Scendere dal podio
di Filippo Simonelli - 14 Ottobre 2018
una retrospettiva su Bernstein, l’uomo
La pagina di Wikipedia dedicata a Leonard Bernstein si apre con un aforisma del filosofo Carlo Serra, che lo descrive come «[…] il più grande pianista tra i direttori, il più grande direttore tra i compositori, il più grande compositore tra i pianisti […].», una frase che rende bene l’idea di quel che Bernstein è stato nell’immaginario collettivo. Un genio della musica, totalmente devoto all’arte a cui si era consacrato in ogni maniera possibile ed immaginabile. Eppure, considerare solo questo aspetto non ci offre un quadro completo di chi Leonard Bernstein sia stato nella vita di tutti i giorni. E le esperienze personali, condite da una voracità onnivora di esperienze fin dalla più tenera età, hanno formato non solo la personalità ma anche il modo di stare al mondo di un’importante figura della vita americana, e soprattutto il suo modo di approcciarsi alla musica, in ciascuna delle angolazioni da cui era in grado di interpretarla. Per questo vale la pena di soffermarcisi un po’.
Leonard Bernstein, nato Louis a Lawrence, nel Massachussets il 25 agosto 1918, proveniva da una famiglia di ebrei di origine ucraina. I suoi genitori, Jennie Resnick e Samuel Joseph Bernstein, avevano vissuto una storia di emigrazione come tante in quegli anni in cui l’America era la nuova terra promessa. Appena approdati nel nuovo mondo, si erano da subito dedicati al commercio di prodotti cosmetici con discreti risultati, fino a diventare nel giro di un decennio una famiglia relativamente benestante ed affermata nella provincia bostoniana. Un background piuttosto comune per l’East Coast dell’epoca, curiosamente simile a quello di due altri giganti della musica americana, George Gershwin ed Aaron Copland, discendenti anche loro di ebrei migrati dai territori dell’allora impero zarista. Accanto alla vocazione imprenditoriale, Samuel cercava di impartire i fondamenti dell’educazione religiosa ai suoi figli, Leonard, Shirley e Burton. Nelle sue memorie, il giovane Leonard Bernstein racconta spesso di come il padre improvvisasse sermoni a tavola o interrompesse le attività che stavano svolgendo per coinvolgere il resto della famiglia in momenti di meditazione. In gioventù Samuel aveva coltivato il sogno di diventare rabbino, dovendo poi ripiegare su attività più redditizie anche per sopravvivere alle insidie che il nuovo mondo avrebbe potuto presentare; ma nel privato non rinunciava mai a momenti di intimità religiosa in cui riusciva ad essere particolarmente coinvolgente grazie ad una spiccata oratoria e ad un fare molto enfatico. La vita della famiglia, per il resto del tempo, si svolgeva in maniera molto ordinaria, ma questo non impedì ai tre figli della coppia di sviluppare una vena artistica spiccata: Burton divenne una delle firme di punta del New Yorker e Shirley una delle più importanti agenti teatrali della grande mela. Nell’industriosa austerità della routine domestica apparentemente questi aspetti creativi rimanevano sopiti, ma i tre fratelli, che sarebbero rimasti fortemente legati per tutta la vita, avevano sviluppato una sinergia profonda, tanto da inventare un proprio linguaggio in codice (cosa di per sé non così insolita) che continuarono ad usare nella corrispondenza e anche per comunicare di persona per tutta la vita. Shirley inoltre rimase una delle confidenti più fidate del fratello in tutti i periodi più bui e difficili della sua carriera, destinataria di decine di lettere e confessioni da ogni luogo in cui si trovava, e curiosamente anche fondamentale per superare la timidezza di Leonard con quella che sarebbe diventata la sua futura moglie, Felicia.
Samuel Bernstein nutriva profonde riserve sui nascenti interessi musicali del figlio, ma nondimeno fu il primo ad accompagnarlo ai concerti sinfonici diventando lentamente il primo dei suoi sostenitori, anche se il rapporto tra i due sarebbe stato sempre piuttosto ondivago, in parte causato anche dalla stringente e meticolosa disciplina che il padre cercava di imporre ai suoi figli. La situazione fu diversa nel rapporto che Lenny ebbe con i suoi tre figli Jamie, Alexander e Nina, nati dal matrimonio con la cantante ed attrice Felicia de Montealegre nel 1951. La maggiore, Jamie, ha raccolto le sue memorie in un libro fondamentale per tracciare una figura completa del padre all’ombra della sua musica: nonostante le innumerevoli necessità della sua carriera, i tre figli della coppia Bernstein-Montealegre crebbero circondati da un affetto che difficilmente siamo abituati ad immaginare per i figli delle celebrità. Quando non era fuori per impegni di lavoro, Bernstein si dedicava appieno alla cura del suo tempio domestico, cercando di riempire la vita familiare di stimoli ed idee sempre nuove. L’infanzia dei tre fu costellata di feste, sport, viaggi, il tutto preferibilmente condito dall’immancabile intrattenimento musicale a cui Bernstein provvedeva di persona, incrociando le sue doti di musicista e showman per diventare il perfetto juke-box umano, in compagnia di celebrità illustri: come dimenticare i doppi a tennis con Isaac Stern, i giochi di ruolo con Stephen Sondheim o le interminabili partite di scarabeo che si trasformavano quasi in questioni d’onore?
Leonard Bernstein in famiglia
Accanto al lato più giulivo e giocoso, i tre diventavano di frequente anche delle piccole e benevole cavie per gli esperimenti didattici del padre. Negli anni, racconta Jamie, Lenny insegnò loro non solo i fondamenti della musica ma anche i grandi classici della letteratura, soprattutto americana, la poesia, spingendosi addirittura ad improvvisarsi insegnante di lingua ebraica. Certamente, e questo potrebbe apparire poco scontato, non era un insegnante tenero, tanto da sconsigliare senza troppi giri di parole la stessa piccola Jamie, anche lei appassionata di musica ma reticente nel prendere lezioni di piano, ad abbandonare l’idea di diventare una grande pianista. Alternando momenti di duro realismo al divertimento spensierato, Bernstein continuò ad incoraggiare e ad esortare tutti i suoi pargoli, a condividere le loro gioie anche quando questi erano oramai grandi e pienamente autosufficienti, in quelle fasi adolescenziali e post-adolescenziali in cui facilmente un genitore presente rischia di diventare un genitore invadente. Jamie racconta come, ad esempio, il padre la accompagnasse addirittura a ballare; ma non come uno stereotipato genitore annoiato che attende a bordo pista trascorrendo la serata in chiacchiere di circostanza con altri compagni di sventura. Proprio no: era lui stesso a diventare l’anima della festa, non solo per il suo inevitabile status di celebrità (gran parte dei coetanei di Jamie erano cresciuti con i suoi Young People’s Concerts), ma anche per il suo irresistibile impulso di trasformare qualsiasi musica che ascoltasse in una performance d’arte, anche se le sue doti di ballerino si fondavano pare più sull’esuberanza che non su una vera e propria bravura.
Il passare del tempo, e la maturazione di Leonard Bernstein che poi divenne invecchiamento, alterarono per forza di cose questo stato quasi idilliaco. Jamie seguì ancora le orme paterne, iscrivendosi ad Harvard. Nell’ateneo il padre era ovviamente riverito come uno dei più illustri laureati, ma accanto a questo aspetto più ufficiale, la giovane incontrò un aspetto diverso del suo passato, che non si sarebbe mai aspettata da quell’eccentrico ma a suo modo ineccepibile pater familias che l’aveva cresciuta […].
Questa è un’anteprima tratta da 100 anni di Leonard Bernstein, il numero speciale di Quinte Parallele dedicato al grande musicista americano. Per scoprire di più, clicca qui.