Gabriele Pieranunzi
di Marica Coppola - 19 Novembre 2019
l’eclettismo di un Primo Violino
Per la rivista The Birmingham Post, Gabriele Pieranunzi è “il violinista dai toni più dolci che tu possa immaginare”. Attuale primo violino di spalla dell’Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli, Pieranunzi racchiude nella sua espressione artistica tutti gli indirizzi della professione violinistica: dall’attività solistica a quella cameristica, dall’esperienza delle competizioni musicali a quella dell’insegnamento. Una maturità esecutiva, quella del raffinato interprete romano, che è il risultato di una vita interamente dedicata agli studi musicali e ad un’irrefrenabile ricerca artistica. Gabriele Pieranunzi lo ha raccontato a Quinte Parallele, attraverso un’intensa e piacevole intervista.
M° Pieranunzi, partiamo con il ripercorrere la sua carriera dagli esordi. Lei si è diplomato in violino a soli 16 anni, e ha vinto ben due premi da giovanissimo al Concorso Paganini. Cosa significava in quegli anni per un giovane violinista arrivare tanto presto a questi risultati?
Per iniziare, cercando di essere obiettivo e al contempo mantenendo tutta l’umiltà necessaria, riconosco che il mio percorso con il violino si è determinato in maniera quasi naturale. Devo però aggiungere che ho iniziato a studiare violino all’età di 6 anni: ho svolto quindi un normale percorso di studi decennale prima di arrivare al diploma. Una certa propensione a questo strumento ha permesso che mi si aprissero quasi subito scenari musicali di un certo livello, come quello del Concorso Paganini. Mi lusinga essere ricordato per questo: sia nell’ ‘88 che nel ‘90 sono arrivato in finale con un quarto e terzo premio al Concorso. La prima cosa che ricordo è che in quel preciso momento storico il Concorso Paganini costituiva uno dei più importanti cimenti a livello italiano e internazionale, aveva tutta l’importanza che un premio del genere doveva e dovrebbe ancora avere. Partecipare ad un concorso come il Paganini conferiva in quegli anni, ad un giovane, un valore a livello sociale che si estendeva ben al di là del singolo fattore artistico.
In che modo veniva riconosciuta al Concorso questa importanza, da parte delle istituzioni?
In primo luogo se ne parlava al telegiornale, dove le notizie sul Concorso erano trasmesse tra quelle principali. Anche le più importanti testate giornalistiche nazionali dedicavano al Paganini la massima attenzione e un gran numero di articoli. So che probabilmente oggi sembrerà strano, ma posso garantire che era proprio così. Eppure non è passato così tanto tempo da allora…
In effetti diversi anni sono passati, però si percepisce quanto oggi sia vivo in Lei il segno lasciato da questa esperienza.
E’ vero, un’esperienza come quella del Paganini vive dentro di te a vita. Un pregio di quando si è molto giovani è avere una buona dose di inconsapevolezza, quella del tutto positiva che occorre per suonare alla finale di un concorso di questo tipo in diretta radio con tremila persone che ti ascoltano, sentendoti nella più totale normalità! In realtà, è maturando che ho realizzato concretamente cosa ha significato per me partecipare ad un cimento del genere. Un mio amico mi ha di recente fatto notare che ho devoluto gran parte della mia adolescenza in “beneficenza” al Concorso Paganini. Non avrei potuto fare diversamente: dovevo mantenere stabili nel mio repertorio davvero tantissimi tra i più celebri e complicati brani violinistici. Il ricordo di esperienze di competizione di questo livello ti resta per tutta la vita, sono situazioni che incidono in qualche maniera nel tempo anche sulla tua personalità artistica. Ad ogni modo, riconosco indubbiamente e con grande soddisfazione che il Concorso Paganini mi ha consentito di entrare a pieno titolo in un alto livello di professionismo musicale.
E dopo il Paganini?
Ho cercato di uscire fuori dal tipico cliché del violinista italiano che vuole emergere solo attraverso il Paganini, così ho partecipato a tanti altri concorsi classificandomi alle selezioni finali. Ho cercato di costruirmi una visione ed un’esperienza quanto più ampie possibili in merito alle competizioni violinistiche. Certo, nonostante questo quando si parla di me ancora oggi tutti menzionano come prima cosa sempre le mie due finali al Paganini… ma va bene così, non nego che sono ciò ha dato una grande spinta in crescendo alla mia carriera.
Una carriera, la sua, che al di là dell’esperienza delle competizioni violinistiche si è subito diretta verso il concertismo, nell’ambito solistico e cameristico. Fino ad arrivare all’anno 2004, quando Lei diventa primo violino del Teatro San Carlo: ci racconti come vive il suo rapporto con Napoli e con questo storico Teatro.
Questa storia è iniziata esattamente qualche anno prima, nel 1999, venti anni fa. Quell’anno fu uno dei più belli della mia vita, la mia carriera andava molto bene e avevo fatto alcuni importanti debutti al di fuori dell’Italia – tra cui l’esecuzione del Concerto n°2 per violino di Paganini con la City of Birmingham Symphony Orchestra, che in quegli anni era l’orchestra con cui lavorava Simon Rattle. Nel settembre di quell’anno mi arrivò una telefonata dal Teatro San Carlo, in cui mi fu chiesto se fossi stato disponibile ad essere il primo violino del Teatro per un periodo di tempo. Riflettendoci adesso, a distanza di tempo, so che prima o poi sarei arrivato a ragionare sul fatto di dover fare la prima parte in un’orchestra, ma in quel preciso momento della mia vita quella fu per me l’occasione perfetta per svolgere questo lavoro. La prima cosa che mi ha colpito di Napoli è stata certamente la bellezza del teatro: posso affermare con certezza, sia per i teatri che io ho visto che per quelli che mi sono stati raccontati, che il Teatro San Carlo è il più bel teatro del mondo. Bisogna dare atto a Napoli di possedere davvero un gioiello in tal senso.
Le piacque subito trovarsi in una posizione artistica diversa da ciò che era stata la sua carriera fino ad allora?
Devo dire che superata la fase iniziale dove forse agivo con un pizzico di incoscienza, la stessa con la quale mi presentavo da ragazzo ai concorsi di cui prima parlavo, nel tempo ho iniziato gradualmente ad entrare sempre di più nel cuore di questo mestiere. Inizialmente pensavo che il ruolo di spalla per me fosse una situazione temporanea: mi dicevo “farò uno, due, forse tre periodi qui al San Carlo”, anche perché in quel momento avevo desiderio di tornare a Roma. Fino a quando la direzione artistica del Teatro dopo qualche anno mi chiese se fossi stato interessato ad avere un posto stabile da primo violino d’orchestra con il privilegio di poterlo ottenere senza dover partecipare ad un concorso, e quindi unicamente sulla base dei miei titoli e della mia carriera precedentemente svolta. Naturalmente, accettai.
Così negli anni Lei ha assunto tutte le caratteristiche necessarie al compito di spalla d’orchestra. Quali abilità considera indispensabili per la riuscita di questo mestiere?
Credo sia utile innanzitutto chiarire la posizione di primo violino di spalla all’interno di un’orchestra, che è a metà strada tra la direzione artistica del teatro e il direttore d’orchestra. La prima abilità che non può mancare ad un buon violino di spalla è quella di saper essere un mediatore tra queste due figure: a questo non si può arrivare se non con anni di esperienza e con il conseguimento di una certa maturità personale e artistica. Il direttore d’orchestra deve poter avere nel primo violino un saldo perno su cui poggiare per mettere insieme le diverse volontà di tutti i componenti dell’orchestra stessa. Essere primo violino di spalla non è soltanto una prova di grande responsabilità e pazienza, ma richiede anche molta capacità di analisi e riflessione: tacere e ascoltare vanno messi in questo compito al primo posto per poi in secondo luogo poter pensare, e solo alla fine esprimere le proprie volontà. L’impulsività certamente in questo mestiere non aiuta.
Praticamente, e per fortuna, l’opposto del banale equivoco “sono il primo e comando io”…
Esattamente! Un equivoco banale ma nemmeno così infrequente, purtroppo. Mi piace molto pensare a un termine tedesco che per me descrive perfettamente questo compito: “koordiniert”, che esprime appunto il dover coordinare e non comandare. Di fatto, anche se dal punto di vista gerarchico il primo violino di spalla è un leader, come qualsiasi dirigente di una buona azienda che si rispetti il fine è saper far funzionare tutte le varie parti di una “macchina”. Mettersi solo a comandare invece vuol dire far finire molto presto il gioco…
Nell’essere in cima a questa gerarchia, è giusto pensare che il violino di spalla debba aver assimilato e inglobato, nello svolgimento del suo compito, tutte le altre specializzazioni del settore violinistico?
Naturalmente si. Il mio attuale lavoro conferma ciò che ho da sempre pensato: prima di poterti sedere in orchestra al posto del primo violino è indispensabile aver fatto un certo numero di concerti da solista e un certo numero di concerti cameristici di cui bisogna proprio aver assimilato abbondantemente l’esperienza. Sinceramente trovo assurdo come ancora in Italia alcuni pensino che il primo violino di spalla sia il compito di quel “solista mancato”, che non essendo riuscito ad essere tale “si accontenta” di mettersi seduto in orchestra. In verità è proprio il contrario: devi essere stato già solista e camerista per sederti al posto del primo violino. Ci sono dei grandissimi soli di violino nel repertorio delle musiche per orchestra che sono a tutti gli effetti veri e propri concerti solistici: come si farebbe ad affrontarli, senza essere prima passati attraverso diverse esperienze da solista?
Maestro, parliamo adesso delle sue ultime incisioni. Di recente è uscito un CD in cui ha collaborato con i Philharmonia Chamber Players e la pianista Jin Ju. Al centro di questo lavoro ci sono le musiche del compositore francese Ernest Chausson , in particolare il Concerto Op. 21 per l’ “insolita” formazione di violino, pianoforte e quartetto d’archi. Come mai questa scelta?
In realtà è venuto tutto molto facilmente. Ma se devo proprio partire dal principio nello spiegare il perché della scelta, ritorniamo ancora a parlare del mio destino connesso a Napoli. Diversi anni fa, a Napoli, mi presentarono un adolescente violinista di Sarno molto talentuoso, Fabrizio Falasca. Lo ascoltai suonare e riconobbi un indubbio talento in quel ragazzino. Dopo non molti anni, Fabrizio vinse il posto di violino di fila qui al Teatro San Carlo, e vinse l’audizione anche per l’Orchestra di Santa Cecilia. Date le sue qualità, iniziò poi ad esternare maggiori ambizioni… così dopo poco ha vinto il posto di Assistant Concertmaster alla Philharmonia Orchestra di Londra. Falasca è membro del quartetto dell’orchestra, appunto i Philharmonia Chamber Players che hanno inciso il disco di cui si parlava con me. L’orchestra da cui vengono questi musicisti ha in sé ancora tutta la tradizione dei direttori che ha avuto a capo, come Karajan; questa tradizione si è tramandata in una morbidezza timbrica inconfondibile. All’occasione che mi si è presentata di collaborare con questi meravigliosi esecutori, si è abbinato un mio vecchio desiderio di incidere questo brano, che è l’unico del repertorio, insieme al Doppio Concerto di Mendelsshon ( per violino, pianoforte e orchestra d’archi – la quale può essere anche un quartetto) ad essere stato scritto per questa formazione. Chausson è ricordato principalmente per il Poeme Op. 25 e per alcuni Lieder oltre a questo Concerto, e in quest’ultimo si avverte tantissimo il suo post-romanticismo tanto influenzato da quella che per lui era una sorta di divinità, ovvero Wagner. Ma non solo: l’opera è piena di rimandi anche a César Franck, è un vero e proprio capolavoro di unificazione di tanti diversi rimandi stilistici. In conclusione, c’è anche un altro fattore che mi ha spinto a incidere proprio Chausson: ho una certa predisposizione per la musica francese; lo riscontro direttamente dalle mie caratteristiche d’interprete.
Queste sono atmosfere musicali che si allontanano parecchio però da quelle di un’altra sua incisione: mi riferisco al Concerto di Kurt Weill per violino e orchestra di fiati Op.12, al cui lavoro c’è stata la collaborazione con il direttore d’orchestra Jeffrey Tate.
Indubbiamente. Ci spostiamo immediatamente con quest’opera in un clima completamente diverso, quello della Germania antecedente la Seconda Guerra Mondiale. Ogni volta che penso a questo Concerto di Kurt Weill non posso non percepire, nemmeno nei momenti più “leggeri” di questa musica, il sentore della guerra che da lì a pochi anni sarebbe scoppiata. Parlando di Jeffery Tate, io ero con lui – che è stato il direttore stabile dell’orchestra del San Carlo tra il 2005 e il 2010 – in grande sintonia; c’era tra di noi una forte comunione di intenti dal punto di vista artistico e professionale. In vista della stagione sinfonica dell’anno 2006 al Teatro San Carlo, mi propose di suonare da solista con l’orchestra o il Concerto per violino di Britten, o quello di Korngold, oppure l’Op.12 di Kurt Weill per violino e orchestra di fiati. Scelsi Kurt Weill perché lo avevo già suonato. Tate prediligeva il repertorio del ‘900, e quest’opera si può accostare per alcune cose al Kammerkozert di Berg per violino, pianoforte e fiati.
Come fu lavorare con Tate in quell’occasione?
Ricordo con una grande emozione quelle giornate di prove con Tate per l’incisione. Tate è stato allievo di Benjamin Britten, il suo legame alla tradizione musicale novecentesca era quindi diretto e lui era particolarmente portato a lavorare con ensemble strumentali ridotti. In passato Tate era stato anche direttore di coro, e nel momento in cui ci si trova a lavorare con un ensemble ridotto questo non può che essere un valore aggiunto all’esperienza di un direttore. Inoltre, Tate era anche affascinato da quel tipo di repertorio forse più inconsueto rispetto alla tradizione. Quello che ricordo principalmente delle prove con Tate per quell’occasione è la massima tranquillità ed organizzazione con cui dirigeva il lavoro: il tempo di una settimana fu gestito magistralmente per arrivare ad un esito di un certo livello. Non dimenticherò mai la professionalità di Tate nell’aver saputo bilanciare perfettamente la timbrica del nostro ensemble, nel farci capire sempre quale strumento con quale melodia dovesse emergere in ogni diverso punto della composizione. Fu un lavoro in cui i musicisti del San Carlo hanno suonato in maniera così egregia da poter essere paragonati a quelli di qualsiasi altra orchestra europea di altissimo livello.
Qual è il patrimonio che le ha lasciato Tate attraverso quest’esperienza?
Quel lavoro certosino mi ha lasciato un’enorme attenzione ai particolari nel mio lavoro, quasi una pignoleria, che se a volte può essere considerata pesante alla lunga viene sempre riconosciuta come valore estremamente positivo.
Maestro, restando in ambito novecentesco Lei prima ha citato il Kammerkonzert di Berg. La musica di Kurt Weill è forse passata alla storia come più popolare rispetto a quella di Berg. Come ha approcciato Lei lo studio di una musica concettualmente molto complessa come può essere quella del Kammerkonzert?
Si, indubbiamente la musica di Kurt Weill rappresenta qualcosa di più popolare rispetto allo stile di Berg, chiaramente derivato dal serialismo. Weill non usa eccessivamente la dissonanza, mentre in Berg, essendoci il sistema della serie, si avverte una certa complessità anche dal punto di vista dell’ascolto. Quando si ascolta il Concerto di Weill di cui parlavamo prima si può benissimo immaginarlo come un commento musicale di film d’epoca come quelli di Lubitsch o Fritz Lang, mentre il Kammerkonzert è tutt’altra cosa. Onestamente quest’ultimo mi ha richiesto uno studio faticosissimo proprio a partire dall’analisi della partitura, che è considerata un perfetto studio sulla serie; Tate mi diceva che è una delle opere più complesse da dirigere di tutto il Novecento. Io ho suonato il Kammerkonzert con il pianista Kontarsky, che aveva respirato direttamente il clima della scuola di Darmstadt, e ricordo a tal proposito una sua citazione che letteralmente sbloccò il mio punto di vista nell’ affrontare questa musica: mi disse di non pensare troppo a tutto lo studio complesso che c’era nella concezione del lavoro, quanto piuttosto di immaginare di vivere nella Vienna degli anni di Berg e di ascoltare un valzer di quell’epoca, di un certo tipo. A volte basta una semplice frase al momento giusto per avere una semplificazione di certe strutture e una maniera più diretta di vivere certa musica.
Del resto, è risaputa la sua versatilità nell’approcciare diversi generi del repertorio. Ad esempio, è nota la sua collaborazione con suo fratello Enrico, pianista interprete del jazz. Ci racconti dell’esperienza di suonare con lui.
Riagganciandomi al discorso precedente, il CD del Concerto di Kurt Weill che comprende anche musiche di Milhaud e Stravinskij è stato inciso con mio fratello Enrico al pianoforte. E’ lui quindi a fare piuttosto spesso incursioni nel “mio” territorio, mentre io invece non sono jazzista. Nei nostri concerti ci esibiamo infatti con repertorio ad ogni modo “classico”: attualmente eseguiamo un programma interamente dedicato a Gershwin. Suoniamo delle trascrizioni di Heifetz di canzoni di Gershwin tratte dall’opera Porgy and Bess, oppure delle trascrizioni che sono opera di Enrico stesso, come quella di Un americano a Parigi e Rhapsody in Blue trascritta per violino, pianoforte e clarinetto. Enrico è molto bravo nel saper rendere “light” delle cose macro! Nei nostri concerti quindi non c’è, almeno da parte mia , alcuna pratica di improvvisazione.
Vorrei adesso passare ad un altro aspetto della sua carriera, quello della didattica. Lei si dedica molto anche all’insegnamento, e mi piacerebbe chiederle come pianifica il lavoro di preparazione degli studenti che, concluso il conservatorio, aspirino ad intraprendere una carriera come la sua.
Non posso evitare di fare prima cenno al contesto in cui ci troviamo, e purtroppo devo ammettere che viviamo un momento complicato per ciò che riguarda la cultura in questo Paese. Voglio spezzare una lancia a favore dei giovani musicisti di oggi, a loro sono stati letteralmente tolti sogni ed illusioni. Tornando infatti a ciò che ci siamo detti all’inizio, per un ragazzo della mia generazione arrivare in finale al Concorso Paganini era il sogno di una vita di studio e sacrifici. Se penso che oggi il Paganini è diventato un concorso triennale, di cui a volte addirittura alcune edizioni sono saltate, e che potrebbe un giorno rischiare di non esserci più, provo un certo malessere. Ma anche parlando di tutti gli altri premi che ho vinto o concorsi a cui ho partecipato: praticamente molti di questi non esistono più. Allora dove hanno concretamente la possibilità di farsi ascoltare i giovani emergenti? Cosa posso concretamente dire o garantire io, in un Paese dove invece di essere aperte nuove orchestre si chiudono quelle che già ci sono? Se questo è un mestiere difficile, immaginiamoci come lo rende impegnativo il sapere che l’ente presso cui lavori potrebbe essere in difficoltà economiche e chiudere dall’oggi al domani… Detto ciò, la prima cosa che cerco di trasmettere ad un ragazzo uscito dal conservatorio è imparare a sopportare e a resistere in questo difficile clima. Passando alla pratica, le audizioni per orchestra vanno affrontate come qualsiasi concorso solistico: non si può pretendere di studiare unicamente i passi d’orchestra. Il repertorio di un violinista che voglia entrare in orchestra deve comprendere almeno un paio di concerti per violino di Mozart, un paio di Sonate o Partite di Bach, qualche importante sonata del repertorio cameristico con il pianoforte e un paio di concerti del repertorio romantico. Lo studio dei passi deve diventare consapevole; non mi spiego come molto spesso gli allievi pensino al repertorio come a qualcosa di separato dai passi d’orchestra. Questa dissociazione può generare nei giovani violinisti un appiattimento pericoloso, che loro devono essere ben attenti dall’evitare.
Maestro, la lascio con le parole di uno dei più importanti violinisti della storia, il belga Eugène Ysaÿe (1858 – 1931). Per Ysaÿe essere un professionista di questo strumento significava «essere un violinista, un pensatore, un poeta, un essere umano; aver conosciuto la speranza, l’amore, la passione e la disperazione, aver percorso tutta la gamma delle emozioni per esprimerle completamente nel suo suonare». E’ una visione affascinante… ma quanto ancora attuale?
Innanzitutto vorrei dire , per essere in tema con la nostra conversazione, che il dedicatario del Concerto Op. 21 di Chausson di cui abbiamo parlato è proprio Ysaÿe, e lui stesso suonò il brano in prima esecuzione assoluta. Io non sono in disaccordo con ciò che dice Ysaÿe, è tutto vero. Questa citazione però va anche contestualizzata: la figura del musicista e in particolare dal violinista a quell’altezza cronologica era davvero qualcosa di elevato, di molto speciale in società, al pari di quella di un grande medico o professore universitario. Con amarezza devo osservare che nella vita di oggi non è così, in molti casi al musicista non viene riconosciuto lo stesso status sociale che poteva avere nei secoli passati, e in parte questa è anche una mancanza derivante dal nostro sistema di istruzione. Perché un ragazzino deve conoscere giustamente chi era Raffaello o Giovanni Pascoli, ma saperne molto poco di Bach? Tornando a Ysaÿe, la sua definizione di violinista ideale è del tutto legittima ma purtroppo poco adattabile al contesto odierno. Oggi, con i ritmi di vita sfrenati che abbiamo, purtroppo c’è al massimo il tempo per essere dei buoni violinisti… però mi piacerebbe affiancare alle parole di Ysaÿe l’insegnamento di Heifetz e Stern, che venendo da una generazione diversa hanno messo in luce quanto servano per questo mestiere anche nervi d’acciaio e una certa, sana dose di arroganza!
Marica Coppola