Barry Douglas
di Alessandro Tommasi - 26 Luglio 2019
un irlandese al Tchaikovsky
Nato a Belfast nel ’63, Barry Douglas è stato il primo pianista non russo a vincere il Concorso Tchaikovsky a Mosca, dopo l’esplosiva vittoria di Van Cliburn alla prima edizione, un successo che ha segnato l’inizio di una florida carriera segnata anche dall’organizzazione di progetti dedicati alla sua Irlanda, tra cui la Camerata Ireland e i CD dedicati alla musica celtica. Douglas è ormai per la terza volta in giuria del grande Concorso, abbiamo ritagliato il tempo di un’intervista tra una prova e l’altra.
Maestro Douglas, com’è tornare al Concorso Tchaikovsky dopo averlo vinto? Lo trova cambiato rispetto a quando lei era concorrente, nell‘86?
Sono tempi molto diversi rispetto a quando vi ho preso parte, ma l’accoglienza del pubblico e del comitato organizzativo era forte all’ora come oggi. Soprattutto il pubblico non è cambiato, anzi credo sia ancora più entusiasta! Abitanti di Mosca o della Russia intera, che viaggiano da lontano pur di venire a sentire questo concorso, perché sanno quanto sia importante per un giovane musicista e la sua carriera futura. D’altronde il Tchaikovsky è uno dei più importanti al mondo. Tornare qui mi ricorda quell’accoglienza e mi fa sentire un po’ a casa, per quanto il mio ruolo comporti una seria responsabilità. Ma almeno non sono più io a dover andare sul palco e suonare per la giuria!
Lei ha molti progetti dedicati ai giovani musicisti, in Irlanda…
Esatto! Purtroppo in Irlanda non c’è un conservatorio: abbiamo ottime scuole di musica e ottimi insegnanti, ma io volevo creare un trampolino di lancio per giovani musicisti, in modo che venissero a contatto con masterclass o invitandoli come solisti della mia orchestra, la Camerata Ireland, o attraverso il Festival o dando loro numerose possibilità di suonare in giro per l’Europa. Insomma funzioniamo un po’ come una piccola agenzia che lavora anche come colleghi e mentori. Abbiamo un numero molto ridotto di ragazzi, selezioniamo 150 giovani musicisti che arrivano per il Festival ogni anno.
Questa sua iniziativa ha anche la caratteristica di coprire l’intera Irlanda e non solo il nord: pensa che cambieranno le cose con l’imminente Brexit?
Credo che i progetti pan-irlandesi, come quelli turistici o alcuni culturali tra cui la mia orchestra, saranno ancora e ancora più importanti. Perché se, Iddio non voglia, dovessero rimettere un confine tra nord e sud, questo produrrà risentimento e rabbia e nessuno sa cosa potrà succedere in seguito. È importante per noi musicisti mantenere vivi i collegamenti e preservare l’armonia in tutta l’Irlanda. Credo fermamente in un’Irlanda che sia vicina e unita: mia madre veniva dal sud, mio padre dal nord e io sono parte di entrambe. La mia orchestra è anche un simbolo e spero una fonte d’ispirazione, non a caso è stata fondata esattamente dopo il Good Friday Agreement, come reazione e per celebrare l’accordo. Non mi aspettavo che sarebbe durata vent’anni, ma eccoci qui!
Maestro Douglas, Lei è anche un araldo della musica irlandese e della musica celtica, come sono nati questi progetti?
Con i due progetti discografici per Chandos e il terzo che sta arrivando, il senso è di mostrare i collegamenti della musica celtica in tutta Europa, dalla Romania alla Spagna attraverso Svizzera, Francia e poi ovviamente Scozia, Galles, Irlanda, fino all’America, tutte le popolazioni in cui la musica e la cultura celtica hanno lasciato un segno: un’ulteriore dimostrazione di quanto siamo connessi e come anche i mondi antichi lo fossero. Per quanto riguarda la musica irlandese, è molto interessante in quanto molta della musica del tardo XVII primo XVIII secolo è piuttosto simile alla musica barocca, c’è un tema che assomiglia moltissimo a quello delle Goldberg e canzoni che ricordano arie di Händel. Cosa che denota uno scambio più forte di quanto non si potesse pensare tra musica popolare e musica colta Poi ovviamente ci sono state delle divergenze, d’altronde era tutta musica tramandata per via orale, nessuno scriveva niente. Questo finché non fecero un grande festival dell’arpa in Irlanda ed Edward Bunting trascrisse tutto, per fortuna, altrimenti non avremmo niente. Da lì ha preso il via tutta una nuova tradizione.
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Tornando al Tchaikovsky, quale pensa debba essere invece il ruolo di un concorso così importante?
Trovare il talento, il giovane artista che vuole davvero fare qualcosa di importante con la musica e dargli tutto il supporto necessario. Non è solo dargli soldi, un po’ di concerti e poi dirgli «Va’, adesso sono affari tuoi». I talenti devi seguirli, coltivarli, dar loro supporto: e penso che il Maestro Gergiev stia facendo un lavoro eccellente sotto questo aspetto, oltre a dar loro occasioni con l’Orchestra del Marinskij. Il dopo concorso è ancora più importante del concorso stesso. Non possiamo fare le decisioni per loro, ovviamente, ma siamo tutti lì a loro disposizione, non solo l’organizzazione ma anche la giuria intera: questo è reso ben chiaro a tutti i partecipanti.
E come si fa a capire quando si incontra questo tipo di talento?
Il mio codice personale è: se mi muove, se sento l’emozione in un modo molto profondo, allora do loro la spunta. Perché è questo ciò che conta in musica, è ciò che conta in arte. Quando entri in una galleria d’arte e vedi un quadro che ti fa improvvisamente fermare, ti si aprono gli occhi, rimani senza fiato, allora è grande arte. Se vedi qualcosa che sì, tecnicamente è molto ben realizzato e tutto è fatto bene, è bello, possiamo ammirarlo, ma non ti dice nulla, allora non è arte: arte è espressione, è comunicazione tra esseri umani.
E non pensa che possa essere molto soggettivo?
Certo, difficilmente concorderemo su tutto, ma credo che ci sia intesa sui nomi più forti e su quelli che non sono ancora pronti. Poi avremo occasione di parlare e discutere sui concorrenti più a metà, perché sicuramente ci saranno dei nomi per cui servirà, e Denis Matsuev in qualità di Presidente della Giuria avrà poi la parola finale in caso di punteggi simili. Anche se Rubinstein era solito dare o 0 o 10 quando sedeva in giuria, affermando che «O sai suonare il pianoforte o non lo sai suonare».
Maestro Douglas, voi giurati siete nella sala e potete percepire l’atmosfera creata dal musicista e come reagisce il pubblico. Ne tenete conto?
Credo che si debba tenere in conto cosa pensa il pubblico, d’altronde lo senti e, come dici, percepisci l’atmosfera che si crea. Ma noi della giuria abbiamo un dovere come musicisti, conosciamo intimamente i brani che vengono suonati, sappiamo cosa significa stare su un palco e possiamo dire già da come camminano verso il pianoforte, come suoneranno. Quindi la reazione del pubblico è importante, ma poi il verdetto spetta a noi.
Alessandro Tommasi