“Also sprach Zarathustra”: così parlò Richard Strauss
di Federico Pariselli - 2 Marzo 2017
“Giunto a trent’anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine, né per dieci anni se ne stancò. Alla fine si trasformò il suo cuore, e un mattino egli si alzò insieme all’aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò: «Astro possente! Che sarebbe la tua felicità, se non avessi coloro ai quali tu risplendi!
«Per dieci anni sei venuto quassù, alla mia caverna: sazio della tua luce e di questo cammino saresti divenuto, senza di me, la mia aquila, il mio serpente.
«Noi però ti abbiamo atteso ogni mattino e liberato del tuo superfluo; di ciò ti abbiamo benedetto.
«Ecco! La mia saggezza mi ha saturato fino al disgusto; come l’ape che troppo miele ha raccolto, ho bisogno di mani che si protendano.
«Vorrei spartire i miei cloni, finché i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza.
«Perciò devo scendere giù in basso: come tu fai la sera, quando vai dietro al mare e porti la luce al mondo infero, o ricchissimo fra gli astri!
«Anch’io devo, al pari di te, tramontare, come dicono gli uomini, ai quali voglio discendere.
«Benedicimi, occhio sereno, scevro d’invidia anche alla vista di una felicità troppo grande!
«Benedici il calice, traboccante a far scorrere acqua d’oro, che ovunque porti il riflesso splendente della tua dolcezza!
«Ecco! il calice vuol tornare vuoto, Zaralhustra vuol tornare uomo».
– Così cominciò il tramonto di Zarathustra.
Correva l’anno 1864 quando a Monaco di Baviera, Sud della Germania, nasceva Richard Strauss: destinato a formarsi nell’ambiente musicale tedesco dell’Europa di fine secolo assorbendone i fermenti più innovativi, e figlio d’arte, il giovane Richard compì le sue prime esperienze compositive da camera sulle orme dell’ideale della “musica assoluta” di stampo classico e primoromantico, in particolare seguendo le orme di Beethoven e di Schumann, per poi ricevere in maniera duratura e permanente la folgorazione del wagnerismo. E non c’è da meravigliarsi, considerando il clima musicale dell’europa di fine Ottocento, dove nel bene e nel male “fare del Wagner” diveniva per alcuni l’unica via di innovazione e per altri l’unica strada da cui tenersi alla larga (ma anche se l’allontanamento da Wagner avveniva sul piano tecnico-compositivo, tuttavia l’estetica, ovvero il modo di “concepire” la musica, rimaneva imperante: si veda Debussy. In Verdi, per fare un esempio, la separazione era invece pressochè radicale su entrambi i fronti).
Ciò che in Strauss desta unanimemente meraviglia rispetto ad altri musicisti è la bravura assoluta con cui questo giovane compositore gestisce la forma: non è un mero imitatore, ma è Richard Strauss, e lo è fin da subito, da quando poco più che ventenne, nel 1888, inizia con Don Juan il suo ciclo di poemi sinfonici per poi interromperlo nel 1903 ed intraprendere vie nuove; vedremo allora in primo piano grandi opere come Salome, Elettra, Der Rosenkavalier. Prima di offrire qualche spunto d’ascolto e di riflessione per “Also sprach Zarathustra”, che tra i giovanili Tondichtungen rappresenta senza dubbio un momento importante di svolta, una puntualizzazione è d’obbligo: il periodo in cui Strauss vive è certamente di cambiamento: si cita il compositore spesso al fianco di Mahler come uno di quelli che chiude le porte al romanticismo instillandone gli ultimi soffi vitali, quando Brahms sta terminando la sua esistenza e Debussy e Schönberg sono già in attività (la scuola viennese appare già all’orizzonte); ma quando nel 1949 termina la sua lunga e proficua esistenza l’appellativo di “ultimo grande romantico” comporta allora un’accezione piuttosto conservativa, se si tiene conto che sono già apparsi i primi postweberniani; le generalizzazioni e le periodizzazioni però, come si sa, sono sempre difficili da accettare, poiché la complessità del reale supera di gran lunga gli astratti schemi manualistici, e giudizi di valore sui concetti di conservazione e progressione sembrano oggi lasciare il tempo che trovano. La definizione di Adorno di uno Strauss conservatore appare oggi totalmente superata, anche perchè opere come Salome ed Elettra contengono sicuramente, opportunamente mescolati, alcuni veleni di quella Secessione che attraversa l’Europa fin de siècle.
Strauss in poche parole assorbe ciò che lo circonda ma allo stesso tempo riesce a prenderne le dovute distanze: nasce e muore come alternativa musicale, e inizialmente la sua idea si pone come ripresa e poi superamento del wagnerismo e della tradizione sinfonica lisztiana (come vedremo a breve), successivamente si pone invece come ritorno al passato, in un periodo in cui l’Europa aveva ormai sperimentato il superamento della tonalità, le avanguardie primo-novecentesche e le inquietudini viennesi (senza dimenticare le atrocità storiche che fecero la loro parte e nelle quali Strauss si trovò peraltro ad essere ingenuamente immischiato).
Come interpretare allora quest’uomo?
Certamente come una terza via, una soluzione geniale ai fermenti neoromantici, come uno che seppe sempre servire la propria idea senza mai tradire le proprie alte potenzialità nè guardare troppo altrove con cupidigia, e un atteggiamento del genere certamente lo rende ai nostri occhi un musicista anticonvenzionale. Secondo il parere di chi scrive appare geniale una definizione del grande direttore Giuseppe Sinopoli che definiva quello di Strauss un “romanticismo per dissolvenza”, nel senso che in lui vi è una tensione nostalgica primoromantica intesa come “allontanamento da ciò che si ama”, una saparazione consapevole; e se questa separazione esiste anche in Mahler, in quest’ultimo è gridata, mentre in Strauss è sussurrata.
Quando Strauss nel 1896 compone “Also sprach Zarathustra” ha appena 31 anni, eppure sembra aver già raggiunto da un pezzo la maturità artistica: sono passati appena 7 anni dalla composizione di Don Juan, prova concreta di un controllo pressoché totale della forma (in quel caso la forma sonata adattata al poema sinfonico lisztiano), dei timbri, dell’orchestrazione e dell’armonia, elementi che gli permettono di ottenere da un certo materiale di base conseguenze musicali di gigantesca portata. A fine secolo Strauss è un compositore famoso: massimo erede dei neotedeschi, grande direttore d’orchestra (Kapellmeister presso la Hofoper di Monaco), ha già alle spalle, oltre Don Juan, i poemi Aus Italien (1886), Macbeth (1886-91), Tod und Verklärung (1888-9), Till Eulenspiegel (1894-5), ma lo Zarathustra è una svolta, poiché i procedimenti lisztiani vengono superati in virtù di strutture più stratificate, che sottintendono forse una visione ideologica dell’autore e una reinterpretazione dell’idea poetica. Afferma egli stesso in una lettera del 1888 ad Hans Von Bülow:
“Or dunque, se si vuol creare un’opera artistica che abbia unità in quanto ad ambiente e costruzione complessiva, e se la medesima deve agire plasticamente sull’ascoltatore, è necessario che quel che l’autore volle dire appaia anche plasticamente alla visione del suo spirito. Ciò è possibile quando esiste lo stimolo di un’idea poetica, indipendentemente dal fatto che essa sia aggiunta oppure no all’opera come programma”;
impiegò sette mesi per la composizione (tra febbraio e agosto 1896) di questo poema, diresse egli stesso la prima nel Novembre 1896 a Francoforte sul Meno con la Museum Städtlisches Orchester. L’evoluzione programmatica di questo lavoro continuò poi con Don Quixote (1896-7) ed Ein Heldenleben (1897-8) e dovevano seguire poi negli anni successivi altri due lavori di simile ispirazione, la Symphonia Domestica (1902-3) e Eine Alpensinfonie (1911-15).
Prima di tutto qui Strauss non adotta come “idea poetica” un testo in poesia, ma un trattato filosofico, l’omonimo “Also Sprach Zarathustra” di Nietzsche in cui il grande filosofo tedesco affronta il rapporto storico millenario dell’uomo con il cosmo e con l’esistenza esplicandolo attraverso vari gradi che corrispondono alla paura e allo smarrimento, al dogmatismo, alla religione, alla scienza e razionalità (che culmina con una sorta di follia) fino all’Übermensch, il “Superuomo” (ma sarebbe meglio dire “Oltreuomo”, tematica molto attaccata e spesso fraintesa) inteso come presa di coscienza di sé e come autodeterminazione, volontà di abbandonare gli antichi doveri e di controllare il proprio destino attraverso la volontà individuale. Il testo, composto tra il 1883 e il 1885, ebbe immediatamente un grande riverbero nella filosofia tedesca dell’epoca, sia per lo stile espositivo, sia per le tematiche trattate, nel quale la Germania guglielmina credeva di riconoscersi (anche Mahler se ne servì per il celebre Lieder della Terza Sinfonia); nel sottotitolo “un libro per tutti e per nessuno” il filosofo presentava al mondo un trattato che in maniera quasi contraddittoria doveva presentarsi con uno stile allo stesso tempo chiaro e privo di tecnicismi (per tutti) e mistico e visionario nell’esposizione dei concetti (per nessuno).
Il testo racconta che un giorno il profeta Zarathustra, che si era ritirato dalla terra in meditazione, decide di ridiscendere e “tramontare” sugli uomini illuminandoli con tanti discorsi sui temi più disparati. Strauss fu probabilmente affascinato dal tema dell’Oltreuomo. In origine pensò a un sottotitolo complesso per la partitura: “Ottimismo sinfonico in forma fìn de siècle, dedicato al XX secolo”; preferì poi una dicitura più sobria: “Liberamente da Nietzsche”. Appose quindi all’inizio della partitura il primo paragrafo della prefazione del libro dove si racconta che Zarathustra, al trentesimo anno d’età (si veda il parallelo con Cristo), decide predicare agli uomini e si rivolge al sole per riceverne la benedizione. Strauss scelse otto frasi dal testo, contrassegnando con ognuna una diversa sezione della partitura: “Di coloro che abitano in un mondo dietro l’altro”, “Del grande anelito”, “Delle gioie e delle passioni”, “II canto dei sepolcri”, “Della scienza”, “Il convalescente”, “Il canto della danza”, “Il canto del nottambulo”.
Ma è difficile dire fino a che punto condividesse le idee del filosofo.
Se il modello è quello nietzschiano, così come lo sono le premesse, siamo sicuri che anche le conclusioni di Strauss siano siano le stesse? Oppure egli va al di là del modello? La risposta è affermativa: Strauss non traduce musicalmente, ma assume i motivi base del testo e li trasfigura in musica secondo un’idea totalmente personale, tant’è che sulla partitura egli annota in determinati punti varie frasi appositamente estrapolate dal testo filosofico per costruire una trama sonora assolutamente individuale, dove prende corpo un percorso a sè, a volte fedele all’assunto nietzschiano, a volte invece prepotentemente opposto.
Riprendiamo per un istante la definizione di cui sopra di Strauss come “romanticismo per dissolvenza” di Giuseppe Sinopoli, e ciò che se ne può trarre è la parola Ironia (dal greco εἰρωνεία eirōneía, “dissimulazione”). Ora, provando a fare una riflessione, possiamo intendere questa parola almeno in tre modi diversi, a volte anche coesistenti: ironia come divertimento, ironia come padronanza e ironia come nostalgia. Il divertimento è un qualcosa relativo alla forma e all’idea poetica, e si veda come esempio il poema dei “Tiri Burloni di Till Eulenspiegel” (Till Eulenspiegels lustige Streiche), dove il protagonista della storia è un burlone che ne fa di tutti i colori prima di essere impiccato (c’è del grottesco, se si vuole). Naturalmente si tratta di una rivoluzione sul piano dell’ispirazione, poiché mai prima d’ora un poema sinfonico aveva avuto un’idea poetica così “poco poetica”, nè mai un soggetto di ispirazione era stato così “oggettivato” in musica più che “soggettivizzato”, ma ciò se vogliamo è anche dovuto all’ironia nella sua seconda accezione, concepita cioè come pura padronanza della forma, attraverso la quale Strauss mostra di essere talmente maturo e di sapersi allontanare dal neoromanticismo in totale autonomia (e qui torna la definizione di Sinopoli). Infine c’è l’accezione nostalgica dell’ironia, relativa alla parte matura dell’esistenza di Strauss, dove però si è persa qualsiasi traccia di riso: dove l’immersione in un universo musicale ormai totalmente cambiato nel giro di pochi decenni, porta al riuso addirittura di elementi dell’opera italiana (Der Rosenkavalier) o ad una vena romantica assolutamente struggente (Metamorphosen, con un accenno al tema beethoveniano della Marcia Funebre del’Eroica).
Nello Zarathustra coesistono le prime due accezioni, e Strauss non si adatta al soggetto filosofico che gli funge da ispirazione, anzi lo sbeffeggia in certi punti, poiché il superuomo non viene tradotto musicalmente in un elemento grandioso che possa dare un’idea della volontà di potenza, bensì in un ridicolo valzerino dopo una lunga attesa di contrasti tematici e “battaglie” contrappuntistiche in cui religione, dogmatismo, scienza e natura si danno battaglia.
Si potrebbe dunque azzardare a dire che Strauss fornisce una visione personale filosofica anche dell’esistenza, che ancora un volta, in quanto allontanamento e critica, costituisce una forma di ironia.
Proviamo ora a seguire brevemente il percorso musicale soffermandoci su piccole tappe fondamentali di questa meravigliosa trama sonora. Il poema comincia con un motivo celeberrimo, quello della natura, un capolavoro orchestrale che evoca l’esplosione cosmica da una vibrazione primordiale realizzata dai bassi che vibrano in pianissimo e che ricorda i primi minuti del Rheingold di Wagner in cui prende corpo a poco a poco dal nulla un accordo di Mi bemolle maggiore: Strauss costruisce brevi frammenti melodici sulle note degli armonici fondamentali di Do maggiore (Arpeggio vuoto, senza la terza: Do3 – Sol3 – Do4) e su accordi consecutivi di Do Maggiore/Do Minore e poi Do minore/Do Maggiore (quindi con la terza) che creano un senso di assoluta neutralità, quasi a mostrare come la natura non sia nè in maggiore nè in minore, ma un qualcosa di fondamentale, primordiale, la base di tutto, da cui non si scappa. Le note successive riprendono in un semplicissimo contrappunto quelle dell’accordo di Do, poi si passa ad un Sol che offre la cadenza, la quale non può far altro che rafforzare ancora di più la tonalità. Questo breve preludio è intensissimo, pieno, materico, a dir poco metafisico e definitivo, un’affermazione possente, e in questa forma il tema non comparirà mai più, se non accennato diversamente. Tale incipit è sufficiente però ad imprimerlo violentemente nella testa dell’ascoltatore.
Dopo un inizio del genere, che farebbe balzare dalla poltrona qualsiasi pubblico del mondo, e che incarna la natura, si potrebbe veramente dimenticare ciò che si è sentito? Secondo Nietzsche si: l’Oltreuomo è il superamento delle fasi precedenti, ma Strauss, che potrebbe tranquillamente superare questo tema rielaborandolo e amplificandolo, non lo farà mai. Da qui già intravediamo forse una presa di posizione personale. Terminato questo tema si passa al motivo del terrore dell’uomo, rappresentato da un arpeggio in Si minore, il quale dapprima viene superato dalla celebre cellula motivica gregoriana del “Credo in unum deum” (sopra la quale in partitura Strauss scrive la formula testè citata), metafora del dogmatismo, e poi si passa al motivo religioso, intonato dagli archi con un meraviglioso corale.
Intravediamo qui un’altra scelta ideologica di Strauss contraria all’assunto nietzschiano: la religione dovrebbe essere trattata con ironia da Strauss secondo il modello filosofico, poichè uno degli obiettivi di Nietzsche è proprio quello di smantellare 2000 anni di credenze religiose e impalcature di certezze, ma egli (il quale non faceva riserbo dei suoi sentimenti anticristiani) scrive sulla partitura un motivo dolcissimo, che di ironico non ha assolutamente nulla; eppure Strauss potrebbe essere ironico quanto vorrebbe, quantomeno rendendo questo tema “dolciastro”, “acidulo”. Definiti questi tre temi, si passa dopo ad un momento in cui essi si “scontrano” in una sorta di lotta dove nessuno riesce a prevalere sull’altro, per poi passare al momento “Delle gioie e dei dolori” (ripreso dal trattato nietzschiano) dove ancora una volta Strauss va oltre il filosofo poiché interpreta il titolo come una lotta di passioni e non come un allontanamento progressivo da esse (come Nietzsche aveva scritto): qui ritroviamo anche il celebre momento del disgusto, che incarna l’attimo in cui l’uomo si accorge che le passioni sono eccessive, e decide di prenderne congedo.
Si arriva così alla seconda parte del poema, dove compare per la prima volta la scienza: l’uomo tenta una comprensione della sua natura cosmica mediante la razionalità. Ma al contrario di prima, qui Strauss rimane sostanzialmente fedele all’assunto nietzschiano: ancora una volta il titolo apposto da Strauss sulla partitura sottoforma di didascalia è preso dal testo di riferimento: “Della scienza”. Ascoltiamo l’intera sezione, compresa nel primo filmato e nella prima parte del secondo.
Sorprendentemente accade qui in musica qualcosa di straordinario: 40 anni prima della dodecafonia appare una Serie ante litteram, la quale ci dimostra a più di un secolo di distanza come Strauss, considerato nel 1896 già abbastanza retrò, fosse un compositore straordinariamente profetico. Naturalmente egli è inconsapevole: non fa altro che costruire una fuga, nella quale il primo soggetto è costituito da un arpeggio vuoto di Do maggiore (tema della natura: Do – Sol – Do) che abbassandosi di un semitono sul Si compie l’arpeggio discendente del tema dell’uomo di cui si è detto sopra (Si minore discendente: SI – Fa diesis – Re) per poi ripetere lo stesso meccanismo ma partendo ogni volta da accordi che non sono rapportati tra di loro “funzionalmente”, cioè secondo una gerarchia di rapporti, bensì cromaticamente, ossia partendo ogni volta dal semitono più vicino: ecco allora che si ottiene una Serie, potremmo dire; il secondo soggetto della fuga parte poi (come avrebbe fatto anche Bach) dal V grado (Sol), la dominante, compiendo lo stesso lavoro del soggetto precedente. Ma il terzo soggetto non ritorna al I grado (Do, come avrebbe fatto Bach!) bensì si sposta di un’altra quinta, sul Re, e quello successivo di un’altra quinta ancora, fino a che tutto il circolo delle quinte non viene attraversato. Bartok, che si considerava immensamente debitore dello Zarathustra di Strauss, cita volutamente questo tema di fuga all’inizio del suo Musica per archi percussione e celesta (in pieni anni 30!) inserendo tutti gli ingressi seguendo il circolo delle quinte.
Ma perchè gli ingressi seguono questo percorso senza mai tornare a quello iniziale? Strauss vuole rappresentare la scienza come una realtà che non torna più sui suoi passi, ma che perde il controllo per erompere nella follia. Mentre infatti la fuga si sta sviluppando ecco comparire e sovrapporsi armoniosamente un motivo molto gaio, quasi a simboleggiare la gioia della razionalità, ma quanto più ci si avvicina alla stretta (parte finale della fuga) tanto più la situazione inizia a precipitare: comincia a crearsi il caos, i temi si accavallano, il controllo sembra cedere, inizia un nuovo contrasto, la razionalità sembra sgretolarsi ed ecco che al culmine, come un tuono, erompono prepotentemente tre note, un rimbombo metafisico che spazza via ogni lotta: DO – SOL – DO, il motivo iniziale, la natura che esplode, il cosmo che erompe, ineliminabile, ineluttabile quasi come un fato tragico e che impone prepotentemente la sua presenza, il tema che l’ascoltatore dopo l’inizio non ha mai più dimenticato.
Dopo questo episodio cosa resta? Per Nietsche naturalmente il superuomo rimane la soluzione ultima, ma Strauss sembra optare per una soluzione se non opposta, almeno mediana, poichè il motivo del superuomo compare, preparato da una sezione introduttiva ma in veste assolutamente ridicola: un effimero Valzer da caffè viennese, volutamente banale, nella cui interpretazione però parte della critica si divide, vedendo in esso addirittura uno slancio vitalistico (chi scrive è d’accordo con un’interpretazione ironica). Ascoltiamolo.
Basta fare un salto alla fine per vedere che il poema termina in maniera alquanto incognita: l’orchestra si polarizza tra un acuto, rappresentato da un pedale dei violini, e un grave, rappresentato dai bassi che ripetono quella nota profonda in pianissimo da cui aveva preso origine all’inizio il poema, quella “vibrazione primordiale” da cui si origina il tutto.
Qual è allora la soluzione al dilemma? Che per Strauss non sia allora veramente questo il superuomo? Ossia l’uomo che prende consapevolezza non tanto di sé, ma più che altro di quella forza della natura onnipresente ed ineliminabile? D’altro canto si potrebbe anche azzardare a dire che quel suono che origina e termina il poema sia l’equivalente dell’Eterno Ritorno dell’Identico che Nietzsche arriva a concepire nella suddetta opera come annullamento della visione teleologica giudaico-cristiana del cosmo (ossia il mondo con un inizio, una fine e uno scopo) e la proposizione di una visione stoica ciclo infinito, ma forse ci si spingerebbe troppo oltre, considerando che nel poema la religione sembra essere trattata con rispetto consolatorio (ma le interpretazioni vanno prese con le dovute cautele, perchè come si è detto Strauss è in parte affascinato dai temi nietzschiani). La certezza interpretativa sui passi di Also sprach Zarathustra è dunque difficile da ottenere, in mancanza di indicazioni programmatiche. Propendere per la prima ipotesi potrebbe allora essere una prima soluzione: la scienza non è fonte di gioia e di conoscenza, né spiega i misteri della vita; il suo ruolo è limitato, e forse solo la consapevolezza delle leggi della natura e del cosmo e la loro accettazione sono in grado di fornire conforto ai misteri insondabili della vita umana.