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La seduzione del Sacro: il “Cantico” di Filidei in prima nazionale al Carlo Felice di Genova

di Giacomo Di Scala - 7 Luglio 2024

Venerdì 1 dicembre, all’Opera Carlo Felice di Genova, si è svolta la prima esecuzione italiana del Cantico delle Creature di Francesco Filidei, uno dei compositori di maggior rilievo della classica contemporanea italiana e internazionale.

Il pezzo nasce dalla commissione della Fondazione Teatro Carlo Felice, dei Berliner Festspiele e dell’Ensemble Modern di Francoforte, diretto da George Benjamin, che l’ha eseguito in prima mondiale il 3 settembre al Musikfest di Berlino. Si tratta di una composizione per soprano e orchestra, della durata di circa venti minuti, basata sull’omonima lauda di San Francesco d’Assisi.

Mi ero segnato questa data da tempo. Un pomeriggio di settembre mi trovavo a Genova, e attraversavo il foyer aperto del teatro — quella piccola piazza circondata da colonne di pietra dove, la sera, echeggiano le voci del pubblico prima e dopo un concerto. Faceva ancora caldo e soffiava il vento di mare. Mi fermai a leggere il programma della nuova stagione sinfonica, mosso più dalla nostalgia che dalla curiosità.

A pochi passi da me, una donna cantava Un bel dì, vedremo, sopra la musica ovattata di un altoparlante. I miei occhi scorrevano distrattamente il calendario, finché non inciamparono su un nome: Francesco Filidei. Mi sembrava di giocare all’intruso. Non mi sarei mai aspettato di trovare il suo nome nel programma del Carlo Felice, un teatro che, per molti anni, è rimasto ancorato ai soliti pezzi di repertorio, sinfonico e operistico. Eppure era lì, fra le sinfonie di Mozart e il Concerto di Natale, c’era la musica del compositore che ha scritto la Toccata per pianoforte (1996) e la Danza Macabra per organo (1996), due pezzi in cui non c’è una nota a pagarla oro. Perché l’esecutore deve strusciare i palmi, le unghie e i polpastrelli sui tasti dello strumento, senza mai affondare le dita, per produrre suoni intonati.

Francesco Filidei, classe 1973, è un compositore che, fin dagli inizi, ha sempre dedicato un’attenzione particolare all’aspetto timbrico della musica. Alla ricerca di un suono che vive al confine fra gesto e vibrazione, fra rumore e nota intonata. A volte è puro dadaismo, come in Esercizio di pazzia I (2012), per quattro esecutori e palloncini, o in Love Story (2020), per sette rotoli di carta igienica. Molto spesso è una ricerca di Senso, sulle origini e sulla fine dei suoni, che passa attraverso il corpo organico degli strumenti acustici e degli oggetti più inaspettati.

[Filidei] Rispolvera dal grande archivio della Storia forme musicali ormai trapassate, per soffiare una nuova anima nella carcassa del loro corpo morto

Che, in fondo, è un altro modo di interrogarsi sulle nostre origini e sulla nostra fine. In questo senso, la musica di Filidei ha un forte legame con la dimensione del Sacro. Ora, da un po’ di tempo a questa parte, sta lavorando sulla forma dell’opera lirica, per ristrutturarla dall’interno. L’operazione che sta facendo si può riassumere così. Rispolvera dal grande archivio della Storia forme musicali ormai trapassate, per soffiare una nuova anima nella carcassa del loro corpo morto. Si vede bene in Giordano Bruno (2015) e nell’Inondation (2019), con il genere dell’opera lirica, ma anche in composizioni come Tre Quadri (2020), con la forma sette-ottocentesca del concerto per pianoforte in tre movimenti, e nel Cantico delle Creature con la lauda.

Dalla primavera di quest’anno, Francesco Filidei è compositore in residenza del Carlo Felice. Lo ha nominato Pierangelo Conte, il direttore artistico, anche lui compositore, che dal 2021 sta facendo del suo meglio per portare nuova linfa nel mondo della musica classica a Genova. La residenza finirà nel 2025, quando andrà in scena Il Nome della Rosa, l’ultima opera di Filidei, tratta dal romanzo di Umberto Eco, co-prodotta dal Carlo Felice, dal Teatro alla Scala di Milano e dall’Opéra di Parigi.

La sera del concerto il mio treno è in ritardo. Arrivo alla stazione di Piazza Principe che manca poco all’inizio. Prendo un taxi. «È tutto il giorno che piove» mi dice l’autista. Guardo le strade del centro che scorrono dai finestrini. La città, ancora bagnata, brilla alla luce dei lampioni. Mi precipito all’ingresso del teatro. Corro sulle scale di marmo: le salgo a due a due, ed entro in sala mentre tutto si fa buio. C’è poca gente, ne approfitto per sedermi più al centro. Poi sale sul podio Leonhard Garms, il direttore, e scrosciano gli applausi.

Quando comincia il Cantico la gente inizia a bisbigliare. «Dodecafonia!» mormora una donna dietro di me. Riporto l’attenzione sulla musica ma mi viene quasi da ridere. Perché non c’entra niente la dodecafonia con il Cantico di Filidei.  E ancora: «Questi moderni non li capisco proprio!», sento borbottare un signore seduto alla mia stessa fila, qualche sedile più in là. Lo squadro nell’intervallo. È un tipo coi baffi e un Borsalino nero, che si accompagna con una donna in pelliccia. Hanno l’aria di essere due melomani accaniti, di quelli che si abbonano tutti gli anni e che, a settembre, fanno la coda in biglietteria per accaparrarsi i posti migliori. Verso di loro provo un misto di tenerezza e insofferenza. Sono dinosauri: in loro vive la testimonianza della frattura che c’è stata in Italia negli anni ’50 fra Sanremo e Luigi Nono, fra la canzone e la musica di ricerca.

La scrittura vocale […] porta indietro di secoli, ai tempi del gregoriano e del madrigale cinquecentesco.

Poi succede qualcosa.

Succede che entra in scena la soprano, Jeanne Crousaud, e cammina fino al leggio con passo lento e cerimoniale. L’orchestra dipinge un paesaggio armonico tonale, sorretto da un pedale di fa# maggiore. Spunta il sole, e lei comincia a cantare. Silenzio in sala: sono tutti catturati. La scrittura vocale ti porta indietro di secoli, ai tempi del gregoriano e del madrigale cinquecentesco. L’orchestra è una tavolozza timbrica che, strofa dopo strofa, riveste la melodia principale con abiti dai colori sgargianti. Gli elementi della natura emergono dall’affresco sonoro come figure che oscillano fra il naturalismo e la metafisica. Il Sole, la Luna, il Vento, l’Acqua, la Terra. San Francesco li chiama in causa uno a uno. E Filidei ce li fa sentire usando solo gli strumenti acustici. Non descrive. Evoca. Invoca. E senti il vento, senti la pioggia, senti le stelle graffiare la notte, e il crepitare del fuoco che è quasi una danza. Il Cantico delle Creature è un pezzo complesso, perché completo di tutto. Ci sono momenti lirici, ritmici, atmosferici. Ognuno, se vuole, trovare il suo posto nell’ascolto. Perché non è una musica che non si dà. È una musica che ti viene a cercare, che ti tocca e ti seduce.

«La lauda è composta da tredici strofe, quante sono le note della scala cromatica che stanno in un’ottava. Allora ho associato una nota a ogni sezione del testo. Si parte dal fa# e si scende un semitono alla volta, fino al fa# dell’ottava inferiore. Questo permette di arrivare al do quando si parla del fuoco. E l’accordo di do maggiore ha uno spettro armonico particolarmente colorato».

Francesco Filidei


«Vorrei che la mia musica potesse essere ascoltata in due modi: come una canzonetta e per la struttura che ha» mi dice Filidei, la mattina dopo, al bar del teatro. Indossa un dolcevita nero, un paio di occhiali tondi e una giacca chiodo, che mi fa pensare agli anni del rock n’ roll e della controcultura.

«Quel che sto cercando di fare adesso è scrivere a più livelli di lettura. C’è un primo strato che è leggibile da tutti, e poi ci sono gli altri, per chi vuole approfondire. Il Nome della Rosa è fatto così. È un libro che potrebbe leggere anche mia madre. Fare musica di pura ricerca non mi interessa più, ora vorrei arrivare a tutti, come i compositori d’opera dell’Ottocento». Si avvicina la ragazza del bar e ordiniamo due caffè.

«Perché musicare il testo di San Francesco?» gli chiedo.

«Mi permetteva di sviluppare nell’orchestra tutti gli effetti timbrici che ho cercato nel corso degli anni. E poi c’è l’aspetto formale. La lauda è composta da tredici strofe, quante sono le note della scala cromatica che stanno in un’ottava. Allora ho associato una nota a ogni sezione del testo. Si parte dal fa# e si scende un semitono alla volta, fino al fa# dell’ottava inferiore. Questo permette di arrivare al do quando si parla del fuoco. E l’accordo di do maggiore ha uno spettro armonico particolarmente colorato».

C’è molto chiasso nel locale, e tengo il registratore vicino a lui.

«Per me le note sono strettamente legate ai colori. Quando le sento, li visualizzo subito. Un re è giallo, un sol è rosso. Questo pezzo è come una sequenza di quadri ottocenteschi, ciascuno colorato da un filtro di luce particolare, e inseriti in una struttura metallica che dà loro un senso nuovo attraverso la disposizione».

«Anche il tuo Giordano Bruno è fatto così».

«Chiudere le cose in una forma è molto importante per me. Mi insegna a controllare il tempo. La musica, fondamentalmente, è tempo. E se riesci a controllare il tempo in musica, forse riesci a farlo anche nella tua vita».

«Come dialoga la ricchezza timbrica di questo pezzo con la figura di San Francesco?».

Chiudere le cose in una forma è molto importante per me. Mi insegna a controllare il tempo. La musica, fondamentalmente, è tempo.

«San Francesco era un uomo abitato da profonde contraddizioni. Credo che il suo modo di essere povero nasca da un gusto per l’eccesso, che ha maturato quando era ricco sfondato. Agli inizi della sua vita, faceva Burri coi suoi vestiti. Prendeva pezzi di stoffa preziosissimi e li cuciva insieme a sacchi di iuta. Faceva dei patchwork e li indossava nelle occasioni mondane. Nel mio Cantico, tutti i colori che vengono prima servono a mettere in risalto la strofa finale, dove c’è la voce spoglia accompagnata da sassi, campane e vento».

«È da un po’ che, nella tua produzione musicale, giochi con la memoria storica degli ascoltatori. Cosa ti lega alle forme musicali del passato?».

«La memoria è tutto per me. Generi come l’opera, il concerto o la lauda, sono come dei cadaveri. E la loro forza sta proprio in questo, nel fatto che il loro periodo di splendore sia ormai finito. Gli strumenti del passato hanno più forza di quelli del presente. Perché gli strumenti del presente non hanno quella patina di nostalgia propria delle cose che non sono più».

Giacomo Di Scala

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