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Specchi e prismi

di Artin Bassiri Tabrizi - 12 Maggio 2020

Fauré e l’inesprimibile

Gabriel Fauré fu a lungo del tutto ignorato al di fuori della Francia e ancora oggi fatica a trovare il suo posto nelle sale da concerto. Secondo Aaron Copland – nell’articolo del 1924 Gabriel Fauré: A Neglected Masterquesto mancato riconoscimento deriva da un lato dall’essenza intrinsecamente francese della sua arte, che perde di vigore se eradicata dal proprio contesto, dall’altro da un fattore quasi psicologico: la carriera musicale di Fauré avrebbe infatti seguito uno sviluppo insolitamente lento e la fama di grande compositore lo avrebbe raggiunto solo dopo il traguardo del mezzo secolo. In effetti, la sua originalità, tardiva e non intrusiva, passò spesso inosservata nella cerchia dei critici musicali: la nuova generazione si rivolgeva entusiasta alle innovazioni impressionistiche di Debussy, mentre i critici più attempati lo avevano ormai liquidato come il compositore per antonomasia dei salotti parigini.

Le pubblicazioni che precedono il 1895 erano passate in sordina persino in Francia – tra le quali si annoverano alcuni dei maggiori capolavori, come il Requiem, le splendide raccolte di melodie e i primi cinque notturni – e furono rivalutate solo alla luce della fama successiva. Caso curioso e unico, Fauré sembra aver trovato la sua serenità compositiva – si dice, del resto, che abbia sofferto di depressione fino ai quarantacinque anni – solo nell’ultimo quarto della sua vita, componendo lavori di una limpidezza e uno spirito straordinariamente giovanili con il passare degli anni. Se però nel resto dell’Europa e in America era quasi del tutto sconosciuto, Fauré fu considerato da un certo pubblico parigino dell’epoca uno dei più grandi compositori francesi, a condividere il piedistallo con Chopin. Di indole modestissima e timida, Fauré venne onorato da parte del Governo francese, il cui riguardo dimostra quanto il suo genio e la sua influenza fossero indiscussi in patria: fu eletto membro dell’Institut de France e comandante della Legion d’onore nel 1909, nella primavera del 1922 ricevette un omaggio nazionale nell’Anfiteatro della Sorbona alla presenza del presidente della Repubblica. 

Fauré fu definito da Copland “il Brahms della Francia” per la grandezza del suo genio e della sua tecnica, per uno stile originale e personale – quel je ne sais quoi che rende le composizioni di entrambi assolutamente inequivocabili – e per la loro generale predilezione per la musica da camera e i Lieder. Una tessitura formale limpida e chiara rivela inoltre in entrambi una complessità di fondo, una qualità inaccessibile nella loro arte. Dietro la semplicità apparente della musica di Fauré si cela uno stile e un gusto che poco o nulla sembra trarre dai suoi colleghi più illustri, primi tra tutti il modello indiscusso dell’epoca, Richard Wagner. Di certo, Fauré era rimasto affascinato dalla figura di Wagner e si era più volte recato a Bayreuth con l’amico André Messager, insieme al quale si divertiva a improvvisare nei salotti dei nobili bavaresi danze sui Leitmotive dell’Anello, che confluirono nei deliziosi e parodistici Souvenirs de Bayreuth del 1880. Mentre si concedeva di canzonare la grande opera tedesca, così come di imitare le scritture di altri compositori – lo sviluppo artistico di Fauré procede però nella sua interiorità, sciolto da forti legami con le correnti musicali del tempo. La sua poetica nasce da una particolare sensibilità armonica, un amore per le linee pure incasellate in una filigrana di inaspettate e colorite modulazioni, dagli inauditi rimandi caleidoscopici. Per citare il critico musicale parigino Emile Vuillermoz “amare e capire Fauré è un privilegio e non è difficile trarne una sorta di orgoglio innocente. È il segnale di un orecchio sottile, l’indicazione lusinghiera di una raffinata sensibilità.”

Fauré nacque il 13 maggio 1845 a Palmier e iniziò la sua formazione musicale presso l’allora rinomata École Niedermeyer, dove studiò composizione con Camille Saint-Saëns. Sebbene li separassero appena dieci anni, Fauré nutrì per tutta la vita profondo rispetto e riverenza nei confronti del Maestro. Elemento alquanto curioso, per Copland, che intravede nel loro rapporto lo stesso salto che intercorre tra Mendelssohn e Bach, la differenza tra talento e genio. Alla composizione Fauré affiancò fin da subito il lavoro di organista e di insegnante. Il 1896 fu un anno fortunato: Fauré venne nominato capo organista alla Madeleine di Parigi e sostituì Jules Massenet nella cattedra di composizione al Conservatorio di Parigi. Attorno alla sua figura si riunì allora una cerchia di allievi più che invidiabile, nessuno dei quali, curiosamente, sembra tuttavia essere stato fortemente influenzato dalla sua poetica: Maurice Ravel, Florent Schmitt, George Enescu, Jean Roger-Ducasse, Louis Albert, Charles Köchlin, Nadia Boulanger e Alfredo Casella. Ma Fauré non fu solo Maestro dei suoi allievi. Georges Auric, portavoce del “Gruppo dei Sei”, gruppo nazionalista sorto a Parigi in reazione all’impressionismo di Debussy e al wagnerismo dominante, definì Fauré “Maestro di noi tutti”.

La maggior parte degli studiosi concorda nell’individuare tre fasi principali nella produzione musicale di Fauré, sebbene essa sia in realtà intimamente coesa e si possano scoprire continui rimandi e premonizioni per tutto il corso della sua vita. Il primo periodo compositivo, che per la maggior parte degli studiosi giunge fino al 1884-1885, è fortemente influenzato dall’estetica del romanticismo tedesco: le sonorità e le ripartizioni formali rispecchiano i capolavori chopiniani e schumanniani (e non solo). Si pensi alla prima melodia composta da Fauré all’età di sedici anni (1861), Le papillon et la fleur: oltre al nome, anche l’intera struttura compositiva è un richiamo al Papillon di Schumann.

Se quindi in un primo momento si diverte a mascherarsi da riflesso delle correnti musicali del tempo, Fauré troverà nell’ultimo periodo il gusto nel distorcerne gli stilemi in un radicale alleggerimento della struttura, innestando nelle armonie arditezze di audace freschezza. L’evoluzione compositiva risulta chiaramente dall’ascolto delle melodie per voce e pianoforte, più di un centinaio, che datano dal 1865 fino alla sua morte. Ne citiamo qui alcune, di fragile bellezza, come Clair de Lune, Les Berceaux e Les Roses d’Ispahan, dal primo volume, e la più tarda Les plus doux chemin.

Un capolavoro del periodo intermedio, assieme alla famosissima Pavane op. 50, è poi il Requiem del 1887 per voci solistiche, coro, organo e orchestra. Scevro da manifestazioni troppo solenni di sofferenza, nessuna inquietudine o agitazione disturba la profonda meditazione di questo lavoro di un’umiltà commovente, che sembra cullare l’umanità verso una morte serena (il sottotitolo berceuse de la mort appartiene a Fauré stesso).

La produzione pianistica di Fauré manifesta dichiaratamente, già nei titoli, un richiamo all’estetica romantica – in primo luogo a Chopin, ma anche a Mendelssohn e Schumann: tredici Notturni, tredici Barcarolles, sei Improvvisi,  quattro Valses-Caprices, nove Preludi, otto Pezzi brevi, tre Romanze senza parole, una Mazurka, un Tema e variazioni, infine la suite a quattro mani Dolly op. 56 e due composizioni  per pianoforte e orchestra, la Ballata op. 19 e la Fantasie op. 79.

I Notturni palesano la loro parentela con gli omonimi chopiniani. Come per Chopin, in Fauré è prediletta una struttura tripartita in cui la sezione centrale costituisce un’antitesi dal punto di vista agogico e melodico rispetto alle più tranquille sezioni esterne. Eppure, già nel primo Notturno è possibile individuare quello che sarà il carattere propriamente “faureano”: la presenza quasi ossessiva del contrappunto che impedisce alla melodia di svilupparsi liberamente – cosa che avviene, al contrario, nei Notturni chopiniani; il ritmo spesso sincopato; ma, soprattutto, il differente utilizzo del materiale armonico. Da questo punto di vista, i Notturni faureani rappresentano quello che per Chopin erano i Preludi: un luogo di grande sperimentazione armonica. Fauré, infatti, arricchisce lo spettro armonico prendendo in prestito note dal modo eolio, frigio e lidio. È soprattutto nella seconda fase della sua produzione che questa caratteristica prenderà una forma compiuta e diverrà un suo marchio di fabbrica. Si pensi, come esempio perfetto, al Settimo Notturno op.74. Qui la fonte chopiniana è ormai esaurita, ed è evidente come Fauré sia alla ricerca di qualcosa di totalmente nuovo.

La scrittura di Fauré qui risulta addirittura sovraccarica. Tuttavia, si tratta di un sincretismo creato con grande maestria nonostante siano accostati tra loro elementi davvero eterogenei. La prima sezione è molto più vicina ad una composizione organistica che ai lirismi chopiniani; una melodia è praticamente assente, e il ritmo sincopato evoca un’atmosfera di pesantezza che viene sciolta dall’ariosa sezione centrale.

L’utilizzo sempre più frequente di un ordine compositivo modale comportò il progressivo disfacimento delle polarità minori o maggiori. Eppure, si creano inevitabilmente delle associazioni (verticali) che il nostro orecchio scambia per una linea tonale. La sovrapposizione di questi due sistemi causa degli “equivoci armonici”, che deviano le nostre aspettative come un prisma devia la luce in maniera imprevedibile. Si pensi al Quarto Preludio op.109, dove nella sesta battuta il si bemolle diviene si bequadro, e il modo lidio viene scavalcato dalla trasformazione del si nella sensibile di do maggiore, tant’è che il nostro orecchio si perde in questa doppia possibilità, rimanendo spiazzato dall’esito finale.

L’equivoco armonico è anche generato da accordi di note equidistanti tra loro (di nona, di tredicesima, ecc.), che scatenano una generale sensazione di instabilità, poiché non tendono a nessuna tonalità precisa. Nessuna delle armonie è riconfermata e quindi stabilita definitivamente. In tal senso è possibile inquadrare l’impressione di Vladimir Jankélévitch, che associa la musica di Fauré al perpetuo scorrere dell’acqua. La musica si muove continuamente, spostandosi di armonia in armonia senza mai cadere.

Il tempo gioca un ruolo fondamentale nella musica di Fauré. Gli equivoci, infatti, possono essere compresi solo retrospettivamente, e nel fluire costante della musica il passato armonico viene costantemente reinterpretato alla luce del presente. Per Jankélévitch questa è l’arte “di far desiderare la tonalità”, o meglio il ritorno alla tonalità originaria. Ecco che Fauré, anzi che affermare altre tonalità, vi allude trasformando ogni accordo in un prisma che proietta la luce in altre direzioni, talvolta imboccandole, talvolta fingendo di seguirle.

Accordi dissociati dalle funzioni armoniche fanno sì che sia impossibile per chi ascolta indovinare la tonalità, di modo che venga a mancare il sistema di riferimento armonico. Senza un sistema di riferimento, l’ambiguità diventa incertezza. Questo tipo di strategie compositive, che nel primo periodo sono molto rare, furono la causa di una nomea particolare: da una parte Fauré era stato considerato un compositore più elegante che profondo (d’altronde questo pregiudizio è ancora oggi difficile da sradicare); dall’altra, il suo ultimo periodo compositivo – quando Fauré era affetto da una quasi totale sordità – aveva sconcertato il pubblico, e persino Saint-Saëns affermava di non comprendere affatto la direzione intrapresa dal più giovane amico. Il Tredicesimo Notturno, op. 119 (1922), l’ultima opera pianistica composta suggella l’inaccessibilità dell’ultimo Fauré. Ci troviamo di fronte, ancora una volta, alla struttura tripartita. Ma una vera e propria melodia non è rintracciabile: è data totale libertà ad un corale in cui le mani si trovano vicinissime, in uno stato meditativo e solenne. Si tratta di un momento tipico dell’ultima fase faureana, in cui si palesa la ricerca di qualcosa di inesprimibile, una ricerca che sembra alimentarsi da sola fino al suo naturale esaurimento.

L’estetica di questo Notturno porta a domandarci ancora una volta quale sia la peculiarità della poetica di Fauré, in quale modo essa si distingua con forza dalle sue contemporanee. Se questa non descrive né evoca mai paesaggi, se essa non è quindi una musica “pittoresca”, né tantomeno descrittiva – basti pensare ancora una volta a come poco siano innovativi, rispetto al contemporaneo Debussy, i titoli delle sue composizioni – è perché non era questo il suo scopo. Com’è possibile che questa musica “delle sfere” (J.-M. Nectoux), che non vuole mai uscire dalla sua nebulosità, che non riesce ad essere incisiva né invadente, abbia un potere così forte sulla nostra immaginazione? Secondo Jankélévitch, l’opera di Fauré è essa stessa letteraria senza far riferimento ad alcunché di letterario. Non solamente Fauré aveva compreso come per dire qualcosa fosse più efficace alludervi piuttosto che affermarlo direttamente, ma egli si era impossessato di tutto il potere della musica: egli domava perfettamente la sua ambiguità semantica, la sua plurivocità. 

Artin Bassiri Tabrizi e Ester de Stefano

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Dottorando in filosofia all'Università di Strasburgo (ACCRA), già laureato all'EHESS di Parigi e diplomato al Conservatorio F. Morlacchi di Perugia. Segretario artistico di Roberto Prosseda, collabora per diverse riviste.

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