La Passione secondo Matteo di Bach: una lectio divina in musica
di Rosario Dipasquale - 3 Gennaio 2017
Dagli inferi dell’oblio alla resurrezione nella gloria del capolavoro assoluto: con questa parabola di sapore mistico potrebbe sintetizzarsi il percorso secolare che separa la prima esecuzione della Passione secondo Matteo di Bach, dalla sua ripresa, a Berlino, in una selezione curata e diretta da Mendelssohn.Parabola di certo non fuori luogo, visto l’argomento che il capolavoro di Bach, impregnato di ardore devozionale, affronta e illumina, facendo risplendere il genio dell’autore nel servizio di una pratica liturgica, centrale nella vita di fede luterana, ma, in senso lato, nella vita di fede cristiana – la riflessione sulla passione del Cristo.
La Passione come musica sacra
Proprio per questa sua connotazione, che possiamo definire “religiosa”, può forse spiegarsi l’inferno dell’oblio in cui la Passione secondo Matteo è caduta dopo le sue prime rappresentazioni: se da un lato il genere dell’oratorio, in cui può inquadrarsi sommariamente la Passione di Bach, virava verso soluzioni compositive e tematiche profane, fino ad arrivare a rappresentazioni semisceniche che sempre più si inspiravano all’Opera, dall’altro anche la musica liturgica protestante si evolveva, dopo decenni di coesistenza con le musiche, le forme, i testi della tradizione cattolica, cercando una sua propria originalità. Questo insieme di fattori, unito al generalizzato mutamento del gusto del “pubblico” – se così può chiamarsi l’assemblea liturgica, cui primariamente era destinato l’ascolto della Passione – ha fatto sì che rapidamente tale monumentale composizione venisse dimenticata; aiutava un siffatto, ingrato destino anche una certa corrente di pensiero critico musicale settecentesco, che vedeva la musica di Bach troppo “difficile”, lontana dal spontaneo fluire della melodia che prendeva piede nel corso del ‘700. Si spiegano così le critiche di musicisti/critici come Schiebe, che vedeva nella complessa e profonda architettura del contrappunto bachiano qualcosa di ampolloso e artificioso, un’enorme massa inestricabile di complicate armonie e poco orecchiabili melodie, che non servivano certo a riprodurre naturalezza e buon gusto: la polifonia bachiana, con la sua costruzione ardita e rigorosa, stava semplicemente passando di moda, complice un mutato senso religioso che cominciava a separare – e quindi a non vedere necessaria – un simile ausilio per le proprie cerimonie e liturgie.
Non si può poi tacere come proprio la rivoluzione dei Lumi di fine ‘700 abbia contribuito, con il suo rifiuto del sacro, al perdurare dei tempi dell’oblio – come poteva una musica simile, con tutto il suo carico di sofferta bellezza, in miracoloso equilibrio tra pathos e rigore, avere per tema una superstizione, come il lume della ragione presentava ogni credenza religiosa?
Una resurrezione aconfessionale
La Passione secondo Matteo di Bach rinasce a nuova vita solo quando Mendelssohn la ripropone, in alcune sue parti, in un concerto a Berlino nel 1829: l’emergente clima romantico meglio si prestava a riprendere i contatti con il trascendente, e non è sicuramente per caso che proprio in quegli anni il lavoro di Bach, a partire dalla Passione, abbia cominciato ad essere rivalutato, studiato, ascoltato.
Le finalità originarie della composizione, tuttavia, non subirono la stessa rivalutazione della musica in sé: rigettate durante l’Illuminismo, parzialmente comprese (in una dimensione romantica, spesso priva di afflati mistici) nei decenni successivi, e definitivamente rimosse con la secolarizzazione del Novecento, tali finalità sono rimaste ai margini dello studio dell’opera bachiana: da una parte, questa “rimozione” è stata utile a rivelare in tutta la sua intrinseca bellezza la musica bachiana, tuttavia dall’altra essa può costituire un limite alla comprensione, approfondimento e fruizione stessa della musica.
Musica e riforma
La Passione costituisce infatti il risultato più maturo della riforma luterana attuata sul piano musicale: la centralità della Parola e della meditazione – a portata di chiunque, non prerogativa esclusiva degli ecclesiastici – e l’utilizzo dei corali come forma di partecipazione dell’assemblea tutta dei fedeli, che nella concezione luterana dovevano essere parte attiva nelle funzioni, e non relegati ad ascoltare, come in un “concerto” di cui capivano ben poco (i riti cattolici rimanevano in latino, lingua sempre più sconosciuta al popolo), tenuto da musici professionisti, separati, anche nella disposizione spaziale delle chiese, dall’assemblea e dai celebranti.
É in questo contesto che procedono parallelamente la meditazione della Parola del Vangelo, cui i fedeli luterani attingono con una libertà sconosciuta ai coetanei cattolici, e lo sviluppo del corale, come forma musicale che rappresenta ed esprime la maggiore partecipazione del popolo alle funzioni, grazie ai moltissimi testi che vengono adattati dalle sacre scritture o composti del tutto ex-novo, attingendo intelligentemente anche al ricchissimo patrimonio di melodie popolari e canti tradizionali, dai minnesang ai canti militari (“non bisogna lasciar la bella musica al diavolo”, diceva Lutero, con teologico pragmatismo), arrangiandoli e ampliandoli a seconda delle necessità e delle occasioni. Inscindibile dal servizio che era chiamata a svolgere nelle funzioni, tale musica costituiva l’essenza stessa della concezione luterana della musica: il principio sola scriptura veniva attuato e reso possibile proprio grazie all’uso del popolare e sempre più affinato genere dei corali, musica che non era più appannaggio esclusivo di intermediari, ma strumento di preghiera, lode e partecipazione per tutti i fedeli.
Alla fine del percorso di maturazione della concezione luterana, che univa Parola divina e musica popolare, si erge, fra la folla di kantor che andavano formando e arricchendo un patrimonio di musica sacra esclusivamente protestante, il genio di Bach, che scopre nel testo evangelico di Matteo una narrazione appassionata e appassionante – in opposizione alla moda che si diffondeva, di fare di oratori e passioni dei lavori sempre più slegati dal testo sacro da meditare, fioriti in versi arbitrari, anche distanti dal dettato liturgico.
Il Vangelo, motore drammatico della Passione
L’interesse di Bach, invece, si concentra rigorosamente sul Vangelo, nei vari episodi in cui si snoda il climax che porta alla crocifissione e sepoltura di Cristo, dall’unzione di Gesù a Bethania alla Cena con i discepoli: il compositore trovava perfetto già di per sé il solo testo di Matteo, per una narrazione piena di pathos, cui contribuivano in seconda battuta i testi elaborati da Picander per arie e cori. Le strofe madrigalesche interpretavano ed esprimevano la pietà cristiana nelle diverse stazioni del cammino della Passione, intervenendo come commenti al Vangelo, declamato nei recitativi: questo restava il punto di riferimento (significativamente, il testo verrà scritto con inchiostro rosso, sulla partitura) dell’intera composizione. Bach poi utilizzò i recitativi in maniera peculiare, facendone dei trait d’union tra l’assoluta fedeltà al testo di Matteo con le meditazioni accorate, cariche di cordoglio e dolore, che davano voce ai fedeli – di ogni tempo – che partecipano a quelle funzioni: i recitativi, che Bach diversificò tra secchi e accompagnati (questi ultimi per preparare e introdurre le Arie che seguivano), costituiscono le cuciture essenziali che, fondandosi sul testo di Matteo, permettono all’autore di spaziare con la sua musica, come in una preghiera intima e coinvolta, facendo dell’esecuzione un vero e proprio concerto spirituale.
Può dirsi, l’intero lavoro della Passione, un’immensa, certosina, virtuosistica opera di sbalzo, che lavorando di finissimo cesello sui numeri che interpolano il Vangelo di Matteo, mettono in risalto quest’ultimo, facendone il vero motore dell’azione – e il vero centro emozionale di tutta la composizione; per Bach, ciò che doveva restare, nella mente e nell’animo dei fedeli (prima che degli ascoltatori), era il Vangelo: ciò che doveva essere trasmesso, e per il quale la musica era stata composta, era la riflessione sulla Parola. Come un orafo abilissimo, Bach si muove con una sapienza che domina la materia musicale, ed esplorando le infinite possibilità di tutto il campo sonoro, percorre l’infinito spazio del silenzio amoroso del Dio redentore. Così, la musica di Bach si fa eco dell’amore di Dio, e rimbalza nel cuore dell’uomo che comincia a rispondere (contrappunto, controcanto) agli atti di Cristo.
Per trovare un termine di paragone più vicino alla sensibilità dei nostri tempi, per il lavoro monumentale composto da Bach, si pensi al film di Pier Paolo Pasolini, “Il Vangelo secondo Matteo”: anch’esso basato sullo stesso Vangelo scelto da Bach, la sua “sceneggiatura” è data – con una scelta artistica totale, coraggiosa e spiazzante – solo dal Vangelo stesso; le immagini (con il loro carico di citazioni, suggestioni, emozioni) si aggiungono poi come un contorno, elegante e perfettamente calibrato sulle vicende – e, soprattutto, sul testo letterale che le narra: con una similare opera di sbalzo, la narrazione filmica di Pasolini non fa che mettere in risalto il testo del Vangelo di Matteo, evidenziandone la grande forza, e anzi, traendo proprio da esso la principale spinta narrativa del suo lavoro.
Appare quindi chiaro come il centro della composizione bachiana sia il Vangelo: tutta la musica composta, dai recitativi secchi alle arie più elaborate, fino alla presenza dei doppi cori che coesistono in uno schema contrappuntistico, rigoroso quanto la fedeltà al testo evangelico, costituisce, nelle intenzioni dell’autore, un commento funzionale alla meditazione, un ausilio alla preghiera, uno strumento di elevazione dell’animo all’ineffabile vicenda della Passione.
Una musica che medita, prega, eleva
Come una gigantesca lectio divina, che dalla lettura dei testi sacri dispone l’anima a relazionarsi con il sacro, facendo preghiera della lettura stessa e delle meditazioni che ne derivano, incarnandole e incardinandole nel vissuto ordinario, ove viene lasciato spazio alla Parola di risuonare e illuminare, così la musica di Bach emerge dal silenzio generatore di ogni suono, a significare l’intimo legame del fedele con la Parola che dà vita, cui attingere con sempre rinnovato ardore per penetrare il mistero salvifico della Redenzione: la meditazione si fa suono, le melodie intonano bellezza che volge lo sguardo verso le altezze dei cieli, e la parola ammantata di canto risuona con rinnovata forza nell’anima che vaga in cerca di Dio e della sua volontà. La scrittura di Bach, tesa e ardita, realizza il miracolo di un connubio fra umano e divino, una meravigliosa preghiera che, grazie alla scintilla divina del genio, consegna ad ogni uomo una possibilità di contemplazione del divino stesso, il tentativo estremo di rispondere al miracolo della redenzione salvifica del Cristo che patisce per noi, con l’offerta di una bellezza che nasce dall’animo toccato da tale rivelazione.
Tali considerazioni non possono e non devono, oggi, essere motivo di scandalo, per ri-pensare la Passione di Bach insieme al suo originario intendimento, teologico e liturgico: non certo per riproporre un’impossibile lettura e fruizione catechetica del capolavoro, ma per apprezzare appieno la profondità della composizione bachiana, dandoci la possibilità di gustare fino in fondo la dolcezza sublime con cui Bach ha voluto narrare la Passione, interpretandola alla luce del suo genio. In questo modo, la suprema maestria del compositore non ne esce sminuita, ma aumentata, mirando l’altissima fattura della sua creazione, e dell’ispirazione che la pervade; l’intersecarsi di voci e piani sonori, sempre espressivo eppur pienamente controllato, è riflesso del pensiero dell’artista, che scruta l’anima dell’Uomo come anima salvata e redenta: i molteplici fil rouge del contrappunto si snodano fra corali e arie per affrescare la crescente sofferenza salvifica del Cristo, e parallelamente, nel composto, accorato compianto dei cori – in cui Bach voleva che potessero identificarsi gli ascoltatori. Possiamo dire, con Furtwängler, che Bach «è un uomo che ha saputo rivivere nella sua anima le sofferenze del Figlio di Dio, la storia sacra del Cristo, tanto da saper creare, nella sua ultima e maggiore Passione, un’opera gigantesca che, per l’unità maestosamente suggestiva dell’ispirazione che la pervade dalla prima all’ultima nota, si può paragonare soltanto a quell’opera monumentale dell’epoca romantica, che è il Tristano di Wagner. Non vi sono altre opere in cui l’ispirazione di insieme, che pervade con tanta potenza tutto il lavoro, appaia tanto legata alla persona dell’artefice, all’atteggiamento spirituale del suo creatore. Qui, dietro la creazione musicale oggettiva e attraverso di essa, si afferma una soggettività che piega ogni resistenza».
Senza riconoscere questa potente ispirazione, sempre all’ascolto della Passione si accompagnerà un’insoddisfazione di fondo, legata al mancato riconoscimento delle realtà di fede che essa addita: senza bisogno di diventare ferventi protestanti per ascoltare con maggior entusiasmo il capolavoro bachiano, lo studio e l’interiorizzazione del testo scritto in rosso sulla partitura della Passione, da Bach stesso, permettono di cogliere molti più e molto più profondi piani interpretativi. Del resto, la vicenda del Cristo appartiene all’umanità e non alle confessioni religiose (cattolici, protestanti, ortodossi), e lasciarsi da essa interrogare, anche sulle ali della bellezza cantata da Bach, pur senza diventare credenti (non è una condizione necessaria), può restituirci a quella dimensione di Assoluto cui forse, con troppa fretta, ci siamo volontariamente sottratti.
Rosario Dipasquale