Alexander Lonquich, un ritratto e un incontro
di Filippo Simonelli - 6 Settembre 2020
Un profilo di e una conversazione con Alexander Lonquich, pianista e intellettuale interamente al servizio della musica e dei suoi mondi paralleli
Ho conosciuto Alexander Lonquich da ascoltatore con un suo disco schubertiano, alcuni anni fa. Il pianista, tedesco di nascita ma ora stabilitosi in Italia, a Firenze, è decisamente a suo agio con la musica del compositore viennese ma in generale si percepisce con tutto il grande repertorio cameristico austrotedesco una familiarità nell’approccio e nella profonda simbiosi con il linguaggio che danno l’impressione che riesca tutto facile. Naturalmente le cose non stanno così: accanto ad una spiccata indole musicale c’è stato un grande studio che lo ha portato ad affermarsi come virtuoso già dai 16 anni, quando vinse i primi grandi concorsi. Gli elementi per costruire un’immagine stereotipata di enfant prodige poi maturato in un intellettuale della tastiera, un po’ come una personalità di altri tempi, abbonderebbero ma sarebbe come fare un torto ad una figura decisamente più sfaccettata e perfettamente inserita e partecipe al contesto artistico di oggi.
Accanto al repertorio più tradizionale che ha affrontato sia come pianista che in formazioni cameristiche, Lonquich per esempio ha iniziato con gli anni ad affrontare programmi insoliti costruiti con gran gusto: non dimenticherò mai ad esempio l’elenco sterminato dei brani del suo recital alla IUC di due anni fa, in cui eseguì 19 brani scritti da 15 compositori diversi, ultimo dei quali le variazioni Diabelli di Beethoven, non esattamente una passeggiata: tra questi compositori, che abbracciano più di due secoli di storia della musica da Carl Philipp Emmanuel Bach fino a Stefan Wolpe, morto nel 1972, passando per brani insoliti di Schumann e persino composizioni di Adorno. Per chi fosse curioso, il programma integrale è disponibile qui; purtroppo non mi risulta che esistano registrazioni.
Lonquich eclettico
Una persona che parta con questi presupposti finisce per diventare necessariamente eclettico: Lonquich mischia in maniera più o meno esplicita un substrato di discipline tangenti o parallele alla musica nella sua lettura ed interpretazione della musica che probabilmente colpisce fin dal primo impatto l’ascoltatore. Ma questo suo appetito trova risvolti anche nell’ambito didattico: Lonquich ha tenuto lezioni e masterclass con regolarità durante la sua carriera, arrivando ad aprire un proprio progetto didattico a Firenze, il Kantoratelier, prima di essere nominato pochi mesi fa alla guida della scuola di Fiesole. Il Kantoratelier è interessante per vedere messa in pratica la poliedricità di Lonquich: uno spazio in cui si intrecciano e convivono arte, psiche, musica e teatro, indicate significativamente in quest’ordine nel sito web dedicato, forse proprio a voler indicare che nonostante la formazione di Lonquich (che non è la sola anima dell’Atelier) la musica accetta di buon grado di comunicare con le altre discipline. E questo è uno degli aspetti fondamentali del Lonquich-pensiero, plastificato in un’intervista concessa all’edizione fiorentina di Repubblica il cui titolo recita “voglio uomini colti, non solo musicisti”. Ma su questo punto si tornerà più avanti direttamente con le parole del Maestro; per chi volesse, l’intervista di Repubblica è reperibile qui.
Un altro degli aspetti più significativi della figura pubblica di Lonquich, almeno all’occhio di chi scrive, è la sua presenza sui social network. Un musicista che faccia uso di Facebook o Instagram non fa notizia da tempo, come più o meno qualsiasi tipo di professionista, e il pianista nativo di Treviri non fa eccezione in questo. A differenza di altri suoi colleghi, più o meno celebri, fa un utilizzo che potremmo definire più intellettuale e al tempo stesso quasi didattico della sua piattaforma, su cui pure è generalmente molto attivo: raramente troverete selfie o anche solo foto di scena del Maestro al pianoforte, e ancor meno pubblicità. Spesso chi si imbatte sulla bacheca di Lonquich finisce rapito da discussioni sulle agogiche di Beethoven, su questo o quel testo di filosofia o su un argomento di attualità, discusso sempre con la massima educazione, cosa che non fa mai male.
In pratica, il profilo di Lonquich (e non una pagina, quindi priva di intento pubblicitario o dell’ambitissimo bollino blu con cui il social suggella l’autenticità di una presenza pubblica online) è uno dei rari luoghi virtuali in cui si può andare per imparare qualcosa. Perché è importante, o almeno utile tenere a mente questo fatto? Non certo per tessere le lodi di un musicista oramai affermatissimo, quanto per rinvenire un punto di contatto tra il Lonquich fuori dal palcoscenico e il Lonquich artista – distinzione che in questo caso è veramente minima – che rivela un atteggiamento che poi innerva l’approccio del pianista al pentagramma o del direttore alla partitura. E che non manca di condizionare anche i suoi lavori più recenti in studio con Nicholas Altstaedt o quello in programma a Santa Cecilia il 4 settembre, in cui da direttore ed esecutore si lancerà in un programma interamente Beethoveniano. Programma che funge da punto di partenza per la nostra conversazione:
A tu per tu col Maestro: Beethoven, didattica e ingegneri del suono
Come ci si trova a lavorare gestendo un intero programma sia da direttore che da pianista? Si tratta di un lavoro piuttosto impegnativo, visto che in due brani dovrà fare un gran lavoro da solista (quarto concerto e fantasia corale, ndr).
Mi piace molto dirigere e suonare insieme, e dopotutto è una pratica che storicamente risale a quando non era ancora affermata la figura del direttore d’orchestra come la conosciamo oggi. Ancora all’epoca di Beethoven il solista e la spalla lavoravano per mandare avanti l’orchestra e si aveva forse di più l’impressione di suonare insieme, come se fosse musica da camera allargata ad un organico più grande.
Però c’è una differenza, nella preparazione di un brano da solista e uno in cui si dirige solamente…
Sì, certamente, anche se il programma di questo concerto prevede una sola opera breve – il Coriolano – in cui dirigo, mentre il resto è un montaggio da solista-direttore. Questo significa che molto spesso l’orchestra non può ricevere segnali chiari e quindi si deve adattare ad una specie di modalità cameristica. Poi questo funziona con orchestre come Santa Cecilia, che conoscevo già e che è estremamente malleabile, capace di gestire gli impulsi che do più che seguire un gesto direttoriale.
Oltre alla ripresa sul versante sinfonico, per quanto atipico come questo, ci sarà anche un nuovo impulso alla sua attività cameristica?
È difficile a dirsi, purtroppo dopo il Covid la stagione è stata interamente da reinventare: molte stagioni sono diventate dei veri e propri cantieri in costruzione, per intenderci. Continuo molto spesso a suonare con Nicholas Altstaedt al violoncello nelle sonate di Beethoven, che abbiamo inciso di recente; lavoro spesso anche con Carolin Widmann, che ritroverò presto anche a Mantova per Trame Sonore. Sono felice che mi capiti spesso di suonare anche del repertorio meno frequentato come il Quintetto di Faurè o opere del Novecento, oppure di lavorare con il Festival di Musica da camera di Lockenhaus, in Austria, al quale ho partecipato quest’anno e dove tornerò l’anno prossimo, sempre con programmi molto stimolanti. Ma per il resto la stagione continua ad essere interamente in allestimento.
Si parlava di cantieri e progetti in costruzione: cosa ci può dire riguardo alla Scuola di Fiesole, dove ora è fresco di nomina e di fatto il padrone di casa?
Ovviamente anche lì siamo condizionati moltissimo dalla situazione: per dire qualcosa con certezza vorrei aspettare che la situazione si sia normalizzata, e per normalizzata intendo quando si potranno per esempio organizzare di nuovo concerti con una grande orchestra. In questo momento per esempio l’Orchestra Giovanile Italiana può suonare solo d’estate, visto l’autunno che ci aspetta. Detto questo, mi interesserebbe molto in questa scuola, che trovo già perfetta con questa grande organizzazione che copre dalla più tenera infanzia fino alla maturità più completa di un musicista. Mi piacerebbe lavorare all’interazione dei vari dipartimenti l’uno con l’altro, per rafforzare l’idea comunitaria che è presente nella scuola fin dai tempi di Farulli; ogni volta renderla attualizzata e adeguata al momento storico che stiamo vivendo.
Può suonare un po’ fumoso quello che sto dicendo? Perché in effetti lo è, ma devo entrare prima nella scuola per poter dire effettivamente quello che penso, altrimenti faccio fatica a parlare di precisi interventi adesso.
Però un’esperienza didattica già ce l’ha avuta, anche a livello di gestione, con il Kantoratelier.
Certamente: lo scorso anno per esempio abbiamo lanciato un progetto chiamato Daedalus – L’artista da giovane, in cui abbiamo tentato, pur dando un grande peso all’approfondimento musicale, di dare uno sguardo a cosa può essere il teatro per un musicista, cosa può essere la psicologia o lo sguardo per andare verso discipline più moderne come il videomaking. Appena potrò lavorare di nuovo per programmare progetti a lungo termine a Fiesole; per esempio lavorare a delle opere da camera, come nel caso di alcune di Britten che sono veramente cameristiche e potrebbero funzionare senza direttore, per far entrare la musica dentro il teatro e viceversa, facendo convivere i due mondi insieme.
https://www.facebook.com/kantoratelier/videos/354570181947130
A proposito del gusto di Lonquich per il videomaking: in questo video le ultime sonate di Schubert si fondono a meraviglia con le immagini cesellate da Duilio Meucci e la spiegazione musicale del Maestro. Giudicate voi il risultato di un trailer del genere
Non a caso nella sua prima intervista dopo la nomina a Fiesole ha dato subito rilievo all’importanza della formazione non musicale per i musicisti e anche di quella musicale per le altre professionalità…
Si, assolutamente. Abbiamo persone, magari bambini che si sono appassionati alla musica a 5 o 6 anni, che nell’adolescenza vanno poi indirizzati: c’è chi è nato o può diventare solista, chi può fare il Maestro accompagnatore e magari diventare direttore d’Orchestra e così via. E questi secondo me sarebbero tutti sbocchi validi per un pianista. Penso che sia molto importante che tutti gli allievi scoprano nel tempo cosa li attira veramente nel mondo della musica, non si può fare tutto: e noi dobbiamo monitorare il loro percorso di sviluppo per indirizzarli verso questa o quella strada o eventualmente aiutarli a cambiare, se necessario.
Quindi musicisti specializzati, in un certo senso.
Sì ma attenzione: specializzarsi non vuol dire non avere una formazione completa, una cultura storica, filosofica; significa essere consapevoli che non si può fare tutto, questo è molto importante. Ci troviamo poi a persone che sono in grado in teoria di fare tutto, ma non riescono poi a decidersi e a sbloccarsi in un percorso vero e proprio. E poi ci sono ancora altri casi, come persone che io ho conosciuto, di musicisti che dopo aver completato il loro percorso si sono scoperti dei magnifici ingegneri del suono: e quanto può essere importante, per un ingegnere del suono non solo saper distinguere una nota giusta da una sbagliata, ma anche capire qual è la direzione dell’artista in modo da poterci dialogare e poterlo poi indirizzare nella resa tecnica di cui si occupa. E i risultati si vedono. Ora, non è che tutti devono diventare ingegneri del suono, ma è un esempio di come siano vaste le prospettive di un musicista rispetto a quelle che uno può immaginare quando inizia i propri studi.
Giriamo la prospettiva di nuovo, per concludere: nella sua esperienza invece come hanno influito le sue conoscenze extramusicali nella costruzione della sua identità musicale, nella scelta delle interpretazioni o in generale nel suo approccio da interprete?
Posso fare un esempio tratto dal ricchissimo campionario di incisioni del primo Novecento che abbiamo: sentiamo per esempio che la lettura fedele, all’epoca, presumeva altri fattori rispetto a quelli che teniamo presenti noi. Quattro crome per un pianista di oggi devono avere tendenzialmente la stessa rubata, ma per un pianista dell’epoca poteva esserci un ricco rubato, magari ispirato a prassi della musica popolare. Nella Sonatina di Bartòk il compositore indica alcuni passaggi di sedicesimi che poi lui stesso suona in tutt’altra maniera. Queste sono delle conoscenze che è necessario avere, e che si percepiscono mettendo la musica in una prospettiva storica. Altrimenti non sarebbe spontaneo magari porsi certe domande, ma così ci limiteremmo ad avere tutti un linguaggio standard, mentre ogni compositore parla a modo suo, come se ciascuno avesse un dialetto personale.