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La Controriforma

di Silvia D'Anzelmo - 28 Dicembre 2018

tenebre e chiaroscuri

[blockquote cite=”Paolo Prodi, La cornice e il quadro. Il Concilio di Trento e la musica.” type=”left”]La Santa Cecilia di Raffaello, dipinto nel 1514-15, rappresenta il momento prima della tempesta, il tentativo estremo di fissare la rottura di una sintesi teologica umanistica oramai impossibile: al centro Cecilia, con in mano un piccolo organetto portatile, in “spirituale conversazione” con altri santi, in alto un coro di angeli, pure voci che cantano leggendo lo spartito, in basso, sul pavimento, una quantità di strumenti musicali frantumati e a pezzi. Siamo alla vigilia della Riforma e ben prima del Concilio di Trento ma in questo quadro sembra rappresentata tutta la storia futura: il mondo non sarà più quello di prima […] La crisi prima di divenire istituzionale, nella frattura delle Chiese e nelle guerre di religione, è sentita come rottura di una sintesi umanistica del mondo musicale e teologico. […] è nella musica che viene colto il distacco tra un mondo celeste […] e profano.[/blockquote]

Il XVI secolo apre in Europa l’epoca delle rotture e delle divisioni. Fino a quel momento, religione e potere politico erano riusciti a mantenere un’idea di coesione capace di superare differenze e particolarità di un territorio così vasto. Ma la nascita di quelli che diventeranno stati nazionali comincia a cambiare l’idea di Europa come erede dell’Impero Romano retta da un solo imperatore e unificata in una sola religione: il sogno di Carlo Magno e del papa Leone III si spegne sette secoli dopo con l’abdicazione di un altro Carlo, il V nella dinastia degli Asburgo. Scismi e rotture politiche dalle quali nascono confusioni e inquietudini che traghetteranno l’Europa verso la modernità e la secolarizzazione anche attraverso processi contraddittori e ambigui come la Controriforma.

Se nomina sunt consequentia rerum, la Contro-riforma sembrerebbe indicare solo ed esclusivamente una reazione della Chiesa Cattolica alla Riforma protestante di Martin Lutero. Ma la questione è ben più complessa di quello che la parola in sé sembrerebbe indicare. Le istanze del Concilio di Trento solo apparentemente indicano un atteggiamento di chiusura conservatrice e reazionaria, in realtà, non sono altro che una delle tante vie di accesso alla modernità. Un cambiamento che tocca punti nodali non solo nell’individuo ma nel suo rapporto con il resto della società e con lo stato.

Al centro del problema c’è la secolarizzazione o meglio, per dirla con le parole di Max Weber, la de-magificazione del mondo. Il cosmo non è più un sistema immobile e immutabile retto da un Dio supremo e animato dal ‘soprannaturale’: sacro e profano devono trovare un nuovo equilibrio funzionale alla regolamentazione dei tempi che scandiscono la vita di un individuo moderno. Paradossalmente in questo ‘nuovo’ mondo in cui il magico arranca, diventa centrale la questione teologica della grazia: l’uomo moderno si salva per i suoi meriti o per la sua fede?

Questa alternativa pone l’individuo difronte a qualcosa di perturbante: la possibilità di scelta confonde e inquieta fino a smorzare quella componente di ribellione all’autorità che agli inizi del XVI secolo accompagnava la nascita delle ‘riforme’ religiose. Il periodo delle agitazioni si chiude con l’obbedienza interiorizzata (più o meno serenamente) dall’individuo. Ogni aspetto della vita viene scandito per indurre comportamenti uniformi: alla nascita segue immediatamente il battesimo, l’educazione è quella della civiltà cristiana, i gesti (come il segno della croce) sono gli stessi per tutti. Questo indottrinamento arriva a toccare l’arte e, in particolare, la musica che è compagna fedele di ogni atto liturgico, rappresentante illustre del potere oltre che intrattenitrice raffinata per l’aristocrazia. Il dibattito conciliare non formulerà mai un apparato di regole rigido che stabilisca norme precise da seguire nelle varie attività artistiche ma l’atteggiamento di controllo, anche in questo campo, è innegabile e produrrà conseguenze e cambiamenti importanti.

Nel settembre 1562 siamo oramai alla conclusione del Concilio di Trento, gli abusi della chiesa e le questioni dottrinali sono già state affrontate. Si apre allora la XXII sessione del Concilio per deliberare sulla musica sacra in chiesa, affidando a una commissione di cardinali, tra cui Carlo Borromeo, di gestire l’applicazione pratica dei principi scelti come guida per gli artisti. Si passa dalla creatività eterodossa del periodo rinascimentale al bisogno di chiarezza, semplicità e rispetto dell’ortodossia necessari a evangelizzare l’intera comunità e non solo coloro che sono capaci di comprendere le finezze sottaciute negli incastri polifonici. Il mito che guida l’operazione, come spesso accade, è quello della purezza originaria: bisogna ripristinare il gregoriano eliminando le incrostazioni depositate lungo il corso dei secoli. In questa lotta all’eterodossia, sacro e profano diventano i due punti estremi di un’opposizione binaria, irriducibile: «Quanto alle cose che si suole trattare con musica polifonica o con l’organo, nulla vi deve essere di profano in esse, sì soltanto inni e divine lodi» come riportato nella delibera del Concilio dedicata alla musica. E questa non è certo cosa di poco conto, come si potrebbe pensare, perché gran parte della musica liturgica si era sviluppata proprio integrando al suo interno elementi profani (com’è il caso emblematico delle oltre 40 messe chiamate L’homme armé perché basate su un cantus firmus tratto dalla melodia dell’omonima canzone profana francese). Tutte queste disposizioni spostano l’attenzione dalla costruzione di complesse architetture sonore capaci di dilettare oltre che lodare Dio, verso l’importanza oramai imprescindibile della comprensibilità del testo sacro. «Tutta questa maniera di salmodiare in musica non deve essere composta per un vacuo diletto delle orecchie, bensì in modo tale che le parole siano percepite da tutti, affinché i cuori degli ascoltatori siano conquistati dal desiderio delle armonie celesti e dal gaudio della contemplazione dei beati.»

La questione risulta particolarmente sensibile per tutti gli artisti romani o gravitanti intorno alla corte papale e a quelle cardinalizie della Città Eterna. Viene elaborato un linguaggio più mediato e accessibile che tende ad adeguare i canoni estetici al rigore dottrinale voluto dalla Controriforma. È il caso di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1524/5-1594) che ha vissuto praticamente tutta la sua vita a Roma protetto da quello che sarebbe diventato papa Giulio III. La sua carriera artistica non può ignorare i dettami della Controriforma anzi egli ne diventa interprete attento e ispirato fino a creare quello che viene ricordato come lo stile ecclesiastico per eccellenza. Come Maestro nelle varie cappelle musicali romane, Palestrina deve fornire una gran quantità di musica sacra e liturgica. Le sue ben 104 messe dimostrano non solo la conoscenza ma la perfetta padronanza di tutti gli stili allora coesistenti compreso quello della parodia, delle arditezze polifoniche e contrappuntistiche tipiche della scuola franco-fiamminga. Ma con il cambiare degli interessi a Roma anche il suo stile comincia ad affinarsi verso un’organizzazione dei suoni non certo meno complessa ma più morbida e levigata. L’elemento fondamentale della sua attenzione è il rispetto della corretta accentuazione della parola sacra che non viene più frazionata e impreziosita di melismi ma segue un andamento più naturale e quindi comprensibile. La condotta delle parti è pensata per esaltare la cantabilità del testo mentre contrappunto e armoni trovano il loro perfetto equilibrio nella semplice chiarezza.Tutto concorre a dare un’immagine di serena luminosità, il timbro è omogeneo e le stesse dissonanze non vengono messe da parte ma inserite in un sistema di preparazione e risoluzione che ne smorza gli urti.

La stessa critica al virtuosismo formale e alle complicazioni intellettualistiche poco ortodosse viene mossa alle arti figurative che, come la musica, ha una grande importanza nella rappresentanza e nella comunicazione del sacro. Anche in questo campo si definiscono nuovi canoni per la pittura a carattere devozionale che trova uno dei suoi più grandi rappresentanti in Scipione Pulzone (1550 ca.-1598). La sua Sacra Famiglia (1588-90) è realizzazione compiuta della nuova arte sacra: l’immagine è una semplificazione dei modelli del classicismo, privata totalmente di partecipazione emozionale per garantire una contemplazione meditativa e ascetica. Quella che traspare dalla Sacra Famiglia è una pittura senza tempo impermeabile alle oscillazioni del gusto e della moda proprio come lo stile ecclesiastico di Palestrina.

A questa interpretazione ispirata dei dettami tridentini, se ne affianca una ben più sofferta e contraddittoria. La Controriforma comincia a penetrare nelle coscienze degli uomini portando con sé inquietudini segrete legate al timore per la salvezza dell’anima. Se nel caso di artisti come Palestrina e Pulzone vengono esaltati elementi positivi della riforma cattolica, volti al coinvolgimento dell’intera comunità nel processo di evangelizzazione; nel caso di altri artisti come Caravaggio (1571-1610) e Carlo Gesulado da Venosa (1560-1613) la faccenda è ben diversa. Nelle loro personalità e nella loro arte cominciano a venir fuori altri aspetti della Controriforma legati a una ricerca di Dio non mediata dalla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica ma sentita come un problema spirituale personale.

Quello della grazia diventa un quesito che assilla moltissimi artisti intorno al seicento declinando le loro opere verso toni ben più scuri e tormentati. È il caso di Caravaggio che ebbe non pochi problemi con i suoi protettori: le sue tele vengono rifiutate di continuo, giudicate irriverenti e immorali perché non seguono i dettami formali di compostezza e distacco emotivo emanati dal Concilio Tridentino. In realtà, sono proprio gli effetti della nuova religiosità che portano Caravaggio a narrare il sacro come qualcosa di vicino all’uomo e alla realtà quotidiana che non è formalmente perfetta né rassicurante o calma. La Morte della Madonna (1605-6) riassume in sé tutto questo. Rifiutata dai Carmelitani Scalzi perché il pittore aveva raffigurato la madonna come una povera donna morta annegata: «aveva fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe scoperte». In questo modo Caravaggio afferma la presenza di Dio nell’esperienza quotidiana della povera gente ragionando intorno ai temi della morte, del dolore e della disperazione rappresentati con grande umanità e partecipazione emotiva: la luce guida lo sguardo dello spettatore traendo dall’ombra i dolenti e il viso dolcissimo della Madonna.

Una altrettanto inquieta ricerca di salvezza è quella seguita per tutta la vita da Carlo Gesualdo che poté permettersi di scrivere liberamente musica a suo piacimento solo perché principe di Venosa e quindi totalmente padrone di se stesso. La sua psicologia introversa e irrequieta viene esasperata dalla nuova religiosità controriformistica che lo spinge quasi alla nevrosi. La sua è una «musica reservata» cioè elitaria ed è per questo che anche nelle composizioni sacre  può permettersi più di una licenza negando apertamente lo stile ecclesiastico codificato da Palestrina: cromatismi, durezze e artifici, accentuazione dei contrasti, tutto concorre a esprimere una religiosità inquieta.

Silvia D’Anzelmo

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