Essere Francesco Libetta
di Filippo Simonelli - 10 Settembre 2020
Un faccia a faccia – virtuale – con uno dei più grandi pianisti del nostro tempo. Ma non solamente un virtuoso, anzi: una conversazione con Francesco Libetta, da Mendelssohn al Rap passando per la composizione
Il percorso dei musicisti varia di molto da persona a persona. Ci sono gli enfants prodige che stupiscono e sbalordiscono praticamente già in fasce, ci sono quelli che invece invecchiano come il buon vino, migliorando con l’età – se si volesse usare un altro termine alla moda li potremmo chiamare late bloomers, per intenderci. Poi c’è Francesco Libetta, che è diventato musicista “in pochi decenni”, come titola il suo ultimo libro. Non ci vuole una volpe per accorgersi dell’ossimoro presente nel titolo. Ma già cogliere questo primo piccolo germe di follia nel personaggio aiuta ad addentrarsi nella figura di uno dei più interessanti virtuosi in attività oggi. Sulla copertina fa bella mostra di sé un cagnolino stilizzato sopra al pianoforte di Libetta – anch’esso stilizzato, penso dallo stesso Libetta che oltre ad essere pianista, compositore, insegnante, produttore discografico si dedica anche all’acquerello per essere sicuro di non farsi mancare nulla. I cani in effetti sono una delle grandi passioni del Maestro pugliese, almeno stando a quello che posta sui suoi canali social, la sua “Hypotetical Version Offstage”. In un’intervista pubblicata sul sito del Cidim durante le fasi più acute della diffusione del Coronavirus in Italia, ha messo particolare enfasi sul fatto che con il nuovo tempo libero che si ritrovava poteva dedicarsi molto più ai suoi amati animali, una delle sue distrazioni predilette con cui gioca spesso e volentieri.
Durante la sua carriera Libetta ha raccolto grandi consensi in giro per il mondo, riscuotendo un particolare successo oltre che nella terra natìa negli Stati Uniti, dove si ritrova spesso ad insegnare, e in Francia, dove alla Roque de Antheron è stato protagonista di una memorabile esecuzione poi messa su pellicola dal regista Bruno Monsaigeon. Devo dire che gran parte dell’attenzione ricevuta come grande virtuoso non gli rende interamente giustizia: non che Libetta non lo sia, ci mancherebbe. Ma spesso l’immagine stereotipata che diamo al virtuoso come un mero funambolo della tastiera espungerebbe dei tratti della sua personalità e della ricerca artistica che sono coessenziali alla comprensione, e nondimeno all’apprezzamento, del personaggio. Un esempio secondo me rilevante sarà il concerto mendelssohniano in programma venerdì 11 settembre con cui Libetta torna a Roma ad esibirsi come solista con l’Orchestra di Santa Cecilia; occasione in cui l’ho raggiunto – per forza di cose telefonicamente – per una lunga intervista, in cui oltre all’imprescindibile tema pianistico abbiamo parlato anche di rarità discografiche, danza, rap e altre cose divertenti che non farà mai più. O forse no.
Questioni di repertorio, e di abitudini
Siccome siamo alle porte di un concerto, una domanda sul repertorio in programma è imprescindibile. Poi suscita anche un certo interesse il fatto che sia il primo concerto di Mendelssohn, non esattamente il più praticato dai pianisti…
È vero, non è uno dei più praticati perché non è un brano eccessivo, che attira l’attenzione. Invece Mendelssohn, che è tutto di buon gusto, proporzionato, è vittima di questo understatement generale come compositore che lo rende tanto “vittoriano”, il prediletto dell’Ottocento inglese già in vita… per cui i pianisti si trovano ad avere una musica che tecnicamente potrebbe essere affine ad un Weber, con un approccio strumentale antico che si rivolge al virtuosismo digitale come materia preziosa. Poi però Mendelssohn non è innervato dal grande romanticismo delle domande aperte, anzi è uno che cerca di risolvere alcune cose. Per questo e per altri motivi, compreso il fatto che gli è “uscito bene” e non è che ci sia stato chissà quanto a lavorare come nel caso di quello per violino, non è mai esploso particolarmente nel repertorio. Si inserisce nella produzione di capolavori di Mendelssohn, ma non è che la rappresenti a pieno.
Però se pensiamo alla fama che hanno altri pezzi di Mendelssohn per pianoforte solo, come alcune romanze o brani più impegnativi come Variazioni o la Fantasia, è strano…
In realtà più o meno. Spiego: siamo abituati a pensare a gente come Chopin, di cui la quasi totalità di quanto è stato scritto è rimasto in repertorio. Ma anche lo stesso Beethoven, per dire, ci ha lasciato una quantità di pezzi che nessuno sa che abbia mai scritto, perché la storia ne ha fatto una selezione a volte sensata a volte meno, lasciando fuori quelli che potrebbero essere due o tre repertorii di pezzi anche belli ma che nessuno ha mai sentito neanche nominare, figuriamoci ascoltare. Ugualmente succede per Mendelssohn, che a parte una manciata di Romanze ed alcune sinfonie, per il resto ha subito una forte selezione da parte degli interpreti e degli ascoltatori abitudinari.
Per spezzare questa routine dell’abitudine occorrono anche progetti di rottura, come il suo Nireo – un’associazione/etichetta discografica con cui il Maestro si è occupato di promuovere o produrre musica e interpretazioni rare, ndr – che sono animati anche da una ricerca per l’insolito, o sbaglio?
È come succede anche per i musei in un certo senso, o comunque per le arti figurative: chi studia storia dell’arte sa che per esempio tra alcuni grandissimi nomi e l’ambiente circostante ci sono vari gradi di separazione ma non è che esiste il genio e intorno c’è il nulla, tranne rarissimi casi. La maggior parte delle volte il mondo culturale sceglie per comodità qualcosa di rappresentativo: basti pensare alla differenza di fama che c’è tra la Gioconda e le altre opere di Leonardo, e stiamo parlando dello stesso artista. Magari è giusto che ci sia quest’esaltazione del capolavoro o del genio, magari sono davvero i più bravi ma non sono i soli bravi. Chi studia queste cose professionalmente riesce a farsi un’idea e contestualizzare il genio rappresentativo in un ambiente; chi vive questa cosa da fuori, per far prima, impara uno o due nomi e basta. In questo senso di Mendelssohn si rischia di prendere una cosa comoda perché più rappresentativa, ma dimenticando tutto quello che c’è di fianco che però non è da meno. Per questo in progetti come Nireo si cerca di contestualizzare dimenticando l’abitudine di dover prendere secondo le leggi di mercato solo l’indispensabile, impoverendo la ricchezza di un determinato contesto. Abbiamo fatto il nostro cofanetto di Tito Schipa, certamente il miglior cantante nato a Lecce, ci mancherebbe, ma abbiamo reso omaggio anche tutti quei magnifici cantanti che gli ruotavano intorno. C’è chiaramente un primus, ma non vedo perché i pares debbano essere dimenticati.
Dovendo forzatamente, per concisione, scegliere intorno si lascia un vuoto. È come dire che nell’Ottocento italiano esiste il Nabucco, Attila… ma esiste anche Mercadante, che non va dimenticato. Senza Elena da Feltre di Mercadante si capisce meno Ernani ad esempio.
La ricerca del virtuosismo
Certo, c’è da dire che il concerto di Mendelssohn non è esattamente uno dei vertici del virtuosismo pianistico, un po’ poco in linea per certi versi con le sue usuali scelte programmatiche…
Diciamo che il virtuosismo non fa la felicità, però aiuta! Innanzitutto partiamo dal fatto che chi è abituato al virtuosismo poi ha più facilità a preparare il programma x, la sonata y. Invece di impiegare mesi a preparare un brano, occorre relativamente poco tempo a montare su un progetto. I pianisti dell’ultimissima generazione, come Volodos, fanno un uso del virtuosismo simile a quello che fa un quindicenne cresciuto con internet, che non solo ha una facilità maggiore di parlare le lingue rispetto a suo nonno ma riesce anche ad usare l’accento giusto. Allo stesso modo il virtuoso, col suo armamentario tecnico è a suo agio con tutti gli stili. Questa cosa sembra una sciocchezza, ma offre una metafora utile per paragonare i pianisti, oggi in piena maturità ma cresciuti in altre generazioni che in un certo senso continuano a parlare le lingue straniere goffamente o comunque con un forte accento, musicalmente parlando. Hanno una formula che usano un po’ per tutti; non vuol dire che le loro non siano interpretazioni valide, ma significa che non si antepone sempre lo stile singolo compositore alla personalità dell’interprete. I tempi in cui si contrapponeva il virtuosismo alla ricerca interpretativa per fortuna sono tempi ingenui e superati oggi, ma fino a qualche anno fa accadeva che a Maria Callas venisse chiesto se per lei fosse più importante la tecnica o l’interpretazione… domanda alla quale lei non poteva che rispondere “Ma che domanda è? Se uno non ha tecnica, come canta?”.
Ci sono due lati del virtuosismo, per spiegare il mio approccio: da un lato si riesce a non dover scendere a patti con le difficoltà meccaniche per dare un determinato carattere al pezzo, ed è la cosa più ovvia. E poi ci sono certi pezzi che sono fatti di materia preziosa, come la Saliera di Cellini. Lì il virtuosismo serve perché è proprio insito nella materia musicale. Quando Chopin scrive certe cose, o le scrive Mendelssohn per dire, tratta la materia virtuosistica come una pietra preziosa, e li cesella, gli da una forma.
Però c’è anche un lavoro a monte che va fatto, e anche solo nel concerto che aveva fatto per noi durante la quarantena, una sorta di “pomeriggio tipo” di un pianista, c’era anche una ricchissima componente di studi tecnici, persino l’Hanon (il maestro Libetta ha inciso anche diverse raccolte di studi di Pozzoli in disco, ndr). Oggi ci sono pianisti che si oppongono dichiaratamente a questo lavoro anche in fase di studio…
Si certo ma la mia era un po’ una canzonatura!
(per chi volesse godersi due ore di canzonatura, questo è il link)
Ma al di là del singolo concerto, spesso nelle sue condivisioni social scherza su Hanon o comunque si interroga e interroga il pubblico virtuale su questo studio e poi le sue applicazioni pratiche.
A monte c’è stato un lavoro di questo tipo: ma tutto ciò serve ad una cosa, a sdoganare la fisicità del suonare il pianoforte. C’è una sorta di ipocrisia di fondo, nel senso che si tende a dimenticare che il pianoforte si suona con le mani, non è una cosa puramente mentale e mentre ci sono pezzi di Beethoven e di Brahms che hanno a che fare con la difficoltà fisica del fare musica. Ci sono alcuni passaggi dove la difficoltà fisica non è neppure superata, a differenza del virtuosismo Biedermeier per esempio. La difficoltà di Beethoven e Brahms sta in una componente simile ai non finiti di Michelangelo, in cui la bellezza è nell’idea della difficoltà di superare la materia stessa, come nella musica sta nel passaggio critico sempre da sciogliere, per esempio.
Tra i miei amici ci sono moltissimi che lavorano nel mondo della danza: quando mi confronto con loro, mi affascina sempre che per loro il virtuosismo non è temuto o vissuto come una cosa meccanica. Si sa che il virtuosismo serve per fare le cose.
L’apoteosi della danza – di Libetta
Ma questo è legato alla natura “fisica” della danza oppure è l’approccio a monte che è diverso?
La cosa è questa: anche suonare uno strumento è eminentemente fisico, ma pochi se ne rendono conto.
Forse anche perché il pianoforte è meccanicamente più mediato rispetto a gran parte degli strumenti, ha un ponte tra interprete e il suono che ne vien fuori.
Sì, però in questo senso dal violino all’organo il rischio che lo strumento diventi sempre più macchinario e sempre meno amplificatore delle tracce gestuali di una vita psicologica cresce in una scala.
Al di là del virtuosismo, il suo rapporto con la danza ha un certo rilievo: addirittura in una vecchia intervista aveva affermato che vedendo uno spettacolo di danza aveva capito – cosa forse paradossale – di voler dire qualcosa con la musica. Non aveva deciso di intraprendere la strada del ballerino perché troppo grande, immagino…
Il succo della questione sta nel non dividere la natura delle cose: un conto è dividere, sezionare i singoli dettagli per studiare e capire come le cose sono fatte di dentro, un conto è separare le due materie. Questo vale tanto per i lavori che ho fatto con musica e danza ma anche nel lavoro di formazione. Se un musicista non ha mai accompagnato non tanto un singolo, ma anche un gruppo di danzatori, non ci si rende conto di quanto debba essere regolare il gesto e chiara la pulsazione. Il tunz tunz della discoteca non può avere un rubato, è inconcepibile per creare la sincronizzazione del gruppo. Quando un musicista fa un lavoro orchestrale o anche un valzer e non va a tempo per due battute di fila in nome di una fantomatica astrattezza o libertà espressiva rende poi impossibile “spiegare” questo lavoro ad un gruppo, è un assurdo. Nella musica delle origini musica e danza, il cantante e il ballerino erano le stesse persone, quindi occorreva una sorta di regolarità.
In questo senso dunque tutto quello che è il mondo della danza e del balletto spesso è profondamente legato alle problematiche musicali, indipendentemente da quello che si potrebbe pensare.
E lei ha affrontato il problema, oltre che da esecutore, anche dal lato del compositore proprio con dei balletti…
Sì, ed è incredibile quante cose si capiscano solo quando ti rimbocchi le maniche e ci metti le mani dentro. E questo vale anche per l’opera, per esempio, in cui si trova a confrontarsi con esigenze di drammaturgia differenti rispetto a quelle a cui sono abituati gli strumentisti o i gruppi cameristici. Però ognuna di queste cose in un certo senso si tiene la mano ma è diversa. E ci permette poi di approfondire: non capita spesso di studiare una cosa isolandola, magari nella speranza di eliminare le distrazioni. Al contrario, avere un approccio più universale ci permette di contestualizzare, inserire una cosa nel suo mondo.
Ho lavorato anche spesso in brani per pianoforte e danza, dove la coreografia è una parte fondamentale della musica. Progetti come quelli con Fabio Massimo Capogrosso, Orazio Sciortino (in cui i brani sono composti per pianoforte a quattro mani, fino a che il pianista-danzatore non inizia per l’appunto a danzare lasciando a Libetta l’onere pianistico per intero, nda) sono un esempio di come si possa fare del virtuosismo, anzi unire questi due virtuosismi insieme.
Dulcis in fundo…
A proposito della contestualizzazione: nel suo c’è una collaborazione molto atipica, il suo percorso parallelo con il Rap: parliamone.
Terenzio diceva: Homo sum, humanum nihil a me alienum puto. C’è chi riesce ad interessarsi di un solo argomento o di una cosa, ma in un mondo come quello del rap in cui c’è un aspetto musicale, o persino teatrale in senso lato, perché porsi dei confini? O meglio, uno si pone dei confini se vede che al di là di essi non c’è niente.
Questa cosa è nata in maniera molto semplice: per un’ora a settimana invitavo in Conservatorio dei rappresentanti di rap e dintorni per parlare con i ragazzi della mia classe di musica da camera per due motivi. La musica da camera è un momento in cui la capacità di stare insieme ed aggregarsi è fondamentale, capire quello che succede accanto, senza essere fissi su una propria idea e perseguirla ottusamente. Il rap è una forma in questo senso, assolutamente aggregativa. Poi, a differenza del pop, un rapper non può dire altro che non quello che è: è una musica in cui la sincerità del personaggio è molto meno convenzionale del pop generico.
Un altro dato interessante è quello del virtuosismo, tra l’altro. Una delle ultime volte in cui ho incontrato Vittoria Ottolenghi mi disse espressamente che ammirava la danza hip hop, per dire. Mi ha fatto notare come ci sono delle capacità vere, cose per cui non è che uno semplicemente si mette e lo fa, ma occorre un esercizio, una preparazione, una maturazione individuale che porta a determinati passi o le proverbiali giravolte sulla testa. Lei che ammirava una carica speciale di questo tipo di danza aveva organizzato a Roma, una decina di anni fa, un festival in cui mi aveva invitato per interagire con Inoki… questo per dire che non è che siano solo miei capricci queste fusioni.
Non a caso, nello stesso periodo in cui succedevano queste cose negli Stati Uniti si assegnava il premio Pulitzer per la musica ad un disco di Kendrick Lamar…
Esatto, è successo pochi mesi dopo l’inizio di questi incontri in Conservatorio: era un qualcosa nell’aria, non idee inusuali campate per aria e senza un parere. Non si tratta di avvicinare due mondi così distanti e metterli sullo stesso piano: è come mettere sullo stesso piano un Taglio di Fontana (che ha pure la sua tecnica e la sua ricerca dietro, intendiamoci) ad un quadro di Dürer, che è su un altro piano, è evidente. Comunque non essendo forzati a buttare dalla finestra una cosa per dover tenere l’altra, ma potendole tenere entrambe, ognuna può assumere un suo senso specifico e diventare interessante.
Ciliegina sulla torta: il pianoforte di Libetta a servizio di una traccia di Mad Dopa. Per i curiosi (e gli scettici) può essere interessante, per tutti gli altri resta una chicca da raccontare, quella del pianista che fa rap.