Vivere Tchaikovsky a Napoli
di Marica Coppola - 27 Febbraio 2020
una serata a Villa di Donato.
Lo scorso lunedì 24 febbraio eravamo a Napoli per il concerto del trio David Romano – Diego Romano – Mario Montore presso Villa di Donato. La serata, di cui protagonista è stato il Trio di Tchaikovsky Op.50, è solo uno degli appuntamenti della rassegna napoletana Max 70, diretta dal violinista partenopeo primo dei secondi violini dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che propone un’offerta musicale che spazia dalla musica classica al jazz. Il fascino dell’antica Villa, aumentato anche grazie al racconto della sua proprietaria Patrizia De Mennato, ha creato l’atmosfera perfetta per una serata di musica da camera, trascinandoci indietro nel tempo di almeno due secoli…
Quando siamo stati accolti all’entrata principale di Villa di Donato, passando per il piano terra abbiamo avuto subito l’intuizione che quello fosse l’unico ambiente in stile moderno della dimora. Salite le scale, ci vengono incontro David Romano e Patrizia De Mennato, una vera e propria mecenate dei tempi moderni per ciò che riguarda tutte le declinazioni del campo artistico, i quali ci invitano ad una breve visita presso le stanze della Villa: improvvisamente ci sentiamo calati nel XVIII secolo. L’ambientazione riporta direttamente al 1780, anno della fondazione della struttura, come testimoniano i meravigliosi affreschi e l’antico arredamento che ci circondano. Prima di iniziare il concerto David e Patrizia ci concedono una piacevole chiacchierata. David ha conosciuto Patrizia proprio in questa Villa, e nel momento in cui vede il piccolo ma capiente salone della prestigiosa dimora comprende la potenzialità del luogo: è perfetto per far rivivere la vera dimensione acustica, spaziale e culturale della musica da camera. In effetti ci sembra un po’ di essere in una bolla dorata settecentesca, separata dal mondo esterno e lontana dai rumori della città. Così, dall’unione delle forze dei nostri due interlocutori e soprattutto grazie a un formidabile intuito che sembra visibilmente accomunarli, nasce lo scorso anno la rassegna musicale Max 70, stranamente legata al numero sette, laddove 70 sta per il numero massimo delle sedie presenti nel salone e sette è il numero dei concerti che prevede. Precisiamo che la musica di tradizione non è l’unica declinazione culturale di questo posto: la Villa cura manifestazioni di teatro, blues e arte. Tornando a Max 70, che è una rassegna giovanissima al suo secondo anno, essa ha già anticipato alcune presenze di fama internazionale su territorio campano, come il Quartetto Adorno, il Quartetto Henao e il violinista Luca Ciarla, che ha studiato jazz in America ed esegue attualmente una musica originalissima, che affonda le sue radici nella tradizione popolare. La De Mennato spiega “ cerchiamo di coprire un’offerta musicale varia, che permetta ai musicisti emergenti di qualsiasi ambito musicale, e quindi non unicamente quello della tradizione classica, di esprimersi concretamente a contatto con il pubblico”. E in effetti è proprio di contatto che si può parlare: ci rechiamo nel salone dove tra circa un’ora inizierà il concerto, rendendoci conto di cosa effettivamente ci stanno raccontando. Lo spazio è molto raccolto, al punto che il pianoforte e i leggii degli archi sono posizionati a circa venti centimetri dalla prima fila di sedie. David nota il nostro stupore e ci dice: “Forse può sembrare strano, anche fastidioso avere qualcuno che ‘ti parli’ così da vicino… specialmente perché la musica è una lingua che non ha bisogno di traduzione, e in questo caso diventa un interlocutore che non ti concede distrazione alcuna: ti prende da dove sei seduto, da sconosciuto, e inizia a parlarti in maniera diretta, che ti piaccia o no”.
Pensando al fatto che oggi le sale da concerto diventano sempre più iperboliche, prevedendo a volte più di mille posti anche per le rassegne di musica da camera, è chiaro che il concetto di ‘musica da camera’ stesso venga spesso messo in discussione – non tralasciando certamente tutti i pregi del caso, come quello di rendere accessibile tale repertorio ad una più ampia fetta di pubblico rispetto alla tradizione da cui nasce. Il Trio Op. 50 di Tchaikovsky che ascolteremo stasera nasce non solo come dedica alla morte di Rubinstejn, pianista e amico del compositore, ma anche soprattutto e grazie alla pressione che su quest’ultimo esercitò la sua protettrice, Nadezda von Meck, che vantava tra i suoi musicisti privati il giovane Debussy. Queste intime, quasi familiari connessioni che si trovano più che frequentemente alla genesi di brani cameristici di repertorio richiederebbero un’altrettanto intima situazione per essere celebrate. Ed è questo che, quasi “con una punta di follia” per riprendere le parole di David Romano, questa rassegna si propone di ricreare. “Il concerto di questa sera permetterà al pubblico di essere immersi per quasi due ore in un’atmosfera dei secoli andati, in un posto dove pare sia passato Ferdinando IV, e non lontano da dove aveva soggiornato Mozart quando passò a Napoli.” Tutta questa storia, la ricchezza del passato napoletano, passa direttamente attraverso le pareti delle sale all’interno delle quali, adesso, passeggiamo. Patrizia ci spiega che la struttura in cui siamo è soltanto la casina di caccia di quella che in passato era un’area molto più vasta della villa di famiglia, ridotta a causa di successivi lavori urbani. “ La casa era stata chiusa nel 1974, dopo la morte di mia nonna”, ci racconta. “E’ stato un sogno riaprire questo posto, e quando ho deciso di farlo, l’ho fatto all’insegna della convivialità, quella di cui ci parla Ivan Illich, grazie alla quale si può intessere una stretta rete di legami e connessioni fra le persone che condividono passioni simili”. Un luogo questo che funge da punto di ritrovo culturale, all’insegna di situazioni artistiche non così facilmente reperibili altrimenti. Esattamente come accadeva in passato quando si suonava nelle dimore dei nobili, con un’accoglienza che richiama un’atmosfera di altri tempi, ci viene spiegato che gli ospiti saranno intrattenuti sia prima che dopo il concerto con un rinfresco della casa. Da precisare è che la rassegna non riceve alcuna sovvenzione esterna, è interamente autogestita, autofinanziata e autoprodotta, con grande merito di chi, seppure in un contesto difficile, decide di porre l’arte e in tal caso la cultura in primo piano, come un bene di primaria necessità. “Vedrà”, ci assicura la De Mennato, “ quando ascolterà il concerto di questa sera si renderà conto di come in questo luogo il passato non esista, perché si tramuta in presente, all’insegna di una vera e propria rinascita”. Voler ricreare la situazione storica della musica da camera nell’epoca contemporanea: è questo l’ambizioso progetto di Villa di Donato, sicuramente unico e originalissimo nel suo genere. Ringraziamo i nostri interlocutori: dopo le piacevoli e numerose delucidazioni ricevute, l’aspettativa cresce e siamo ansiosi di comprendere quanto effettivamente possa arrivarci di tutta la loro ampia presentazione.
Il concerto ha inizio con la prima parte del Trio op. 50, il Pezzo elegiaco (Moderato assai. Allegro giusto). Il tema malinconico di apertura esposto dal violoncello e subito seguito dal violino scuote subito la nostra attenzione ancora immersa nella conversazione appena svolta, ricordandoci il motivo principale della scrittura dell’opera, quella “mémoire d’un grand artiste”che fece leva sull’animo estremamente sensibile di Tchaikovsky al fine della scrittura del brano. L’encomio funebre rivolto a Rubinstejn risuona nelle pareti del salone in maniera immediata, creando subito un’atmosfera raccolta. Attraverso l’ascolto di questo primo movimento notiamo che l’emissione sonora dei due strumenti ad arco è in questo ensemble sorprendentemente affine: l’equilibrio timbrico che si genera tra il violino di David Romano e il violoncello di Diego Romano permette una resa delle dinamiche perfetta, generata probabilmente da una logica di ‘cavare il suono dalla corda’ che sembra appartenere ad una stessa scuola di pensiero dei due fratelli, prima che musicisti. Un ambiente sonoro, quello creato dai due archi in questione, profondamente intimo e facilmente associabile a quello dell’emissione di una singola voce, equilibrata nella sua espressione dalla grande finezza e ricerca stilistica del pianoforte di Mario Montore. Il pathos vibrante domina la scrittura dell’intero movimento, secondo quell’esternazione genuina delle passioni umane in tutta la loro veemenza che è tipica della scrittura di Tchaikovsky. Fino a giungere ad un picco emotivo che precede la coda, in cui è davvero notevole la potenza sonora del violinista partenopeo, che ci parla davvero vis-à-vis, e di cui viviamo soltanto adesso concretamente il senso delle sue precedenti parole: la musica in questo luogo ti chiama in causa in prima persona, anche e soprattutto da ascoltatore.
Il pianoforte introduce la seconda parte del brano, un Tema con variazioni, che dimostra subito il secondo carattere del pezzo: quello popolaresco. Nelle prime due Variazioni l’esposizione del tema rimbalza dal violino al violoncello, con un carattere del tutto brioso. Ma il tono delle Variazioni è continuamente mutevole: a volte più intenso e sentito, altre estremamente gioioso, altre ancora più misurato. Sembra quasi che Tchaikovsky abbia voluto rappresentare tutta la mutevolezza emotiva delle diverse situazioni dell’esistenza attraverso queste Variazioni, e i tre esecutori riescono a addentrarsi in questa rappresentazione di caratteri in una maniera quasi teatrale, rendendo la voce dei loro strumenti come quella di attori in scena che sappiano modulare la loro espressività in una maniera talmente repentina e concorde da ammaliarci completamente. Ma nonostante tanto coinvolgimento, che palesemente investe in primis gli interpreti, momenti di più pacata compostezza non mancano, come quello della Fuga che domina l’intera Variazione VIII. Tra echi lamentosi e popolareschi le Variazioni proseguono fino alla dodicesima, ultima del brano. Dopo aver passato in rassegna molte sfumature dell’animo umano attraverso la musica, il finale è un abbraccio stringente: le passioni evocate dagli esecutori varcano, così come richiede il brano, la misura di ogni convenzione per venire a scuotere ancora l’ascoltatore – stavolta quasi come si scuote una persona ‘per il braccio’, mentre le si parla, fisicamente – e, a questo punto del concerto, è impressionante notare come a tratti sembri che le pareti del piccolo salone vibrino per davvero. Gli archi di David e Diego Romano piangono letteralmente sull’ultima parte del finale, riesponendo il tema di apertura del brano che viaggia nell’aria mestamente, condotto dai rintocchi funebri della scrittura del pianoforte. Così, secondo una perfetta circolarità che dalla fine del brano ritorna al suo inizio, ci sembra di aver ripercorso il racconto della vita umana intera, nell’interezza delle passioni che la attraversano.
Dopo qualche secondo di attesa, necessario allo sfumare di un carico emotivo di grande intensità con il quale i tre esecutori lasciano sapientemente il brano, il pubblico necessita di dimostrare tutto l’affiatamento con il quale ha seguito il concerto. Un “Bravi!” si leva dal fondo della salone, in mezzo ai lunghi minuti di applausi, ma anche un “Grazie Patrizia!”, che testimonia il rimando della gratitudine di un pubblico che ha ben compreso il valore dell’ iniziativa musicale e culturale di Villa di Donato.
David Romano ci aveva detto, prima del concerto, di essersi ispirato all’espressione inglese del “to feel” per realizzare la sua dimensione dell’ ‘essere dentro la musica’, espressione rispetto alla quale il “to hear” o il “to listen” restano più deboli. Se è corretto parlare in questo caso nei termini di un esperimento psico-acustico, possiamo dire che quello di Villa Di Donato è una sperimentazione in tal senso completamente riuscita.
Marica Coppola