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Trascrivere per il pianoforte: Liszt, Busoni e Kempff

di Redazione - 3 Maggio 2022

La storia della trascrizione ha radici molto lontane se si pensa che i primi esempi vanno ricercarti nelle trascrizioni della musica polifonica del Quattrocento per le intavolature di liuto e organo. Di sicuro le prime che hanno una notevole valenza storica, sono quelle di Bach, ed in modo particolare i Sedici Concerti di vari maestri.

Quello che a noi interessa, va però ricercato in ciò che comincia ad accadere nella metà dell’Ottocento con Franz Liszt, senza dubbio il più importante trascrittore per pianoforte. All’epoca la trascrizione assunse un aspetto completamente nuovo rispetto al secolo precedente, diventando parte integrante di un più vasto interesse sociale: quello della diffusione della cultura. 

L’Ottocento fu, difatti, il secolo del trionfo, oltre che del pianoforte, del melodramma con Verdi, Bellini, Rossini e Wagner; Liszt si fece portavoce dell’esigenza di un maggiore ascolto dell’opera (considerando che l’andare al teatro era l’unica occasione), trascrivendo i momenti più importanti e celebri dei maggiori capolavori teatrali. Quest’esigenza portò Liszt a compiere due tipi d’operazioni: la parafrasi e, appunto, la trascrizione

Mentre la prima si caratterizzava per un massiccio e determinante intervento del “compositore/trascrittore”, attraverso l’utilizzo di stilemi pianistici di grosso effetto, inesistenti nella partitura originali (ottave, accordi, volatine, tremoli), la trascrizione comportava invece una maggiore adesione al testo originale, “limitandosi” a  trascrivere i temi e la struttura così come erano in origine ma adeguandoli alle caratteristiche tecniche ed espressive dello strumento. 

Liszt tenne sempre in considerazione l’idea di riprodurre sul proprio strumento l’organico originale dell’opera e lo fece attraverso uno straordinario utilizzo di tutte le qualità sia timbriche che soprattutto tecniche, di cui fu tra i massimi artefici, meritandosi così un duplice merito: quello sociale, perché, come detto, diede un notevole contributo alla divulgazione culturale del melodramma, e quello di vero e proprio innovatore strumentale a cui ovviamente contribuì anche attraverso la sua  enorme produzione originale. 

Con Ferruccio Busoni cambia completamente il modo di concepire la trascrizione. Prima di tutto egli farà riferimento solo alle musiche di Bach per organo (se escludiamo quella, magistrale, della Ciaccona, dalla partita in re minore, che è per violino). Poi egli attuò principi estetici e, in minor misura, tecnici del tutto nuovi. Anzitutto egli basò ogni sua trascrizione su di una prestabilita registrazione organistica che potenziava enormemente la  disposizione pianistica nel suo insieme, raddoppiando o triplicando ogni voce secondo le necessità espressive. Usò numerosi contrappunti aggiunti a rinforzo o completamento della polifonia ed il pedale di risonanza in un modo tale da permettergli, anche attraverso un’ingegnosità nella disposizione accordale, di conservare o, ancora meglio, di ricreare sul pianoforte la grandiosa polifonia organistica.  

Eppure, se il modo di concepire la trascrizione è molto diversa da quella di  Liszt, il fine strumentale rimaneva sempre e comunque quello: ricreare sul pianoforte timbri e sonorità dell’organico originale ma, ecco lo sviluppo, ad un maggiore e più trascendentale livello timbrico.

Con Wilhelm Kempff cambia tutto. Oltre ad essere il grandissimo pianista che tutti conosciamo, Kempff fu anche un notevole compositore ma soprattutto uno straordinario trascrittore, in modo particolare di opere bachiane. Il periodo in cui si dedicò a questi lavori fu, all’incirca, il primo trentennio del secolo scorso, la stessa epoca di Ferruccio Busoni. 

Nulla era però più lontano dalla sua mente che rievocare l’organico originale del brano che lui andava trascrivendo. Kempff era prima di tutto un interprete e voleva che l’opera si adattasse perfettamente al suo strumento senza illusioni, o acrobazie tecniche e timbriche, dimostrando che quel Bach o quel Gluck potevano essere  tranquillamente dei brani scritti originariamente per pianoforte anche senza sfruttare a fondo tutte le qualità del moderno strumento; a dire il vero neanche quelle fondamentali. Infatti, l’uso del pedale di risonanza, ad  esempio, sarà totalmente diverso da quello di Busoni, ed il confronto nei tre corali bachiani trascritti da entrambi è illuminante.

Ciò che gli interessava maggiormente in termini prettamente tecnici, era il costante uso di un super legato ottenuto fondamentalmente con le dita. Questo non voleva dire l’abbandono totale del pedale (anche perché certe sonorità, intrinseche alla natura musicale del brano, si sarebbero perse) ma comunque un uso con fini strettamente pianistici e non surrealistici o d’imitazione. 

Questo aspetto è però più evidente all’ascolto che non sullo spartito: le “intenzioni sonore” di Kempff non sempre sono evidenti sulla carta ma sono chiarissime nelle sue registrazioni; e qui si apre un problema.  

Mentre, infatti, di molte trascrizioni busoniane, per non parlare di quelle lisztiane, abbiamo incisioni di valore storico, Horowitz, Gilels, Lipatti, Brendel, ma non dello stesso Busoni (ad eccezione della Ciaccona), delle trascrizioni di Kempff abbiamo invece in primis le sue stesse incisioni e, escludendo l’integrale della Biret (che da allieva segue fedelmente le  intenzioni del maestro), di qualche brano isolato come il Siciliano, inciso anche, tra l’altro, da Lipatti e pochi altri incisi in tempi più recenti (Angela Hewitt), non abbiamo una discografia tale da permetterci di capire se le intenzioni estetiche di Kempff siano state realmente e storicamente comprese al punto da creare una nuova concezione anche interpretativa

Questo se da un lato ci limita in una più completa visione interpretativa delle trascrizioni, dall’altro ci consente, però, di capire, appunto, quelle che erano le intenzioni fondamentali e soprattutto i motivi che portarono Kempff a trascrivere quelle opere a cui teneva molto eseguendole spesso come bis.

Ci teneva molto, e giustamente, perché creò dei veri e propri capolavori di grazia, colore e di riflesso del proprio Io musicale. In queste sue trascrizioni c’è soprattutto il Kempff interprete; il grande interprete di Beethoven, Schumann, Schubert; c’è, insomma, il suo modo di concepire l’interpretazione al pianoforte fatto di poesia, di intimità, di racconti fiabeschi e non epici, fatto di colore ma di un colore tenue e non trascendentale o accecante come in Busoni o, se vogliamo citare un altro grande pianista trascrittore, in Horowitz. 

Questa è la grande novità di queste opere: non il pianista Kempff bensì l’interprete Kempff risulta essere il vero autore di questi lavori; anche se scritti in anni relativamente giovanili il suo temperamento e la sua linea di condotta interpretativa erano già estremamente chiari. Il gusto, la ricerca del semplice e dell’essenziale e la grande cultura del pianista tedesco sono elementi fondamentali per dar vita a queste opere dove si può dire che non c’è un compositore ed un trascrittore bensì due compositori (l’estetica di Reinhardt, che vedeva nell’attore un ricreatore dell’opera, era un topos di enorme importanza nella Germania di quegli anni) nel vero senso della parola e non c’è una sola nota o colore aggiunto di suo pugno solo per convincere o colpire di più, ma ovunque c’è il Kempff interprete e compositore che si fondono perfettamente per dar vita ad una opera che esisteva già e che ora rivive al pianoforte non come trascrizione ma come nuova opera originale

In conclusione si può affermare che la novità delle trascrizione di Kempff è nel non aver proseguito il tragitto precedentemente solcato da Liszt e  Busoni ma di aver creato un nuovo tipo di lavoro nel quale il ruolo di compositore e trascrittore assumono una stessa identica importanza in  quanto l’opera originale non viene riscritta ma completamente ripensata in virtù non più, come in precedenza, delle qualità del pianista-trascrittore bensì di quelle dell’interprete-trascrittore che rapporta l’opera originaria ad un suo mondo, all’interno del quale vivono tutti i grandi nomi della storia della musica che come interprete aveva conosciuto – non solo Bach, Gluck o Haendel ma soprattutto, Beethoven, Schumann, Schubert e Brahms – e di cui si sarebbe arricchito per tutta la sua lunga esistenza conducendoli, da lì a poco, in una dimensione “mitica”.

Gianluca Di Donato

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