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Steve Reich: un sound extra-occidentale  

di Antonio Alberti - 16 Gennaio 2018

Nato nella New York di metà anni ’30 Steve Reich si avvicinò ben presto alla musica, coltivando fin da piccolo un’ampia cultura musicale. In una intervista recente disse: “sono diventato compositore perché amavo Bach, Stravinsky e il Bebop ma non erano compresi nel menù”.  Studiò filosofia alla Cornell University e composizione alla Julliard School of Music di New York e poi al Mills College in California, come molti musicisti di quel periodo (tra cui Luciano Berio). La sua carriera attraversa tutta la seconda metà del secolo scorso fino ad oggi, e riguarda una musica inizialmente intrisa di filosofia che poi è andata configurandosi sempre più come poetica personale per “cercare di scrivere la migliore musica che potesse e che la gente poi amasse”.  Reich, da ascoltatore vorace, ebbe da subito una precisa concezione musicale, dalla prassi compositiva fino all’ascolto vero e proprio. Nel brevissimo saggio scritto nel 1968Musica come processo graduale, spiegando la sua concezione di composizione scrive che bisogna udire il processo nel suo svolgimento sonoro. Crede che “per facilitare l’ascolto particolareggiato” i processi musicali debbano essere contraddistinti da una certa “gradualità”, per un processo compositivo tutt’uno con la realtà sonora. Invoca quindi una chiarezza estrema del processo musicale per dirigersi verso un nuovo rapporto con l’ascoltatore rispetto al quale questa musica si presenta più agevole, comprensibile e conciliante, senza artifici nascosti:
<blockquote cite=”Steve Reich,Musica come processo graduale, .” type=”left”>Non conosco alcun segreto nella struttura che non si possa udire. Il ricorso a meccanismi nascosti nella musica non mi ha mai attirato. Ci sono misteri (che sono prodotti psicoacustici, impersonali e involontari) a sufficienza per soddisfare tutti anche quando il gioco è scoperto e chiunque può ascoltare quanto si svolge gradualmente in un processo musicale.

Il processo musicale che si svolge gradualmente estende le capacità percettive del singolo, mettendolo in contatto diretto con quello che Reich chiama “l’impersonale”, come in una specie di rito liberatorio, trasferendo l’attenzione dal “tu” e dall”io” verso l’esterno, sull’”esso”. Così i dettagli del suono possono allontanarsi dalle intenzioni del compositore e seguire la propria indipendente logica acustica. È proprio questo a rendere interessante l’ascolto potenzialmente infinito dello stesso processo musicale. È possibile, poi, che il materiale suggerisca il processo adatto a svolgerlo, cioè che sia il contenuto a suggerire la forma, oppure viceversa che il processo suggerisca la tipologia di materiale da utilizzare (allora la forma suggerirebbe il contenuto).

Nel brano Come Out (1966), Reich utilizzò la voce campionata di un giovane carcerato che, procuratosi dei lividi sul corpo, voleva dimostrare d’esser stato picchiato dagli agenti e così uscire di prigione. Reich registrò il frammento “come out to show them” su due canali in sincronia che poi si andavano sfasando, prima in un riverbero e poi quasi a canone, in un loop continuo fino all’incomprensibilità delle parole. Non c’è tonalità se non quella della voce del carcerato, che il compositore lascia inalterata per “il potere emozionale che ha”, mentre è il ritmo e la gradualità con cui si presenta, ad avere interesse centrale.

Nel 1982 il brano (insieme a Violin Phase e Piano Phase), fu poi coreografato da Anne Teresa De Keersmaeker, aggiungendo la danza, un importante tassello per tutta la composizione, donando maggior significato all’opera, nonché maggior fruibilità ed efficacia.

Pendulum music (1968), fu invece una performance risultato dell’utilizzo di processi sperimentali con nastri sonori di natura differente a circuito, che si ripetevano sfasandosi progressivamente. Così, all’essenzialità e alla gradualità, Reich associò la tecnica del phasing. Questa consiste nel mettere in parallelo due elementi musicali ma a velocità differenti fino ad arrivare alla sfasatura ritmica, che induce l’ascoltatore a una sensazione contraddittoria di ripetizione e cambiamento.

Nel saggio del ’68 aveva usato l’esempio dell’altalena spinta e lasciata andare mentre ritorna gradualmente all’immobilità, un processo che, una volta innescato, va avanti da solo.

È opportuno sottolineare la stretta relazione, in questo periodo, con La Monte Young, Philip Glass, Brian Eno, Terry Riley, personaggi con i quali Reich inaugurò la cosiddetta minimal music, una musica dall’aspetto rivoluzionario, che per molti fu tale più nelle ragioni (meta-musicali) che determinarono quel linguaggio musicale (gradualità, semplicità, ripetitività) che nel linguaggio stesso. Steve Reich non si identificò mai in maniera rigida con la corrente minimalista e ben presto iniziò ad approfondire le esperienze di musica africana già fatte in adolescenza. A partire dalla fine degli anni ’60 studiò le tecniche percussive con il maestro di una tribù in Ghana e sperimentò su ritmo e rumori, per cercare di riportare quel suo discorso musicale (chiamato processo) al maggior grado di semplicità. Affondando la sua ricerca nelle strutture circolari africane, e concependone il ritmo come motore generatore di un divenire, Reich trova una nuova chiave di lettura per il suo sound. È proprio nel cercare di non imitarsi mai, che riesce a creare situazioni sempre interessanti poste al limite tra la musica occidentale e altre suggestioni “extra-occidentali” (orientali, africane o addirittura arcaiche e primitive).

Nell’opera Drumming (1970) utilizzò esecutori e strumenti acustici (bonghi, marimbe e glockenspiel) dalle sonorità più ricche rispetto agli strumenti elettronici, attribuendo loro maggiore importanza rispetto al ruolo marginale che potevano avere nella musica colta occidentale. Importante per il compositore non sono le sonorità o il colore esotico di tali strumenti quanto le strutture della musica africana, dal carattere più intellettuale, da cui estrarre qualcosa di originale. Questo attento lavoro di Reich sulle variazioni ritmiche e timbriche hanno offerto nuovi spunti rispetto alle prerogative di tonalità e rigore della musica colta. Nell’ottica odierna si potrebbe parlare non di poliritmia ma di multiritmia, cioè multipli dello stesso ritmo, spesso quasi ipnotici, che portano il pubblico a percepire interattivamente e più profondamente l’esperienza artistica offerta e pensata dal compositore.

Da una iniziale opera eversiva che oltrepassasse la musica dodecafonica, che Reich stesso definì “come il muro di Berlino”, dei brani Violin Phase, Piano Phase, Come out, fino a Drumming e Clapping music, passò poi ad un atteggiamento più moderato e al passo con i tempi, aggiornando costantemente i suoi criteri compositivi e scrivendo brani per molti strumenti.

Con Music for 18 Musicians (1976), Reich non solo raggiunse il suo più grande successo e una più consapevole maturità artistica, ma arrivò a costituire uno dei punti di riferimento della musica del Novecento. Considerata una delle meraviglie assolute della musica, è una composizione con molte armonie, dalla struttura viva ed espressiva e con un sound esuberante, che ha dimostrato come il minimalismo fosse molto più di una moda musicale effimera.

Altri lavori di ampia articolazione furono Music for a Large Ensemble (1978), Variations for Winds, Strings and Keyboards (1980), Tehillim (1981).

Compose però relativamente pochi pezzi per orchestra, generalmente preferendo lavorare con ensemble più piccoli, per raggiungere più facilmente gli alti livelli di precisione richiesti dalla sua musica. In The Desert Music (1984), compose una grandiosa opera con coro e orchestra, per le ambientazioni delle poesie di William Carlos Williams.

In Different Trains (1988), ricordò il viaggio in treno attraverso gli Stati Uniti che intraprese da bambino negli anni ’40, con una riflessione sui viaggi in treno degli ebrei verso l’olocausto (origini che aveva già riscoperto nel quartetto di voci femminili in Tehillim del 1981). Campionò fischi di treni diversi, alcuni lavoratori delle ferrovie degli Stati Uniti e insieme le interviste dei sopravvissuti all’Olocausto, segnando un ritorno all’uso del campionamento. A questa parte sonora elettronica Reich giustappose la scrittura per quartetto d’archi sempre derivata dai ritmi del parlato su nastro.

In opere più recenti Reich e sua moglie, insieme al videoartista Beryl Korot, fecero la loro prima incursione nel teatro musicale con The Cave (1993), un’esplorazione della storia dell’Antico Testamento che combina interviste e documentari con la musica di Steve Reich.

In City Life (1995) furono impiegate registrazioni della “realtà di suoni” della New York metropolitana e frenetica, utilizzando sempre l’ormai acquisito uso del campionamento. In una intervista Reich dichiarò di aver risposto al bisogno di denuncia personale verso l’inquinamento acustico delle grandi città, dopo essersi da anni trasferito in campagna.

In Three Tales “Hindenburg”, “Dolly”, “Bikini”, un trittico in video molto più ambizioso (Hindenburg, Bikini e Dolly), fu esaminato l’impatto della tecnologia sulla vita nel XX secolo.

Ma l’altro capolavoro assoluto fu Double Sextet (2007), che gli valse il premio Pulitzer per la musica nel 2009. Il brano può essere suonato da due gruppi identici di venti archi, vibrafono e pianoforte, o con uno dei sestetti pre-registrati su nastro. Le coppie di pianoforti e vibrafoni tracciano una guida per gli spostamenti tonali, mentre gli altri strumenti hanno altre forme melodiche.

Ben consapevole dell’influenza della sua musica sulle generazioni successive di musicisti, in Radio Rewrite (2012), Reich decise a sua volta di ripagare questa ammirazione utilizzando un paio di canzoni di Radiohead, Jigsaw Falling Into Place e Everything in the Right Place, come base per un lavoro di cinque movimenti per un ensemble di 11 elementi.

La poetica personale di Reich, nonostante solidi punti fermi, fu sempre in costante evoluzione. La sua produzione è ancora oggi aperta e influente, dopo che nel 2014 gli è stato assegnato dalla Biennale Musica di Venezia il Leone d’oro alla carriera. A tal proposito disse: “Questo premio è il segno del cambiamento delle cose, doveva arrivare prima ma meglio tardi che mai“.

Antonio Alberti

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