La Riforma musicale: Le ragioni musicali della Riforma protestante
di Redazione - 22 Giugno 2017
La tradizione musicale nei paesi protestanti ha un ruolo importantissimo, vitale addirittura, se si considera il fertilissimo ambiente culturale ed educativo che produce: condizione che ha privilegiato la nascita di personalità geniali e ricche di inventiva in campo musicale.
Se si pensa poi che la musica divenne un vero e proprio campo di battaglia ideologico tra dottrine teologiche, si comprendono ancora di più le motivazioni di certe scelte estetiche, che condizioneranno influentemente tutta la storia della musica avvenire.
Quest’anno infatti mezza Europa festeggia i 500 anni da quando Martin Lutero affisse al portone della cattedrale di Wittenberg (il 31 Ottobre 1517) le 95 tesi che condannavano l’incolmabile divario apertosi tra un clero avido e simoniaco e tra un popolo che invece ricercava l’autenticità del messaggio cristiano.
Martin Lutero e la musica
La stessa persona del monaco agostiniano che accese la scintilla della Riforma, era intensamente musicale. Da fanciullo aveva imparato a cantare a scuola, e una volta presi i voti, trovava volentieri consolazione nella musica nei momenti di afflizione. Aveva appreso a suonare il liuto e il flauto traverso e soprattutto, grazie ad un esercitato senso critico, sapeva riconoscere la buona musica di chiesa. Conosceva le opere di Heinrich Isaac (il quale aveva dimorato a Wittenberg), teneva in grande stima Josquin Des Prez e manteneva una corrispondenza epistolare con Ludwig Senfl, di lui più giovane di tre anni. Nessuna meraviglia che abbia scelto proprio l’ordine di S. Agostino, uno dei primi autori della cristianità a riconoscere nella musica un carattere spirituale, poiché allo stesso modo Lutero vi scorgeva in essa un potente mezzo di elevazione morale: “La musica – diceva – è un dono di Dio, non dell’uomo. Mi ha sempre così stimolato e commosso da farmi sorgere il desiderio di predicare.”
Quello che più non sopportava nel rito della chiesa romana cattolica era che la musica fosse affidata solo a pochi limitati attori: il celebrante, i suoi assistenti, il coro, l’organo ed eventualmente altri strumenti. I fedeli non dovevano prenderne parte, ma limitarsi ad ascoltare. La musica vocale sacra (pensiamo per esempio alla Missa Pange Lingua, scritta da Josquin intorno al 1515), oltretutto, era dispersivamente elaborata, il che non aiutava alla comprensione del testo cantato. Testo che, come ulteriore fattore di separazione e ostacolo, era dall’inizio alla fine della liturgia in latino, lingua probabilmente poco familiare a dei poveri abitanti della Sassonia. Il desiderio di Lutero era che i fedeli potessero prendere parte attiva alla funzione religiosa, partecipando e comprendendo quello a cui stavano assistendo. La messa doveva finire di essere un rituale esteriore e misterioso, la musica doveva finire di essere un concerto a cui assistere silenziosi, ma doveva diventare una cerimonia di cui entrare a far parte.
Sua preoccupazione fu perciò quella di tradurre prima la Bibbia (che terminerà nel 1522) e poi la messa nel volgare tedesco, che, grazie al prezioso strumento della stampa a caratteri mobili inventata da Gutenberg cinquant’anni prima, ridurrà di molto i tempi e le distanze che percorreranno poi anche le sue idee e musiche. Le alte cariche ecclesiastiche cattoliche reagirono duramente a quelle che giudicavano provocazioni dell’ortodossia cristiana, e, non accogliendo le proposte dei protestanti, si barricarono dietro alla preservazione della tradizione condannandolo eretico a suon di scomuniche e bolle papali. Lo scisma nella cristianità occidentale era diventato irrecuperabile.
Tuttavia le modalità di inserimento della musica all’interno del servizio divino (Gottesdienst) non fu uniformemente condiviso dalle varie sette di riformati a lui ispirate. Per Giovanni Calvino, riformatore francese operante a Ginevra, l’unica musica ammessa all’interno del culto era il canto dei salmi biblici intesi nella loro varietà, in ossequio al testo degli apostoli: “Cantate di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali” (Col 3, 16; Ef 5, 19). Le ordinanze calviniste prescrivevano infatti “di prestare attenzione alle parole, al loro spirito e senso, piuttosto che alla melodia, perché Dio si può lodare solo nella parola vivente”. Non si doveva trovare piacere nella polifonia perché sarebbe stata una distrazione dalle parole che si stavano cantando: il canto era solo ed esclusivamente a voce sola, monodico e senza alcun accompagnamento. Proprio loro, nelle Beeldenstorm svizzere e francesi (fanatiche incursioni iconoclaste), distrussero nelle chiese cattoliche oltre che a centinaia di opere d’arte, sculture e paramenti sacri, anche organi e strumenti musicali. Huldrych Zwingli invece, altro riformatore zurighese, la musica all’interno della messa non la ammetteva affatto, perché – riteneva – nella bibbia non c’era scritto da nessuna parte che si dovesse cantare all’interno della funzione religiosa.
L’accondiscendenza di Lutero verso la musica è tutta giustificata dal valore che essa aggiunge alla comunità e alla morale del singolo individuo. In opposizione alla distruzione delle immagini e degli strumenti scrisse:
“Non sono dell’opinione che tutte le arti debbano essere abbattute dal Vangelo e sparire, come vorrebbero certi zelanti; al contrario, vedrei tutte le arti, e particolarmente la musica, al servizio di colui che le creò e a noi le diede.”
In più, ad ulteriore sostegno per l’uso della polifonia nel culto, egli riteneva che meglio facilitasse l’espressione delle emozioni, e in una lettera si espresse eloquentemente:
“Com’è strano e meraviglioso che mentre una voce canta una semplice e modesta melodia, tre, quattro o cinque altre voci vengono contemporaneamente cantate insieme… Dev’essere portato alla corruzione e non degno di ascoltare tale incanto, chi non si delizia in essa e non è mosso da tale meraviglia. Farebbe meglio ad ascoltare gli asini ragliare il corale [gregoriano], o l’abbaiare dei cani e dei porci, piuttosto che questa musica.”
Il Corale
Lutero è considerato, a ragione, il “padre” della musica protestante tedesca, in particolar modo per aver contribuito all’invenzione di una forma e un genere assolutamente peculiare: il geistlicher Gesang, o Kirchenlied, altrimenti noto come corale luterano.
I corali sono melodie semplici, facili da cantare, il cui andamento pressoché sillabico – schivando la caratterizzazione ritmica contrappuntistica della musica polifonica dell’epoca, attraverso un certo grado di impersonalità – agevola l’intelligibilità del testo, rigorosamente in tedesco, composto da strofe in rima da ripetersi sempre con la stessa musica. Per ogni festività e ricorrenza religiosa, per ogni domenica dell’anno si sollecitò la composizione di testi adeguati a commento della lettura del giorno. Si andò così formando e raccogliendo un repertorio di canti, di cui lo stesso Lutero compose almeno 36 melodie, che sostituì il gregoriano in latino della liturgia romana. Era nato ufficialmente l’inno congregazionale (Gemaindelied). Uno di questi inni fu “Ein Feste Burg ist unser Gott” (Un rocca sicura è il nostro Dio, parafrasi del salmo 46 “Dio è con noi” – Gott mit uns), scritto e musicato da Lutero, adottato poi, per il suo significato simbolico, dalle comunità protestanti come inno di battaglia della Riforma nella Guerra dei Trent’anni.
Di questi canti gran parte vennero scritti ad hoc da altri musicisti quali Johann Walther (che ne curerà una prima raccolta, il Geystliche Gesangk Buchleyn, insieme allo stesso Lutero, pubblicata a stampa nel 1524), Konrad Rupsch, Kapellmeister a Wittenberg, e successivamente Ludwig Senfl, direttore della cappella di Monaco.
Altri vennero tradotti dal latino e accostati al canto piano della tradizione cattolica: la sequenza gregoriana “Veni Sancte Spiritus” per la domenica di Pentecoste venne trasformata in “Komm, heiliger Geist” sulla stessa melodia, oppure ancora il corale “Christ lag in Todesbanden” (Cristo giaceva nel sudario) usa la musica, ma con parole diverse, della sequenza pasquale “Victimæ Paschali Laudes”. Molti altri corali, invece, vennero presi in prestito dalla strada, adattando canzoni profane e non, secondo l’uso che si faceva all’epoca dei cosiddetti contrafacta, ovvero delle parodie.
I protestanti non furono i primi a far uso di canzoni popolari, d’amore o tratti dalla tradizione dei Minnesänger: già dal XV sec. predicatori come Jan Huss e la setta dei Fratelli Boemi adoperarono canzoni monodiche in lingua volgare ad uso devozionale, volgendo canti profani alle esigenze del culto divino. Lutero non disdegnò mai che si usassero queste canzoni a fini sacri: sostituendo un debito testo spirituale christlich corrigiert (cristianamente corretto) il popolo poteva continuare a godere di belle canzoni degnamente riplasmate, poiché, come disse lo stesso Lutero: “al diavolo non dovrebbe essere concesso di tenere per sé tutte le melodie più belle.” Esempi di questi contrafacta sono i corali “O Welt, ich muß dich lassen” (O mondo, ti devo lasciare) ricopiato da una canzone del 1490 di Heinrich Isaac dal titolo ben più triviale “O Innsbruck, ich muß dich lassen”, oppure una melodia di Hans Leo Hassler “Mein G’müth ist mir verwirret” (La mia mente è confusa dalla bellezza di una tenera ragazza), una canzone d’amore pubblicata nel 1601, che venne modificata poi nel corale “Herzlich thut mich verlangen” (Il mio cuore è pieno di desiderio), e successivamente ancora nell’inno della Passione “O Haupt voll Blut und Wunden” (O capo pieno di sangue e di ferite). Anche il celebre “Vom himmel hoch da komm ich her” (Vengo dall’alto dei cieli, scritto nel 1535) deriva da un Rätsellied, un indovinello popolare “Aus fremdem Landen komm ich her” (Vengo da paesi lontani).
Prima del 1540 la Riforma non ebbe alcuna influenza sull’arte polifonica fiorita, e quando l’inno acquistò stesura a più voci erano ancora validi i principi mottettistici della convenzione stilistica fiamminga: il cantus firmus era quasi sempre posto con valori allungati al tenor (al tenore), mentre le voci superiori contrappuntavano più o meno liberamente. Per rendere però possibile alle comunità ecclesiastiche partecipare al canto religioso con più facilità Lucas Osiander scrisse a proposito nel suo Fünfftzig Geistliche Lieder vnd Psalmen, nel 1586:
“So bene che i compositori mettono normalmente nei corali la melodia al tenore. Se si fa questo, però, le altre voci non riconoscono il corale. Allora l’uomo comune non capisce più di quale salmo si tratti e non può cantare. Per questo ho portato il corale al discanto [il soprano], in modo tale che tutti possono facilmente riconoscerlo e cantarlo.”
Da allora in poi nella tipica armonizzazione vierstimmiger Satz venne seguito il modello di Osiander, con composizioni elaborate da compositori famosi e autori minori.
Fortuna e influenza del Corale
Mentre la Controriforma cattolica tentava di arginare e controbattere alle novità avanzate dai paesi tedeschi (sostenute adesso anche da prìncipi e regnanti), i protestanti seppero avvalersi dei nuovi materiali musicali a disposizione per sottolineare ulteriormente la differenziazione tra le due fedi, innalzando il corale a baluardo simbolico dell’indipendenza conquistata, anche al prezzo del sangue di innumerevoli vittime delle guerre di religione che piagarono l’Europa nel XVI e XVII secolo. Il repertorio luterano diventò perciò la fonte vitale da cui attingere a piene mani per qualsiasi tipo di musica: sia vocale che strumentale. Emerge sempre più l’organo come destinazione privilegiata di improvvisazioni e arrangiamenti autonomi di melodie corali, che intervallavano, sostituivano o anticipavano il canto assembleare. A questa tradizione si rivolgerà la pregevole scuola organistica della Germania centro-settentrionale, dalla quale emergono i nomi di Sweelink, Scheidt, Scheidemann, Buxtehude e Pachelbel, autori di piccole composizioni organistiche (Corale fugato, variato, figurato, Fantasia – corale, Preludio – corale) che parafrasavano, variavano, contrappuntavano su elementi tematici delle melodie corali più note.
Tra questi proprio il Preludio – corale (Choralvorspiel) verrà portata al massimo livello da J. S. Bach con i 46 pezzi dell’Orgel – büchlein (1708/17), brani di poche battute intesi ad introdurre l’inno del canto congregazionale che si sta per cantare: la melodia, spesso alla voce più acuta, viene accompagnata da un moderato accompagnamento polifonico, senza interludi a separare le singole frasi del corale, che viene esposto nella sua interezza. Un gioiellino di perizia contrappuntistica, pensato anche a scopo didattico per i giovani organisti “che volessero imparare tutte le maniere di sviluppare un corale”.
La fama del Kantor a Lipsia, però, è maggiormente dovuta alla prolificità delle sue composizioni sacre: quasi 200 cantate pervenuteci, oltre alle Messe, ai mottetti, Oratori e Passioni. Il ritmo di produzione presso la Thomaskirche, era di almeno una cantata alla settimana, andando a ricoprire per intero il ciclo di un anno liturgico (dal 1724 al 1725). Come nelle Passioni, anche nelle Cantate (termine che comunque Bach non utilizzò mai) il corale è il momento culminante di partecipazione e inclusione, in pieno spirito luterano, del popolo nel canto. La stessa Cantata ha origine da un corale, parafrasato in tutti i suoi significati: il primo brano è solitamente un elaborato movimento per coro e orchestra, dimostrazione di virtuosismo tecnico in cui al canto è affidata l’esposizione a versi separati della melodia corale (o in stile accordale o in stile mottettistico) mentre l’orchestra lo inframezza con episodi basati sul materiale del Tutti iniziale, in una forma a ritornello che Bach mutua dal modello del concerto strumentale italiano. Seguono poi una successione di recitativi e arie, trattate come veri e propri pezzi d’opera, che riprendono le strofe del corale o interpretano poeticamente il loro significato, scavando e approfondendo il testo per estrarne ogni sfumatura possibile. Infine si conclude la Cantata con il corale armonizzato semplicemente a quattro voci, che tutti cantano insieme a conclusione dell’evento.
Un tipico esempio di questa Cantata può essere (per rimanere all’interno del tema di questo anniversario) proprio la BWV 79 Festa Reformationis, scritta per la festa del 31 Ottobre 1725. Il testo del coro iniziale, estratto dai Salmi (84, 12), recita “Gott der Herr ist Sonn’ und Schild” (Sole e scudo è il Signore Dio), che, come il più famoso “Ein Feste Burg”, richiama alla fiducia nel gratuito intervento divino per chi ha fede, e quindi, a più ragione, per i protestanti.
Ma i corali continuarono a ispirare musicisti anche nei secoli successivi: simbolo di identità nazionale e motivo di riconoscimento religioso, ci possiamo spiegare così la fortuna dell’operazione di cui Felix Mendelssohn si fece promotore in pieno Romanticismo. La Bach Renaissance riporta alla luce capolavori dimenticati, e con loro la devota ammirazione per il canto semplice e collettivo di Lutero. Contemporaneamente al movimento di Restaurazione della Chiesa luterana di un repertorio ripulito, purificato e più proprio per la musica da chiesa, i compositori presero ispirazione dagli antichi e ricercarono, in un nuovo linguaggio, di recuperare gli stessi materiali melodici tradizionali. Mendelssohn stesso, per esempio, scrisse Cantate corali e Oratori, recuperando il testo e a volte anche la musica, cosa che fece programmaticamente invece sul versante organistico con le sei Sonate per organo op. 65 (1844 – 45) utilizzando melodie ben riconoscibili. Nel 1830, poi, in occasione del 300esimo anniversario della Pace di Augusta, momento fondamentale per la fede luterana, compose la sua 5a Sinfonia, che si meritò poi il nome di “Riforma”, per l’uso di un corale nel movimento finale. Quale corale potrà mai aver citato? Beh, indovinatelo voi.
Pure Brahms scrisse un mottetto corale (“Es ist das Heil uns kommen her”), e undici Preludi – corali op.122 (1896) fondati sulla forma degli Orgel – büchlein, compatibilissimi con la tradizione romantica dei pezzi caratteristici o delle romanze senza parole. Ispirato dalle Sonate di Mendelssohn, anche Max Reger (sebbene di fede cattolica) scrisse le Fantasie – corali per organo, che raggiunsero la sintesi delle tendenze retrospettive e moderniste del XIX secolo, riuscendo a combinare i principi della variazione corale con quelli del poema sinfonico, usando tutte le tecniche e risorse tonali dello stile romantico e tutte le possibilità espressive dello strumento, come era stato perfezionato fino ad allora.
Innumerevoli altri usi e influenze ebbero le melodie corali, ogni volta trascinando con sé i significati e i messaggi del testo in riferimento (anche quando questo non c’è) e al relativo periodo liturgico, o alla precisa festività. La potenza della semplicità ha così facilitato (o amplificato), anche nella sola musica strumentale, la forza comunicativa di una musica: quando questa è famosa e immediatamente riconosciuta, si attivano immediatamente collegamenti analogici e interpretativi che illuminano di un nuovo senso questa o quella citazione, anche se fuori contesto. Il corale divenne l’alfabeto musicale per esprimere indirettamente, e senza l’uso di parole, un’atmosfera, un’area concettuale e un ambito di significato, che chi conosce associa subito a un mood, un carattere, un sentimento. Il ruolo giocato dal corale è divenuto sotto molti versi simile a quello dei simboli: un aggregato di contenuti molteplici uniti da una forma comune che li rappresenta, un aliquid stat pro aliquo (un qualcosa che rinvia a qualcos’altro). Per questo si potrebbe anche dire che col tempo e la stratificazione culturale, la melodia del corale luterano sia diventato un vero e proprio simbolo musicale.
Alessandro Panozzo
Ciao!
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