio immateriale della cultura brasiliana”. E mi hanno suggerito il titolo “Opera dos Terreiros”. Ne ho parlato a Jorge Portugal, il quale dopo qualche tempo è tornato da me con l’idea di scrivere qualcosa sul tempo degli schiavi e su una specie di Romeo e Giulietta, come aveva detto lui, dove sono presenti due grandi tribù provenienti dall’Africa, i Bantu (di origine angolana) e i Nago (provenienti dal regno del Dahomey, quello che attualmente è una parte della Nigeria e dello stato del Benin). Dal 1600 il Brasile è stato attraversato da grandi ondate di schiavi dall’Angola, i quali hanno creato in buona parte il métissage culturale di oggi. Perché al contrario degli Stati Uniti, dove delle famiglie stabilite di europei andavano ad arricchirsi e avevano degli schiavi che lavoravano per loro nelle fattorie e nei campi di cotone, in Brasile erano quasi sempre gli uomini che lasciavano il Portogallo. A questi uomini – non tanto i padroni, che venivano in Brasile con tutta la famiglia per insediarsi, ma tutto l’entourage dei padroni (avventurieri, criminali che volevano cambiare vita…) – capitava di fare tantissimi figli con le schiave di colore. Succedeva anche che le donne indios, prima del loro sterminio di massa, facessero figli con gli schiavi. Quindi il Brasile è cresciuto su un tessuto connettivo le cui origini  sono assolutamente inestricabili. Infatti oggi, in un paese ancora molto legato a tematiche di distinzione razziale, in realtà in una famiglia borghese possono nascere persone di qualsiasi colore. Ma nonostante questo, chi ha sofferto per più di 250 anni di schiavitù sono i Bantu, gli angolani. Invece dal regno del Dahomey, hanno iniziato a deportare schiavi dal 1750-1800 e hanno passato un tempo relativamente breve di schiavitù (quasi un secolo), venivano non solo schiavi, ma anche sacerdoti e uomini detentore di grande cultura ancestrale. Questi sono diventati maggiordomi, domestici e anche dame di compagnia della cosiddetta casa patronale.

 Passiamo al soggetto della storia…

La storia si regge sostanzialmente su due personaggi. Uno schiavo, Nzailu, di origini Bantu e che viveva in un quilombo (una comunità di schiavi fuggiaschi, in cui in genere si cercava di costruire uno stato di economia libera dal sistema centrale… alcuni esistono ancora oggi!), osserva una schiava, Dara, preparare dei copricapi per una festa religiosa sotto un albero di fronte alla casa padronale presso cui è schiava, e sostanzialmente se ne innamora. Ci sono anche personaggi immateriali che contrappuntano la storia, determinandone il corso degli eventi: rappresentanti di un mondo parallelo, magico-religioso. Il principale è Exú, che nel Pantheon animista afro-brasiliano è il corrispettivo di Mercurio, il messaggero degli dei. È l’unico che può fare da tramite tra gli esseri della terra e gli esseri immateriali…

Ricorda quasi Ariel de “La tempesta” di Shakespeare.

Esattamente, come Ariel, o Puck di Sogno di una notte di mezza estate, è un essere del mondo inanimato che interviene nel mondo materiale in sostegno (non sempre) dei personaggi. La mia opera, dunque, essendo una sorta di Romeo e Giulietta al tempo degli schiavi a Bahia, abbiamo cercato di mettere il mondo magico di Shakespeare all’interno di una forma più o meno visibile. Questo Exú, che si racconta in un’aria tradizionale (“Sono un dio? Menzogna! Sono un pazzo? Menzogna! Esisto? Menzogna! Non esisto? Menzogna?”), vede questo giovane che vuole passare per raggiungere Dara, e allora crea uno stratagemma per poterlo far avvicinare: invoca la dea della pioggia, Oxúm, obbligando Nzailu a ripararsi sotto l’albero, vicino la ragazza. Questo punto è un vero e proprio duetto d’amore d’opera, quasi pucciniano, ho cercato di avvicinarmi alla tecnica che è stata usata in Bohème.

Quindi il discorso musicale inteso come uno specchio psicologico. E questo giustificherebbe anche le sue annotazioni all’opera, la quale, secondo lei, si inserisce nella “piena tradizione lirica europea”.

Assolutamente, la musica è uno specchio psicologico dei personaggi dalla prima all’ultima nota. E anche filosofico, in questo caso. Io parlo di orchestra, ma in realtà è l’elettronica che è impiegata in maniera massiccia. Io ho selezionato 22 suoni che sono sempre gli stessi in un’ora e mezza che si ripetono in tutte le combinazioni possibili, che sono la mia orchestrazione elettronica di questi strumenti. Tutto questo è trattato come una vera e propria orchestrazione, alla fine il pubblico lo percepisce come se fosse un’orchestra, anche se nessun suono rimanda a qualche cosa di riconducibile ai classici strumenti orchestrali. E tutto questo è sviluppato con le stesse tecniche della musica lirica più pura della tradizione occidentale, quella dell’opera quasi all’italiana.

QUESTIONI DI STILE E DI LINGUAGGIO MUSICALE


Ritengo che lei sia uno dei pochi compositori che sia riuscito nella contemporaneità a combinare la ricerca sul “puro suono”, derivata dal suo maestro (e amico) Giacinto Scelsi, con l’inclusione della musica popolare. Come è arrivato a sintetizzare questo suo stile personale?

Per spiegare questo connubio, ovvero quello che per me è in sostanza l’utilizzo nello stesso momento sia la ricerca di suoni poco uditi fino ad ora, sia riuscire a impiegare questi suoni in una composizione di matrice culturale occidentale facendola coabitare con documenti della culturale orale, voglio partire dalla cultura afro-brasiliana (che riguarda ovviamente anche Ópera dos Terreiros). Lì esistono delle sorgenti di energia del suono che giustificano tante teorie di compositori degli anni Sessanta e Settanta, parlo di Xenakis per esempio, che cercavano dei punti di energia nascosta nella materia sonora, ma questa materia non è nient’altro che il fenomeno spettrale, che si manifesta in un determinato modo. Per cui se si riesce a capire la radice e capire il codice per trasformarlo e riuscire a utilizzare questi materiali in un ambito altro dal loro impiego originale, questi diventano una fonte di energia nell’àmbito dove la cultura scritta può coesistere con questa tradizione orale. In questo senso la grande lezione di Scelsi è stata fondamentale per cambiare attitudine. Ma non misi in discussione ciò che avevo fatto, semplicemente ne ho approfondito le radici in maniera totale. Per esempio, invece di continuare ad arricchire la mia collezione di esecuzioni di Sinfonie occidentali, andavo a cercare e ad approfondire, sia con libri che con registrazioni, tutta la musica extra-europea. E lui istigava un po’ ad aprire certi canali di percezione affinché ognuno potesse scoprire sé stesso, testando un modo di porre le cose totalmente al di fuori dei classici rapporti maestro-allievo: lui di allievi non ne voleva.  Per me è un fatto assolutamente naturale combinare questi fenomeni, con il lirismo derivante dalla tradizione della musica colta europea. Questo lirismo non è mai una citazione, non è mai un calco di qualcosa di già fatto, però è un’attenzione molto profonda di come avrebbe risolto il problema Monteverdi, come lo avrebbe fatto Puccini, o Wagner, ma questo non domandandomelo, ma trovando una soluzione che è l’unica possibile. È una serie di fattori che si manifestano e che danno il maggior senso di profondità possibile al legame tra il senso della musica e il senso drammaturgico di dove si vuole andare.

Giacinto Scelsi

Mi vengono in mente un paio di considerazioni a fronte di quello che mi dice: la validità di una musica non può essere giudicata solo in base al materiale che viene impiegato in quella stessa musica, ma a partire dalle modalità con cui viene articolato…

Completamente d’accordo…

…due: non è più il tempo di soffocare i propri mezzi espressivi in nome di pretesti ideologici o normative prestabilite da chissà quale scuola. È d’accordo?

Le scuole si sono così frantumate, sono diventate un fenomeno così locale e provinciale che riferirsi alla scuola vuol dire cercare di essere i primi in serie C. Mentre invece sapersi riferire a un senso che l’uomo ha saputo dare alle cose, dal punto di vista dell’intelligenza scientifica, della sensibilità artistica e di una capacità di lettura a livello spirituale può portare ad ambiti che una scuola non può. E questo, a sua volta, non è creare una scuola, è creare delle opere d’arte che abbiano delle cose da comunicare a un primo livello visibile, a un secondo livello meno visibile e poi se volgiamo guardare bene scoprire tanti altri livelli.

PROGETTI PASSATI E FUTURI

Maestro Brizzi, vorrei affrontare ora alcuni momenti chiave del suo percorso. Dopo gli anni trascorsi a Darmstadt (1992-1994) si ritrova in Brasile a Salvador de Bahia. Cosa aveva lasciato, musicalmente parlando, a Darmstadt, e cosa ha trovato al suo arrivo in Brasile?

A Darmstadt ero direttore dell’ensemble dei Ferienkurse, quindi mi occupavo di tutte le esecuzioni musicali e già questo faceva parte di uno sguardo molto ampio sul mondo. Perché per le esecuzioni musicali curavo compositori di cinque continenti e di mille stili diversi, cercando di dare il massimo sia personalmente durante la direzione, sia nei concerti che non dirigevo io, di trovare gli interpreti adatti e di trovare la situazione adatta e di dare il senso adatto ad ogni pezzo, perché ci voleva una capacità camaleontica per riuscire a spostarsi da un pezzo di un minimalista australiano però con ritmi complicatissimi, a musica quasi popolare messicana dove c’erano altre valenze che lo rendevano interessante tanto quanto altra musica. E quindi l’approdo al Brasile è stato molto preparato dalla docenza tra il 1990 e il 1992 in Messico. Anche lì ho collaborato a tante esperienze come direttore d’orchestra. Ricordo un concerto con musiche di compositori contemporanei, con gli interpreti posizionati sulle piramidi di Teotihuacan, a cui parteciparono 7000 persone (numeri impensabili per il contesto italiano). In Messico comunque imparai a riscoprire ciò che mi aveva insegnato mio nonno tantissimi anni prima, ovvero la musica popolare. Arrivato in Brasile ho visto che musicisti del calibro di Caetano Veloso, Gilberto Gil, o gli stessi Jobim o João Gilberto, pur facendo musica cosiddetta bossa nova e musica popolare brasiliana riuscivano a essere più presenti (come direbbe Renzo Cresti oggi), cioè più contemporanei della musica contemporanea sia locale, che generale, più legata a stilemi accademici, se non colonialisti. E quindi da quel momento ho cominciato a trentacinque anni un po’ per scherzo, un po’ per sfida, a scrivere qualche canzone, dodici in tutto, che pensavo di lasciare lì nel cassetto…

…e invece sono arrivate le collaborazioni con Caetano Veloso e Gilberto Gil, e queste canzoni le avete riversate nell’album “Brizzi do Brasil”. Quanto incise questo incontro sul suo lavoro?

Esattamente. Caetano Veloso mi contattò per avere delle informazioni su Giacinto Scelsi, tanto per dare un’idea di quanto fosse vivace e vorace la sua curiosità musicale. Questa esperienza comunque mi ha permesso di interagire con tanti artisti brasiliani e portoghesi e poi mi è servita molto per iniziare i miei esperimenti, non tanto sul lavoro della canzone in sé (cioè melodia, armonia), ma proprio a livello della produzione in studio, di cercare di unire degli stilemi, che non sono propriamente della canzone popolare brasiliana, ma riconducibili a questa sfera, con i loro ritmi e con certe sequenze armoniche che cercavo di rendere più personali possibile. Così sono riuscito a forgiare uno stile, un metodo, che mi è servito tantissimo addirittura per poi comporre pezzi di cosiddetta musica contemporanea destinati ad ensemble europee. Quindi a un certo punto ho cominciato a scrivere musica colta, ma avendo come fonte e sorgente di riferimento tutta una serie di mondi, che non avevano generato direttamente la musica contemporanea europea.

Gilberto Gil e Aldo Brizzi

Maestro Brizzi, qual è secondo lei il ruolo della musica d’arte/colta al giorno d’oggi? E inoltre: è ancora valida per lei la distinzione oppositiva tra musica colta e musica di consumo (io personalmente a questa distinzione non credo tanto, per esempio) o preferisce parlare di musiche al plurale?

Per me è tutto assolutamente orizzontale, nella scelta del materiale musicale. Però secondo me è necessario fare un distinguo nella situazione della musica oggi. La distinzione secondo me non va operata tra musica “colta” e musica “non colta”, ma bisogna distinguere tra musiche imprigionate nelle logiche del consumo e musica libera. E io sono un assoluto fautore della musica libera. Tutta la musica cosiddetta pop prodotta in America e in Europa è assolutamente non libera. Questa differenza comunque non si può individuare nella possibilità (o meno) di scandagliare nuovi linguaggi… Moltissime musiche composte in Brasile negli ultimi vent’anni per esempio hanno uno stampo totalmente europeo (e colonialista), che sono calchi di cose già viste, già lette, già analizzate e già suonate.

Quindi in sostanza lei è per una musica che non sia imprigionata nel manierismo.

Assolutamente. I primi pezzi di Boulez erano di una libertà assoluta, tutti quelli che hanno cercato di farne delle copie, erano solo degli epigoni e, quindi, assolutamente non liberi.

Rivolgiamo uno sguardo al futuro: che progetti realizzerà? Prima aveva accennato a un’opera su di un soggetto rimasto incompiuto di Wagner…

Questo progetto risale ormai a cinque anni fa circa e mi era stato commissionato da un Teatro italiano. Per varie ragioni decisi di ritirarlo. Esiste pertanto un primo atto completo. Era nato da un progetto astratto: avevo deciso di prendere un’idea di Wagner di scrivere un’opera sulla vita di Buddha, Die Sieger, per l’appunto. Un’opera che per venticinque anni appare nel suo epistolario, ne parla fino alla fine della sua vita. Lo aveva annunciato come opera successiva prima a Tannhäuser, poi l’aveva annunciata a Ludovico di Baviera come opera successiva a Tristan, poi invece si è fermato per scrivere il Ring. Pareva che dopo il Ring finalmente avesse l’intenzione di scriverla, ma invece “arrivò” il Parsifal. E poi c’è un’ultima lettera dove Wagner spiega che il vero motivo per cui non aveva mai realizzato questo progetto era perché non sapeva come trattare drammaturgicamente la figura di Buddha, perché tutte le sue divinità fino ad allora erano esseri imperfetti, quindi con tutta una serie di problemi umani, che col tempo mutavano, e mutando intervenivano sulle sorti di chi stava loro attorno. Mentre invece Buddha era un essere perfetto e statico e non sapeva come risolverlo dal punto di vista drammaturgico. La lettera si conclude con: “Ho già preso impegno con il Teatro dell’Opera di Monaco per far eseguire l’opera nel 1884”. Poi sappiamo tutti come è andata a finire…

Valerio Sebastiani

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Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

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