Greg
di Valerio Sebastiani - 16 Novembre 2019
“una visione spregiudicata dell’arte”
Claudio Gregori (in arte Greg) è un artista estremamente poliedrico: comico, scrittore, chitarrista rockabilly, fumettista, attore teatrale. In occasione del festival di Nuova Consonanza abbiamo deciso di intervistarlo dedicando uno spazio alla sua nuova veste inedita di “librettista” per il compositore romano Matteo D’Amico. Ma non abbiamo parlato esclusivamente di “Colazione di Lavoro”: la nostra conversazione ha virato inevitabilmente sulle originali idee di Greg in materia di letteratura e musica, affrontando i suoi ascolti quotidiani e i suoi rapporti con i grandi compositori del Novecento.
L’occasione per questa conversazione direi che è più unica che rara: Greg, artista quanto mai poliedrico, veste i panni del librettista e si presta alla “musica colta”. Domenica 17 andrà in scena al Teatro Palladium Colazione di Lavoro, un ‘melologo’ su musiche di D’Amico (che abbiamo già intervistato per l’occasione, qui), nella cornice del 56° festival di Nuova Consonanza. Direi che possiamo partire da qui…
La collaborazione con D’Amico è nata tramite l’importante e imprescindibile figura di Gabriele Bonolis, che ho conosciuto un anno e mezzo fa e mi ha diretto in qualità di cantante in un omaggio a Bernstein, all’Università di Tor Vergata. Non molto tempo fa Gabriele mi ha comunicato che con Nuova Consonanza c’era il progetto di fare un melologo, e non avendone mai realizzato ero estremamente curioso di misurarmi con una situazione del genere. Ci siamo incontrati con D’Amico (che tra l’altro è anche una persona piacevolissima) e direi che siamo partiti in quarta fin da subito. Inizialmente la loro idea era quella di montare un melologo con testi selezionati tra i miei narratori preferiti, allora mi sono chiesto se non potesse essere interessante adoperare i racconti che pubblicai almeno 10 anni fa.
Come si è evoluto poi il rapporto con D’Amico? Hai dovuto re-intervenire sui testi, magari sollecitato da qualche osservazione, ne hai potute fare a tua volta sulla musica o avete proceduto parallelamente in maniera autonoma?
Si è lavorato abbastanza parallelamente. Il lavoro comune è stato però sulla successione dei brani. All’inizio non avevamo un’idea ben precisa di come muoverci, ma attraverso un intenso processo di selezione abbiamo optato per impostare una sorta di arco narrativo che si intensifica racconto dopo racconto, avviando il tutto con un inizio surreale e spensierato, che mano a mano vira verso le sfere fosche. Una sorta di discesa discesa negli inferi…
E infatti compare proprio la figura del diavolo alla fine: è proprio un’esemplare discesa verso gli inferi…
È assolutamente esemplare, anche se io poi do al diavolo un’accezione positiva. Non perché io sia satanista, sia chiaro, ma in quanto secondo me non è così responsabile di tutto il male che l’uomo compie in generale…
Secondo me è uno degli episodi più singolari, perché emerge una preponderante attenzione verso l’affabulazione e il racconto, la musica è quasi in secondo piano e questo permette all’autore (ovvero te) di esprimere i concetti quasi alle luci della ribalta. La chiusura per esempio è veramente significativa: “Aprite gli occhi e non abbiate fede, perché la fede non è cieca. La fede ha soltanto gli occhi chiusi, ma non li apre mai”. Un diavolo quasi illuminista.
Sì, ‘illuminista’ mi piace molto come descrizione… è un diavolo che prova la forte pulsione a voler aprire gli occhi e a uscire dal medioevo dei pensieri, dall’omologazione… Son contento che si noti questo elemento.
E fa la coppia con un finale caratterizzato da un riso amaro, c’è una morte un po’ paradossale in ballo…
Stai parlando de L’enoteca… Praticamente si tratta di un loop di accadimenti per i quali puoi sperticarti, ma in realtà se una cosa deve succedere succede, è l’ineluttabilità degli eventi, alla quale io guardo con un cinismo abbastanza pronunciato. Comunque vorrei aggiungere questo sul funzionamento del melologo, in generale: ho trovato molte similitudini con il funzionamento linguistico di una colonna sonora per film. In Italia e in America i produttori provano una sorta di ansia “da riempitivo”, e non c’è un solo film dove la musica non ricopra l’80% delle scene, anche per i momenti più brevi e fulminei. Un melologo come questo, secondo me, vive proprio grazie alla capacità della musica (che secondo me è un trasmettitore astratto di sensazioni e di emozioni) di sottolineare determinati passaggi. La musica, unita al racconto, crea una sinergia pazzesca inglobando in una sfera perfetta tutti i contenuti emotivi (e forse anche intellettuali) offerti dalla parola narrata. In questo senso è stato veramente edificante lavorare con D’Amico, che ha una formazione letteraria incredibile…
Hai già dichiarato in altre occasioni che la musica è la tua linfa vitale: effettivamente come chitarrista hai suonato in moltissime formazioni, frequentando in particolare il genere Rockabilly revival, sei andato perfino alla Sun Records di Memphis (dove c’è ancora il pianoforte su cui suonava Jerry Lee Lewis) per registrare un album. Un’altra tua grande passione è il doo-wop, genere che stai praticando con i Frigidaires. Credi davvero che questi generi, i cui albori sono da rintracciare negli anni 50 in America, non abbiano esaurito le loro potenzialità al giorno d’oggi?
Posso portarti un esempio che estrapolo dalla mia assidua frequentazione di vari raduni di Rock and Roll e Rockabilly, uno in particolare che si tiene a Senigallia lo frequento da 20 anni. Tempo fa ho visto un complesso fare la fotocopia esatta, sputata, di Gene Vincent, con tutti i suoni riproposti fedelmente grazie a un livello tecnico impressionante, e sul palco riuscivano a rievocare la stessa atmosfera delle sue registrazioni alla Capital Records. Questo complesso, appena due anni dopo, è tornato allo stesso festival e hanno suonato alla stessa identica maniera. Questa cosa mi ha dato da pensare… Gene Vincent ha fatto due dischi nel 1956, e nel 1957 già aveva cambiato profondamente stile. Come si fa a sottolineare questo cambiamento se fai musica “revival”, che prevede proprio una riproposizione pedissequa, asettica, di quel sound così lontano dal presente? Credo sia impossibile. Cioè tu non potrai fare un prodotto migliore di quello che è stato fatto negli anni ‘50, perché quegli uomini e donne che suonavano in quel determinato contesto, vivevano con una certa influenza musicale. Volente o nolente quando compongo musica (che, è inutile nasconderlo, fa riferimento al contesto musicale dei Beatles, dei Beach Boys ecc.), ci metto il mio excursus personale perché ho sempre ascoltato musica di un certo tipo, però al tempo stesso nelle mie orecchie sono capitate delle melodie di Alessandra Amoroso o dei Coldplay, musica che io rigetto completamente, ma che però sono nate adesso, e sono onnipresenti. Con questo non voglio dire che ascolto passivamente quello che ho intorno e, passivamente, la ripropongo nel mio Rock and Roll. Ma il mio è un Rock and Roll che è pur sempre figlio del suo tempo: ce la devo ficcare in qualche modo la modernità nella mia musica. Per quanto riguarda il “doo-wop”, per esempio, anche nelle cover c’è un’impronta nostra, degli arrangiamenti che sono molto moderni. Il nostro impatto sul palco, come Frigidaires, è irruento, siamo quasi punk. Piccola curiosità: quasi tutti i brani che ho composto per questo complesso hanno un duplice testo in inglese e in italiano, perché se dovesse servire sono già pronti. In Italia preferisco che il pubblico capisca quello di cui parliamo, sono cose assolutamente attuali, come erano attuali i testi dei gruppi doo-wop negli anni ’50.
Come avviene concretamente il tuo lavoro di composizione?
Di solito ho una idea che sviluppo, delle volte mi viene immense solo il tema musicale, in motorino o in macchina e la registro da qualche parte. Qualche volta mi viene in mente sia melodia che testo insieme e poi ci lavoro, a volte mi diverto con la tastiera a divagare un po’, faccio andare le dita, quasi in trance, e vado dove mi porta l’armonia in quel momento. Credo fortemente che per qualunque lavoro creativo porsi dei limiti, comunque, è l’errore base. Ma è anche il lavorare a tavolino che rovina la carriera di un artista… Pensa che negli anni 80 io detestavo la maggior parte della musica che si ascoltava in quel periodo: i vari Duran Duran, i Simple Minds, Michael Jackson, i Depeche Mode… Ascoltandoli adesso ugualmente non mi piacciono, ma ti rendi conto di una vena compositiva e dei passaggi armonici che sono assenti da almeno 20 anni se non in rari casi. La stessa cosa la sostengo riguardo Gigi D’Alessio, non sopporto quando la gente lo addita come feccia della musica… Lui ha studiato armonia e si sente, poi non mi piace quello che fa ma è un altro conto. Adesso quando ascolti qualsiasi canzone “pop” riesci a prevedere esattamente dove andrà a parare, la puoi cantare e suonare insieme dal primo ascolto, è prevedibile, non c’è stupore. Alcuni chiamano questo effetto “ascolto confortevole”, io non provo alcun conforto, solo noia.
Quando nasce e soprattutto con quali compositori il tuo interesse per la musica classica?
Sono stato molto fortunato, perché in casa avevo mio padre, un onnivoro musicale, appassionato di swing e avevamo tantissimi dischi di Dean Martin, Frank Sinatra, Tom Jones, Louis Armstrong che venivano messi a ripetizione e poi aveva anche dischi di musica classica, i soliti mostri sacri che effettivamente a quell’epoca si trovavano in ogni casa di persone mediamente acculturate: Beethoven, Mozart, Bach ovviamente. Nonostante a 14 anni (nel 1977) mi esplose la passione per il Rock and Roll, a latere ho continuato a provare interesse per la musica classica. Mozart, devo essere sincero, non mi ha mai colpito nel profondo.
Assurdo! Invece credevo fosse quello più affine alla tua personalità artistica…
Beethoven mi prese molto, ma molto di più! Un vero, forse l’unico, innovativo. Ma comunque l’ascolto di quella musica era per me un rifugio da certe cose che andavano in giro in quell’epoca. Ora, senza fare i nomi, però mi sento di dire una cosa. Credo che certe tendenze “d’avanguardia” se possiamo chiamarle così, negli gli anni Settanta, abbiano rovinato molta arte e teatro, in nome di una sperimentazione che in realtà non era altro che provocazione gratuita, fatta per espletare una totale mancanza di qualità. E devo essere sincero: io pensavo che la musica contemporanea, per esempio, fosse al 100% inascoltabile. Mi rifugiavo quindi, in Beethoven, poi Rachmaninov, Stravinskij e via dicendo. Crescendo e affinando i miei gusti, hanno iniziato ad appassionarmi anche musiche più calate nel presente (e magari di nicchia). E qua ritorna la mia “fissa” nei confronti del contesto americano. Sono rimasto molto colpito da John Adams per esempio…
Hai momenti particolari in cui ascolti questi compositori? Perché alcuni di questi che hai nominato richiedono un ascolto piuttosto impegnato, e non possono rimanere in sottofondo. Penso a Bartók a Stravinskij, non sono compositori che metti in stereo mentre ti fai una carbonara.
(Ridendo) Guarda, la considerazione che ho di tutti i generi musicali è sempre quella, la prima volta che ascolto una cosa lo faccio in cuffia, sul divano. Dopodiché diventa un ascolto completamente permeabile, che riguarda ogni aspetto della mia quotidianità.
Affrontiamo adesso il tuo impegno nella narrativa: la tua antologia di racconti “Aggregazioni”, come spesso hai affermato in questi anni, fa esplicito riferimento al contesto culturale dell’America degli anni 50. Ti confesso che alcune tue tinte mi ricordano Ennio Flaiano, e addirittura Tommaso Landolfi, entrambi autori che incantano per la loro mordace ironia (mai gratuita, oltretutto). Quali sono i tuoi modelli letterari di riferimento? E qual è il tuo obiettivo di scrittore?
Per me l’obiettivo è, e rimane, sempre il creare emozioni e raccontare attraverso esse. Tanto per tornare alla musica: io non sopporto l’atteggiamento di alcuni jazzisti, che durante le serate sembrano suonare più per loro stessi, che per un pubblico. Se suoni per te stesso lo fai in cantina, se porti fuori le tue cose devi essere fiero di far ascoltare quello che stai facendo, non puoi farlo con un’acredine verso il pubblico. I bluesman negli anni Quaranta, che suonando si portavano il diavolo dentro, tra un brano e l’altro intrattenevano il pubblico con aneddoti e barzellette. Facendo questo erano in grado di creare un alto livello di simpatia con il pubblico, proprio nel senso del “sentire insieme”. Questo è il mio obiettivo principale, anche in letteratura, e lo devo principalmente alla mia formazione così variegata. Immagino sia chiaro che ho una visione unitaria e spregiudicata per quanto riguarda l’arte. Anche quando lavoravo ai miei fumetti, cercavo sempre di rendere viva, icastica, brutale, l’immagine che intendevo rappresentare. La mia formazione di lettore onnivora mi ha aiutato molto, ovviamente. Dei russi ho maturato un’enorme passione per Čechov, che trovo molto caustico e ironico. Per quanto riguarda gli americani ho letto di tutto, veramente, da Faulkner, a Steinbeck, a Kerouac, tutti autori che mi hanno sempre molto catturato. Ti ringrazio per il confronto con Flaiano, perché in effetti è stato un mio faro per moltissimo tempo. Tuttavia devo confessarti che io mi abbandono sempre un po’ alle mie sensazioni quando scrivo, non cerco mai di emulare nessuno, tuttavia è estremamente facile che affiorino talvolta i miei punti di riferimento, credo sia naturale.
Che progetti futuri hai? Sei rimasto toccato da questa esperienza con Nuova Consonanza e vorrai replicarla o ti dedicherai interamente al teatro?
Con Nuova Consonanza spero non rimanga una cosa isolata, ma magari possa diventare uno stimolo per intraprendere nuove strade di collaborazione. Adesso riprenderò a fare teatro, con un monologo tratto da una raccolta di brevi racconti che tra l’altro ho appena ripubblicato con una piccola casa editrice. Lo porterò un po’ in giro nel Nord Italia e infine a Roma, dopo di che riprendiamo uno spettacolo con Lillo, che è stato fortemente richiesto perché comunque gli sketch sono molto più fruibili rispetto a un monologo
Valerio Sebastiani