Conversazione a sei con il Sestetto Stradivari
di Marica Coppola - 25 Gennaio 2020
Intervista profonda
Nata dall’incontro degli archi più prestigiosi dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, quella del Sestetto Stradivari è una realtà musicale che nasce circa vent’anni fa da un evento casuale per poi determinarsi in maniera sempre più autonoma. Dopo numerose tournée nazionali e internazionali, il Sestetto si prepara in questi giorni ad affrontare il suo primo tour in Germania, dedicato al 100° anniversario dalla nascita di Piero Farulli, che prevederà ben diciannove concerti in soli 21 giorni. Per il pianista e musicologo Julio Cèsar Huertas “Qualsiasi elogio è insufficiente per rendere giustizia ai meriti di ogni strumentista ” di questo ensemble. Ecco come i sei musicisti si sono raccontati a Quinte Parallele, durante una pausa dalle loro prove nei pressi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Il Sestetto Stradivari si è formato nel 2001 da un evento occasionale, il concerto per la mostra “L’arte del violino” a Castel Sant’Angelo. L’anno prossimo questo vostro progetto compirà venti anni. Cosa del Sestetto Stradivari pensate che sia cambiato e cosa invece è rimasto uguale, dal 2001 ad oggi?
Diego Romano: Innanzitutto, negli anni sono cambiati alcuni elementi del gruppo. Tuttavia, ciò che da sempre ha caratterizzato il Sestetto Stradivari è l’attenzione a una profonda espressività che contraddistingue il nostro modo di suonare, e che intendiamo ricavare sempre a partire da un lavoro sul suono. Mi piace definire questo approccio come un’eredità tutta italiana della nostra scuola d’arco. Tornando poi a parlare degli elementi dell’ensemble, collaborare con nuove personalità artistiche non può che essere motivo di crescita: questo lo abbiamo già sperimentato con l’Orchestra.
In effetti il Sestetto Stradivari è un vero e proprio ‘estratto’ dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Nel 2001 il direttore musicale stabile dell’Orchestra era ancora Myung-Whun Chung. Poi qualche anno dopo, dal 2005, è subentrato Antonio Pappano. In che maniera questo cambiamento, che vi ha coinvolti direttamente in quanto orchestrali, si è riflesso nel vostro modo di fare musica con il Sestetto?
Raffaele Mallozzi: Durante il periodo in cui il maestro Chung ha diretto la nostra Orchestra abbiamo affrontato una serie di criticità dovute a molti cambiamenti che hanno riguardato dall’interno l’Orchestra stessa. Chung è sempre stato attentissimo all’aspetto del controllo tecnico. Quando è arrivato Pappano è come se si fosse aggiunto un ‘surplus’ di espressività al nostro modo di suonare… e devo dire che anche il nostro carattere nel modo di far musica col Sestetto si è evoluto parimenti a ciò che stavamo acquisendo con l’Orchestra. Sia chiaro: non intendo dire che prima fossimo stati privi di intenzione espressiva e troppo concentrati sull’aspetto meramente tecnico dell’esecuzione, ma con l’arrivo di Pappano è come se fosse avvenuto un completo bilanciamento tra questi due aspetti della musica in tal senso. La prova di ciò è che l’Orchestra è diventata sempre più importante dal punto di vista del panorama internazionale durante questi anni con Pappano: quindi la mia risposta è affermativa, il Sestetto è cresciuto e continua a crescere in seno all’Orchestra.
La formazione da camera del sestetto è tuttavia particolare: gli strumenti dal registro medio-grave si trovano a prevalere dal punto di vista numerico sugli altri . Quale deve essere l’abilità dei due violini quando nello specifico si trovano a suonare in sestetto? In che maniera è indispensabile che lavorino?
Marlène Prodigo: Mi piacerebbe partire da una differenza sostanziale che si pone tra il questo ensemble e il quartetto d’archi. La mia parte di secondo violino all’interno del sestetto è sicuramente molto più ricca dal punto di vista della scrittura musicale rispetto alla parte di un secondo violino di quartetto. I passaggi solistici prevalgono rispetto a quest’ultima, e già solo per questo il mio modo di suonare è molto più esposto. Per quanto riguarda la presenza di un registro grave indubbiamente consistente nel sestetto d’archi, intendo personalmente questo aspetto dell’ensemble come una potenzialità dal punto di vista dello studio sul suono: ho la possibilità di ‘scavare’ molto di più nella corda, di poter sfruttate tutta la profondità dell’emissione sonora del violino senza dovermi mantenere ‘leggera’ nel suonare… Questo è un aspetto di ricerca fondamentale: il fatto che il registro medio-grave prevalga numericamente non può che essere un aiuto a questo tipo di lavoro sul suono.
David Romano: In quanto due violini, io e Marlène oltre ad un lavoro comune a qualunque gruppo da camera come quello sull’intonazione e sul fraseggio abbiamo l’esigenza di essere molto equilibrati a vicenda in base alla tipologia di suono che ogni brano ci richiede. Non è mai una questione di dover ‘bucare’ la massa sonora più grave, poiché armonicamente, e soprattutto dal punto di vista della potenza di volume, questa è nettamente superiore…
David, ci può fare un esempio pratico di ciò?
David Romano: Recentemente ho suonato lo studio per 23 archi solisti di Richard Strauss , le Metamorfosi, ed è stato fondamentale utilizzare proprio questo tipo di approccio: in quest’opera il suono è concepito come qualcosa che più che funzionare per amalgamazione delle voci va per sovrapposizione di esse. In Sestetto accade spesso che il suono di Marlène sia la mia ricchezza sostanziale, che io tendo a completare, così come fa una punta di diamante su un oggetto prezioso: senza la massa sonora di base del secondo violino il mio suono risulterebbe vuoto, proprio perché i bassi sono predominanti in numero nel sestetto. Per tornare al paragone con il quartetto, un’altra differenza fondamentale tra il sestetto e questa formazione è che noi necessitiamo di un grandissimo lavoro di concertazione: chiaramente non perché questo non sia stato già fatto dal compositore, ma perché la nostra necessità è quella di comprendere sempre quali parti mettere in risalto di volta in volta, cosa che non sempre emerge direttamente – sia questo per naturale gratificazione sonora di alcune voci a scapito di altre, per motivi di scrittura, o perché il sestetto è sempre stato utilizzato come forma sperimentale. Ad esempio, l’Op. 36 di Brahms ha una tessitura delle voci molto densa: quello che noi facciamo è calibrare le posizioni che ognuna delle nostre voci deve avere, affinché la panoramica dell’ascolto possa essere quanto più pulita possibile.
David Bursack: Sono d’accordo con David nel ritenere che il sestetto sia di per sé una formazione cameristica sperimentale, difatti anche il repertorio d’esordio di quest’ensemble è alquanto ridotto. Io definirei il mio ruolo di seconda viola all’interno del sestetto, insieme a quello del secondo violino, come di supporto: non nel senso di una gerarchia che ci vede sottoposti agli altri, bensì siamo il vero e proprio sostegno ritmico e armonico dell’ensemble, delle vere e proprie colonne portanti in tal senso. Il registro medio, cuore della timbrica del sestetto, ha il dovere di svolgere un meticoloso lavoro d’intonazione… e ciò non significa riprodurre una nota in maniera matematicamente esatta dal punto di vista della sua altezza: dobbiamo saper calibrare perfettamente e istantaneamente la nostra emissione ed espressività sempre in base alle altre voci. Ciò accade soprattutto nei grandi classici della tradizione, come in Brahms.
Passiamo adesso ai vostri prossimi impegni. Dopo la tournée con l’Orchestra dell’Accademia in Germania, in cui suonerete con Janine Jansen solista un programma che prevede musiche di Beethoven, Mendelsshon e Schumann, il tour procederà con il Sestetto Stradivari come un continuum nell’arco storico-musicale del repertorio suonato con l’Orchestra – eseguirete Brahms, Tchaikovsky, Strauss e Schönberg. Il Capriccio di Strauss è del 1941: quest’opera, di cui suonerete l’Overture, ha subito nella sua genesi il clima della repressione nazista. Che peso ha per voi proporre una musica di questo tipo in una tournée interamente tedesca, che toccherà una città come Dachau?
Sara Gentile: Credo che nell’epoca in cui viviamo la Memoria abbia un’importanza imprescindibile, in quanto eredità umana, culturale e soprattutto storica: questa è una questione fondamentale, di grande attualità soprattutto per le ultime generazioni che non hanno in alcun modo vissuto l’Europa in tempo di guerra. Ancora oggi siamo testimoni di nuove e sconfortanti ondate discriminatorie, che colpiscono sempre le porzioni più fragili ed indifese della società. Congiungere a ciò un pezzo di storia della musica come il Capriccio di Strauss, per poterlo suonare a Dachau, è un ponte che collega passato, presente e futuro: un richiamo fortissimo a ricordare chi siamo, da dove veniamo, di quale storia siamo figli. Questa è una possibilità che si compie attraverso una musica fortemente evocativa, dai tratti delicati ma intensi, in cui Strauss si rivela definitivamente in quanto identità artistica e musicale, dichiarando quest’opera come suo testamento nel genere operistico.
Marlène Prodigo: Vorrei aggiungere che daremo particolare peso alle percezioni che proveremo direttamente nei luoghi in cui saremo. Non si tratta di capire soltanto l’atmosfera con la quale entreremo in contatto: è chiaro che ogni sala di ogni città in cui suoniamo evoca in qualche modo sensazioni da tradurre in musica, ma la questione è più profonda. Bisogna essere veramente pronti ad accogliere, prima che a dare. Solo attraverso quest’apertura possiamo davvero recepire ciò che ci arriva, per poi tradurlo in musica. E non c’è dubbio che, in un posto come Dachau, si tratterà di evocazioni uniche.
David Romano: In effetti ci troviamo ancora una volta di fronte a un punto di congiunzione che è una particolare coincidenza… con il Sestetto questa è la nostra prima tournée in Germania, e tranne Tchaikovsky e Boccherini suoneremo tutta musica tedesca proprio nella patria della musica da camera! Affrontiamo il padre per eccellenza di questo genere che è Brahms, per poi proseguire con Strauss e per finire Schönberg, che seppur viennese può rientrare in questa medesima area di appartenenza culturale. Unendomi al discorso di Marlène, ribadisco che noi saremo pronti a ricevere prima che a dare: il risultato finale di un concerto non è il ‘clapping’, ma è quello che accade a livello di vibrazioni interiori tra noi e il pubblico.
David, ci racconta qualche aneddoto a tal proposito, inerente le scorse tournée?
David Romano: Ricordo che quando siamo stati in tour in Sud America ci siamo trovati a suonare in una piccola cittadina in Argentina, San Juan. L’auditorium era piuttosto ampio, per cui non c’era praticamente possibilità di avere un grandissimo contatto col pubblico. Eppure, all’uscita del ristorante in cui cenammo fummo investiti dal calore di una quantità di persone che sentirono il bisogno di raccontarci quanto era arrivata loro la nostra maniera di suonare: questo significa creare empatia ad un livello umano, che sorpassa il mero ruolo di interpreti.
Collegandoci al discorso sull’interpretazione, vorrei prendere come modello Verklärte Nacht di Schönberg, brano ormai consolidato nel vostro repertorio. La musica di quest’opera, che è possibile definire un poema sinfonico, non è strettamente descrittiva del testo della poesia di Dehmel: è una musica che, più che rincorrere la parola, evoca direttamente delle presenze, da quelle testuali (i due amanti, la luna, il bosco) a quelle umane (le voci di Dehmel e Schönberg che sembra veramente di percepire tra le pagine del brano). Che posto hanno le vostre specifiche identità di artisti all’interno di un gioco narrativo così complesso?
David Romano: La prima volta che abbiamo suonato Verklärte Nacht risale a molto tempo fa; abbiamo affrontato poi questo brano in maniera gradualmente diversa dopo averlo eseguito per la trasmissione televisiva di Rai 3 “Inventare il tempo”, il cui principio era raccontare il pezzo. Successivamente abbiamo inciso un disco con questa musica, che comprendeva anche Tchaikovsky: questo lavoro è arrivato ai Grammy, fu dunque una cosa che ci prese in maniera particolare. Quando siamo in concerto in Italia abbiamo spesso la tentazione di leggere la poesia prima di suonare, per facilitare l’orientamento del pubblico dal punto di vista dell’ascolto… ma in realtà mi trovo molto d’accordo a ciò che dice: il brano non è tanto un’evocazione testuale, quanto piuttosto una descrizione emotiva. Abbiamo studiato e continuiamo a studiare moltissimo questo brano; tuttavia, tolti alcuni punti critici che di volta in volta vanno affrontati specificamente, la chiave per una corretta interpretazione di Verklärte Nacht è sorpassare il testo musicale per andare al livello emozionale, e questo si costruisce in assoluto soltanto davanti al pubblico, nel momento in cui è d’obbligo oltrepassare quei vincoli strumentali vertiginosamente difficili. Poi, chiaramente, il punto nodale del brano è la famosa ‘trasfigurazione’, dove dalla tonalità minore attraverso l’innalzamento di una terza del violoncello si passa a quella maggiore: è proprio lì che avviene anche una nostra trasfigurazione in quanto interpreti del brano.
Senza una raffinata intuizione artistica è quindi impossibile rientrare all’interno di quella che sembra essere una punteggiatura emotiva non direttamente espressa in partitura…
David Romano: E’ proprio così. Il brano inizia in un’atmosfera oscura: la seconda viola e il violoncello evocano l’incedere delle due persone descritte nel testo di Dehmel, e su quest’idea ciò che armonicamente viene sviluppato è un timbro estremamente notturno. In quel momento noi siamo costretti a scavare all’interno della nostra identità alla ricerca del nostro lato più oscuro di individui, prima che interpreti. Diversamente, nel momento in cui c’è la manifestazione della trasfigurazione, ci sentiamo effettivamente più leggeri. E’ una musica che da un punto di vista emotivo ci costringe a questa congiunzione tra la nostra essenza umana più profonda e l’interpretazione artistica. Faccio un esempio pratico: potremmo decidere senza problemi di suonare il Sestetto di Brahms Op. 18 n. 1 “La primavera” scegliendo di essere bui… ma è praticamente impossibile suonare Schönberg come se fosse una canzonetta!
Venendo invece al panorama della musica contemporanea mi rivolgo a David Bursack, che ha collaborato con compositori del calibro di Cage, Gubaidulina, Xenakis, Babbit. Innanzitutto sarebbe interessante conoscere se, dal suo punto di vista di esecutore, individua caratteri comuni nella scritture novecentesche per sestetto.
David Bursack: Prima ho accennato al ruolo del registro medio del sestetto nella musica di Brahms. Parlando adesso del sestetto nel Novecento, e pensando in particolare ai brani di Martinů e di Korngold per questa formazione, il discorso cambia nettamente rispetto a ciò che ho prima espresso: in questo caso ci si riferisce ad una musica in cui tutte le 12 note sono fondamentali, e dove non c’è gerarchia tra le une e le altre. Di conseguenza anche tutte le sei voci del sestetto possono interagire alla pari. In verità si può dire che ciò accade già nella scrittura di Tchaikovsky, laddove le sei identità musicali iniziano ad emergere in maniera indipendente, non secondo una partizione di tre più tre. Ma, più specificamente, è andando a quel tipo di sestetto inteso ad esempio da Max Reger che ci rendiamo conto veramente di quanto la direzione di quest’ensemble stava cambiando rispetto alla musica di tradizione, ad un livello specifico di orchestrazione delle parti. È la stessa cosa che succede in Verklärte Nacht: la voce principale del dialogo può essere mia, per poi passare equamente al primo o secondo violoncello, e dal primo e secondo violino ritornare alla viola. Indubbiamente è una liberazione poter interagire da solisti in questo modo, differentemente dal quel ruolo che il registro medio del sestetto ricopre nel repertorio cronologicamente precedente.
Quale direzione del panorama musicale contemporaneo vi proponete di seguire attraverso il repertorio del Sestetto Stradivari?
David Romano: Al momento abbiamo già eseguito tanti compositori contemporanei: molti si sono rivolti in primis alla nostra formazione per eseguire la loro musica. Andando a ritroso, abbiamo suonato in prima assoluta un brano di Riccardo Panfili, poi uno di Fabio Massimo Capogrosso, successivamente musiche di Alessandro Cuozzo, Alessandra Bellino e Matteo Musumeci… non ci poniamo limiti di ‘direzione’ in tal senso.
David Bursack: Per ciò che mi riguarda, mi ritengo molto fortunato ad aver incontrato importantissimi compositori della scena contemporanea in vita – come quelli che Lei ha precedentemente citato – che mi hanno proposto di suonare i loro brani. L’attenzione alla musica contemporanea non è tuttavia solo una mia propensione: in quanto Sestetto Stradivari, più compositori incontriamo che vogliano interagire con noi facendoci suonare la loro musica, più questa si dimostra un’occasione di crescita che non riguarda solo noi in quanto interpreti, ma investe anche gli stessi brani proposti, che nel giro di pochi anni potrebbero essere suonati da altri e di cui con onore noi potremmo fungere da riferimento per le successive esecuzioni. Ad esempio, lo scorso anno abbiamo dato con il Sestetto la prima assoluta di un pezzo di Riccardo Panfili, con il quale abbiamo lavorato in maniera divertente ma allo stesso tempo educativa per noi stessi. Per fortuna oggi ci sono tanti compositori che scrivono per sestetto: personalmente, mi piacerebbe prima o poi eseguire Ittidra di Xenakis, scritto nel 1996. Inoltre siamo al momento in contatto con diversi compositori che stanno scrivendo altri sestetti per noi: aspettiamo soltanto di ricevere presto la buona notizia che questi brani siano pronti!
Marica Coppola