A colloquio con Filippo Gorini
di Valerio Sebastiani - 8 Dicembre 2019
l’interprete rivelato
Inizierei con un focus sui brani in programma. Sono tre composizioni caratterizzate dal carattere libero, quasi improvvisativo, della “fantasia”. Dalla ricchezza di tensioni e di silenzi espressivi della Fantasia in Re minore di Mozart, passiamo alla Sonata Fantasia in Sol Maggiore di Schubert, che tende a conciliare la perfezione formale della forma sonata con la liricità intimista del lieder. I Kreisleriana invece è sono concepiti come un ciclo di racconti frammentistici, dove la forma temporale è offerta dall’alternanza di segmenti autonomi, che rappresentano definitivamente l’esaurimento della “grande narrazione” sonatistica. Sei d’accordo con questa lettura? Qual è secondo te il fil rouge che lega le composizioni in programma?
Il tema principale che conduce il programma che ho congegnato specificatamente per questo concerto, dove lo suono per la prima volta in questa forma, è esattamente la fantasia. Quel mondo dell’immaginazione, dell’intelletto, del pensiero e anche quella forma che nei secoli è presente – a partire dal Barocco – e che assume significati e connotazioni diverse, in ogni momento della Storia in cui capita. La volontà di eseguire un programma da concerto dedicato alla Sonata e alla Fantasia sicuramente non è originale (se ne sono fatti tanti…), non ho mai visto però avvicinate queste tre composizioni in particolare. Dopodiché ci sono altri collegamenti. Io ho pensato di affiancare certi pezzi anche per la vicinanza tonale: la Fantasia di Mozart inizia in Re minore, Kreisleriana inizia in Re minore; Kreisleriana finisce in Sol minore e nella seconda metà troviamo la Sonata di Schubert che comincia proprio in Sol Maggiore. C’è anche una questione di bilanciamento tra le due parti del concerto, in cui la prima è sicuramente molto misteriosa, molto drammatica molto scura, alle volte anche allucinata, vicina al mondo del delirio – specialmente in Kreisleriana. Al contrario, la seconda parte è molto luminosa, distesa, quasi vaporosa nella consistenza pianistica della scrittura di questa Sonata.
Penso che sia un programma che si ascolta volentieri; che sollecita tanti spunti di riflessione; che ispira l’immaginazione, sia per chi suona, sia per chi ascolta; che ha un filo logico: a me piace che i programmi da concerto non siano dei minestroni di vari pezzi, ma che abbiano una loro narrativa interna. In questo senso la composizione più luminosa, che finisce in quella leggerezza e quella divina piacevolezza che si trova solo in Schubert non è stata messa a caso nella seconda metà del programma: è una volontà precisa di lasciare al pubblico un ricordo piacevole della serata.
Devo dire che è quasi un unicum, questo Schubert così etereo che vuoi portare in concerto. Di solito si predilige quello più drammatico, sofferente, prossimo alla morte…
Assolutamente, in altre composizioni l’uso dell’armonia in alcune composizioni di Schubert lo porta ad essere molto drammatico, misterioso, tortuoso e anche sicuramente non classificabile secondo le regole dell’armonia tradizionale. Inevitabilmente questo mi fa pensare a quando Alfred Brendel parla di armonia usata in senso «funzionale», oppure in senso «timbrico», indicando che nelle composizioni di Schubert stiamo uscendo dal classicismo.
Volevo entrare un po’ più nello specifico nella tua interpretazione di Kreisleriana, se me lo permetti. Un altro Brendel, Franz Brendel, un critico musicale e musicologo contemporaneo di Schumann, ci fornisce un’interpretazione a fronte di uno dei problemi principali dell’esegesi schumanniana, su cui si dividono tutt’oggi gli esecutori, ovvero la pedalizzazione e l’emissione sonora. Cito: «Schumann ha una vera passione per suonare il pedale costantemente schiacciato, così che le armonie non emergano con particolare chiarezza».
La pedalizzazione è un problema aperto a ogni concerto, innanzitutto. Un problema legato principalmente ai luoghi in cui si suona. Certo, le pedalizzazioni indicati da Schumann sono estremamente sommarie, sempre con la generica indicazione “con pedale”. In qualche modo offre l’idea di non essere stato un compositore desideroso di meticolosità su quanto pedale andasse usato. Dopodiché per me è importante usare una pedalizzazione che permetta alla musica di essere leggibile e che non perda di intensità. Più di così è difficile dire a parole, forse è anche scontato quello che ho detto. Però in generale il mio primo criterio per l’interpretazione di Schumann è la partitura. Schumann è uno dei compositori più ricchi di indicazioni in partitura che ci siano nella storia. Se uno guarda le partiture di Schumann con il microscopio può notare migliaia di forcelle, di sforzando, di segni di legatura. Se il pedale è indicato sommariamente, tutto il resto è indicato con una precisione (e anche con una variabilità) estrema: la stessa frase che magari è scritta tre volte, può avere indicazioni di fraseggio e di dinamica diverse, con la forcella spostata di un ottavo o due… E io non credo che sia un caso: sono risultati di moti di slancio compositivi fulminei. D’altro canto i Kreisleriana sono stati scritti in quattro giorni! A fronte di tutto ciò, l’osservazione meticolosa in fase di studio di tutto quello che scrive Schumann per me è imprescindibile. Un’osservazione che però deve servire a ricreare con la stessa spontaneità adottata da Schumann – certo, su Kreisleriana è tornato varie volte, però, ripeto, di fatto è stato composto in quattro giorni. Un’altra cosa che particolarmente prediligo su Schumann è la precisione sulla tenuta del tempo: nei consigli ai giovani pianisti che Schumann scrive, ce n’è uno che recita «suona a tempo! Il modo di suonare di tanti virtuosi di oggi assomiglia all’andatura di un ubriaco. Non siano loro i tuoi modelli». Sono tantissime le interpretazioni di Schumann che distorcono il tempo per adattarsi a questo dedalo di fraseggi, indicazioni dinamiche e timbriche, secondo me in modo assolutamente non necessario e perdendo tutta la pulsione ritmica, che invece in Schumann è fortissima. In questo senso mi è assolutamente di esempio la lezione di Pollini e di Richter: i loro sono Schumann estremamente solidi, drammatici e intensi, ma senza perdere una lettura chiara e limpida, quasi analitica, della partitura.
IL LAVORO DELL’INTERPRETE
Come si articola il tuo personale lavoro di interpretazione? Rimani ancorato al documento della partitura, oppure ti interessa anche lo studio (più storico e filologico) dei processi creativi di un compositore?
Assolutamente sì! Lo studio di più fonti di ispirazione possibile nell’avvicinarsi a un lavoro può solo arricchire l’interpretazione. Però sicuramente principale, è lo studio della partitura. Se non altro perché la partitura è ciò che di un pezzo ha deciso di lasciare un compositore. Tutto il resto lo hanno ricercato i biografi, i musicologi e anche gli interpreti con le testimonianze imprescindibili delle loro rese, e questo complesso organismo mi permette di costruire un’immagine del pezzo che voglio interpretare. Però l’unica cosa che un compositore ha veramente deciso di lasciare è la partitura con ogni segno (ovviamente da interpretare conoscendo il contesto culturale in cui nasce, se no il segno rimane afasico). Chiaramente dove esistono i manoscritti è necessario consultarli. Io personalmente cerco di confrontare più edizioni possibili. Schumann per esempio, oltre a lasciare tantissimi schizzi e abbozzi del proprio lavoro, ha pubblicato due edizioni diverse di Kreisleriana e vari pianisti hanno cercato di fare qualcosa di diverso, mischiandole.
Secondo quale prospettiva lavori all’interpretazione di un brano? Esegesi, o ri-creazione?
Hai descritto quelle che per me sono le due fasi della vita dell’interpretazione di un brano. Comprensione, esegesi, analisi in prima battuta; dopodiché si sale sul palcoscenico e si deve ricreare. E se non esiste spontaneità, vitalità e l’impressione che la musica sgorghi direttamente dall’interprete nel momento in cui la suona il concerto è noioso.
Ti capita mai di scoprire nuovi aspetti di una composizione durante un concerto? Quanto incide il pubblico in questa scoperta?
Sì, assolutamente. Se non altro perché si suona sempre in spazi con acustiche diverse, con strumenti diversi e a volte solo il timbro di uno strumento diverso può suggerirti di fraseggiare in modo diverso, di gestire il tempo in modo diverso. Oppure ti fa notare con più evidenza il contrappunto di una voce secondaria. Oppure di senti improvvisamente ispirato a colorare in modo più dettagliato una frase. Nella mia esperienza posso dire che il momento del concerto lascia spazio a scoperte anche entusiasmanti. Se così non fosse, sarei contento di rimanere a casa mia a suonare per me. Il pubblico in questo senso è fondamentale, necessario. Sarebbe impossibile per me comunicare con lo stesso senso di necessità, di urgenza. Pensa a provare un discorso senza un pubblico davanti: magari viene perfetto, curato in ogni dettaglio. Ma non avrà mai la stessa intensità che poi ha davanti a una platea di persone. Poi non credo nell’esistenza di un pubblico indistinto. Ognuno poi viene a un concerto con una giornata diversa alle spalle, con una cultura diversa, con una vita diversa. E tutte queste caratteristiche vanno a comporre una diversa percezione di quello che io suono a un concerto. Questo è un aspetto sinceramente bello dell’esecuzione pubblica. Dopodiché io non mi curo troppo di quanto sia turbolento o meno il pubblico, semmai mi sento costantemente in difetto di tutto ciò che non riesco a dare durante un concerto.
Appena due anni fa hai registrato le “Variazioni Diabelli” di Beethoven per Alpha Classics, facendo i conti con un’esperienza molto importante per un interprete. Che differenze hai notato, nell’approccio allo strumento, con il concerto dal vivo?
Posto che, oltre alle Diabelli, ho registrato solo un altro disco che uscirà a gennaio, ho potuto notare un investimento di grande intensità da parte mia. Una cosa che ho notato, e che notava anche il tecnico con cui lavoravo, è che faccio fatica a raggiungere la stessa intensità quando devo eseguire tre battute almeno venti volte per averle “perfette”, rispetto a quando invece facciamo una take completa di una Sonata, o di un movimento di Sonata. In studio è un lavorio veramente complicato. La correzione continua, il montaggio quasi da puzzle di tantissimi frammenti, per ottenere quel risultato che al giorno d’oggi è richiesto dalle case discografiche: perfezione e nitidezza. Dopodiché nell’editing bisogna ricostruire quella naturalezza del pensiero originario, che nelle correzioni un po’ viene intaccata. Ho scoperto in questa fase il mio cruccio fondamentale, al di là della correzione degli errori minimi: ricostruire quello che riconoscevo come il mio pensiero musicale. È stata un’esperienza pienamente musicale, non asettica, non meccanica. Ma al contrario di ripensamento di riascolto attento di come suono, di analisi quasi vergine della partitura.
A questo punto vorrei chiederti: quando ritorni su un pezzo che non esegui da molto tempo, riparti da zero, oppure tieni in piena considerazione i vari segni che hai lasciato a matita, le annotazioni, ecc.?
Confesso che non sono abituato a scrivere molto in partitura. Non so perché sia cattiva educazione, o cosa… Ci sono varie cose scritte dai miei insegnanti, ma a differenza di molti compagni di studio e di colleghi, direi che scrivo veramente poco. Quando ritorno su una partitura che non guardo da parecchio, la partitura è praticamente vergine. Al massimo c’è qualche indicazione di diteggiatura, che per fortuna ritrovo! Confrontandomi con altri pianisti in carriera, mi sembra di essere meno veloce rispetto a loro nell’imparare un brano nuovo, o sicuramente mi riservo più tempo di preparazione prima di portarlo in concerto. Poi invece noto che sono piuttosto fiducioso e veloce nel riprendere. Mi è capitato di riprendere in un pomeriggio l’op.11 di Schoenberg che non suonavo da un anno e suonarlo come l’ho sempre suonato. Questo però lo percepisco come un rischio, lo dico senza arroganza, come una mera costatazione: quando ritorno su una partitura la sento ancora veramente familiare. Magari devo farla rientrare nelle dita, come si dice, ma comunque sento di dover far proseguire il più possibile uno studio interpretativo. Il rischio potrebbe derivare dal riprendere una partitura in maniera troppo veloce, e poi di conseguenza perdere in concerto il senso di urgenza e il desiderio e lo stupore di suonarla, come accade invece per quei programmi preparati per un mese intero. Ma è anche vero che quando guardo un pezzo che ho lasciato da tanti anni, riesco a constatare con piacere che io sono cresciuto e cambiato, e riesco a notare più dettagli e cose diverse. Quello che allora ho tra le mani sono allora più criteri di pensieri e idee interpretative che mi permettono di accedere a quel pezzo in maniera diversa.
LA COSTRUZIONE DEL REPERTORIO
In altre sedi hai già dichiarato di provare interesse nel montare programmi eterogenei, che spaziano dalla barocca, alla romantica, alla musica degli ultimi quarant’anni. Nel tuo repertorio vedo grandissimi nomi della “contemporaneità”: Ligeti, Kurtág, Adès, Lanza… Come avviene la selezione dei brani? Che criterio segui?
Per quanto riguarda il repertorio storico non mi sembra di aver fatto delle scelte particolarmente eccezionali. Anche Schoenberg, per quanto non sia una scelta consumata dai pianisti specialmente in ambito di concorsi, rimane comunque un caposaldo della letteratura. Quello che sento molto è la necessità di dar voce ai compositori degli ultimi sessant’anni e della contemporaneità, perché se non ci fossero stati esecutori a dare vita alla musica di Bach, di Beethoven, di Schubert (tutti compositori che ho ricevuto in dono dalla tradizione), oggi noi li avremmo inevitabilmente persi. Il fatto che ci siano pochi pianisti interessati a fare lo stesso per i compositori del presente è semplicemente inaccettabile, per quanto mi riguarda. Come avviene la scelta? Secondo i limiti di quella che può essere la mia conoscenza del mondo della composizione contemporanea e secondo la fatica di capire chi può essere il nuovo Beethoven, o il nuovo Schubert, cerco di eseguire semplicemente musica che ritengo bella. Quello che a me sembra essere una cifra costante in tutti i grandi compositori della storia è la capacità di toccare e smuovere certe corde dell’animo, che hanno saputo toccare solo loro. La stessa cosa la riscontro anche con la musica contemporanea. Che avvenga per processi più matematici; o per la ricerca di musica più astratta; o per la ricerca di un’espressività derivante dal mondo “classico”, in particolare per Kurtág; o per la sperimentazione sull’elettronica, come Lanza che è un compositore che scrive tantissimo impiegando l’elettronica. Tutti questi compositori per me sono in grado di generare delle opere che non suonano come nessun’altra, ma che colpiscono in maniera estremamente intensa vari punti particolari dell’animo umano. E questo mi interessa molto. Dopodiché i ragionamenti tecnici o filosofici, il tipo di espressione che può essere alienante, che può essere celebrale, sono tutti diversi a seconda dell’autore. Nel mettere insieme i programmi comunque cerco di fare in modo che i contrasti o le vicinanze tra un compositore classico e uno contemporaneo siano motivate. Il programma che ho scelto per i miei primi concerti in Canada era composto da l’op.110 di Beethoven, la Sonata di Bartók, il Klavierstücke IX di Stockhausen (nel 2015 a Milano avevo suonato anche il XIII) e la 111 di Beethoven. Non voglio attribuirmi chissà quali capacità di ideare programmi chissà quanto innovativi (nonostante a Vancouver mi confidarono che non era mai stato eseguito il Klavierstücke IX di Stockhausen), sicuramente la volontà di far sentire questa musica e di constatare le reazioni che provoca, deriva tutto da un desiderio di confronto anche con chi può non apprezzarla.
Mi interessa molto sapere quali ragionamenti segui per le composizioni che, invece, scarti…
Come per tutto nella vita è molto più facile scartare che eleggere. È molto istintiva a volte la mancanza di attrazione per una cosa, piuttosto che un’altra. In un mondo artistico come quello di oggi che è sovrabbondante di pianisti, dove ci sono esecutori splendidi per ogni tipo di repertorio, non vedo ragione di eseguire dei pezzi che non amo profondamente. Quelli che scarto sono inoltre quei pezzi i quali magari riescono a suggerirmi qualcosa, ma non ritengo si adattino bene ai miei modelli interpretativi. Li lascio quindi a pianisti che sicuramente li suoneranno meglio di me. Sono criteri che alle volte risultano scomodi da seguire, perché spesso mi vengono richiesti programmi dove inserire autori come Chopin, Rachmaninov o Liszt e io puntualmente rifiuto, pur di non correre il rischio di non riconsegnare degnamente la loro musica. Sarei molto curioso però di approfondire Scriabin, soprattutto le sue musiche pianistiche più tarde, ma devo trovare il modo più giusto e coerente di inserirle nei miei programmi… Se i miei programmi riescono ad avere una certa coerenza è anche perché suono dei compositori che suonano molto bene assieme.
LA MUSICA OGGI
Quanto credi che l’esistenza di mezzi di ascolto come Spotify e YouTube abbiano cambiato le modalità dell’ascolto di musica, oggi?
Ci sono ovviamente aspetti positivi e negativi. Quello positivo è dato sicuramente dall’abbondanza dell’offerta musicale. Due secoli fa l’ascolto della musica era qualcosa di raro e di privilegiato: ascoltare un cantante per strada intonare qualcosa poteva dare occasione di far nascere qualcosa di poetico (Leopardi parla dello stupore nell’ascoltare uno zappatore che rincasa fischiettando). Oggi la musica è abbondante e accessibile a tutti: è negli ascensori, è nei supermercati, è nei bar; abbiamo gli auricolari sempre nelle orecchie. Questa per me è una cosa stupenda. Se uno vuole approfondire lo studio di un’opera, può impiegare due ore per ascoltare dieci esecuzioni diverse da interpreti di secoli diversi quasi. Una volta per sentire Michelangeli la gente faceva chilometri, perché l’unica occasione che aveva era di andare a Monaco, magari… All’opposto, credo che questa abbondanza e ultra-disponibilità di musica ovunque, abbia provocato dei danni (quasi) irreparabili alle nostre abitudini di ascolto. Il fatto che non la musica non sia più così preziosa, penso che faccia sì che non l’ascoltiamo con lo stesso ardore, con lo stesso bruciante desiderio di qualche decennio fa. Allora in questo senso rischiamo un ascolto dispersivo, frammentario: un “consumare” musica, più che ascoltarla. Questa forma di ascolto privato e individuale, che spesso è frammentario, discontinuo, confuso, perché non implica più una partecipazione diretta dell’ascoltatore (durante l’Ottocento, fino ai primi decenni del Novecento, l’ascoltatore privato spesso e volentieri coincideva con l’esecutore) ha causato la desertificazione delle sale da concerto. Ritengo che questo sia il pericolo principale, perché la grande maggioranza della musica “colta” occidentale è stata scritta pensando specificatamente al passaggio comunicativo tra una persona che esegue, a una persona che ascolta. E quando manca questa dimensione dell’avere davanti la persona nella sua integrità di anima e corpo, con tutti i limiti della serata specifica, con tutte le caratteristiche acustiche della sala, si perde tutta la naturalezza. La gente oggigiorno non ascolta più le opere nella dimensione naturale, dove raggiungono la maggiore intensità, e così ci si abitua ad un ascolto viziato, asettico. Sotto un altro punto di vista riesco perfettamente a capire chi preferisce un ascolto concentrato, raccolto, magari nel salotto domestico: non tutti possono permettersi ogni sera un concerto diverso. Dunque mi sentirei di ribadire questa dicotomia, delle conquiste tecnologiche odierne.
Direi che potremmo concludere canonicamente parlando dei tuoi progetti futuri…
Al di là di un numero nutrito di recital e concerti con varie orchestre, in sale importanti come Wigmore Hall o il Concertgebouw di Amsterdam, ora ho forte la volontà di affrontare l’Arte della Fuga di Bach e di costruire attorno a quest’opera un progetto articolato per portarla a un pubblico più vasto e variegato possibile. Mi piacerebbe certo eseguirla in sala da concerto, ma anche in ambienti più suggestivi e riservati, magari luoghi di rilievo artistico, e inoltre presentarla in università e conservatori. L’Arte della Fuga è una delle opere più straordinarie e comunicative mai scritte, e compare troppo raramente nella vita delle persone. Poter dare io una voce a quest’opera sarebbe commovente. Vedremo quanto di questo si riuscirà a organizzare, ma di sicuro lo studio necessario mi occuperà almeno un altro anno e mezzo.