Ives e il Modernismo Americano
di Tiziano de Felice - 23 Giugno 2017
Il compositore americano Charles Ives nasce a Dansbury, Connecticut il 20 ottobre 1874. Suo padre, George Ives, sebbene non fosse un musicista professionista, fu capobanda dell’esercito degli Stati Uniti durante la guerra civile americana e fu una figura chiave per la formazione di Ives e una fortissima influenza sulla sua futura musica. Suo padre era un grande sperimentatore con un approccio all’insegnamento musicale spiccatamente libero e incoraggiò il giovane Ives anche a sperimentare musicalmente, in maniera quasi pionieristica, con poliritmi o armonizzazioni bitonali e politonali. Ives cita, per esempio, i tentativi del padre di far cantare a lui e suo fratello Joseph melodie in tonalità diverse. Altro importante episodio dall’infanzia di Ives, che avrebbe avuto forti ripercussioni per il suo percorso artistico e per le future composizioni, è sicuramente quello di aver sentito l’incontro/scontro sonoro fra due bande (una di suo padre) le quali suonavano contemporaneamente ai lati apposti nella pizza principale di Dansbury.
Forse la più grande peculiarità della vita di Ives, rendendolo perciò un caso unico nel panorama dei compositori del XX secolo, è che lui non ha mai avuto una vera e propria carriera da professionista nel settore musicale. Ives divenne organista salariato quando era solo quattordicenne, scrisse diversi inni e canzoni per i servizi liturgici e si può anche citare una prima composizione importante, una serie di variazioni per organo, “Variations on America”, scritte su la melodia popolare “My Country, ‘Tis of Thee” all’età di diciassette anni. Studiò persino a Yale studiando con il celebre organista e compositore Horatio Parker, e continuò a lavorare come organista dopo l’università fino al matrimonio. Durante questo periodo però, intorno al 1902, avviò anche la sua carriera come assicuratore, un atto di pragmatismo al fine di provvedere al benessere della sua famiglia, avendo capito sin dai suoi studi universitari che il suo innato sperimentalismo sarebbe stato duramente accolto, ostacolando la sua carriera.
Inizialmente Ives lavorò in campo assicurativo come semplice impiegato, ma nel 1907 fondò una sua compagnia assicurativa, la Ives & Co. (in seguito Ives & Myrick), dove lavorò fino al suo pensionamento ottenendo anche una discreta fama nel settore che innovò e consolidò durante la sua carriera. Ives dunque divenne, in maniera del tutto indipendente, non solo autosufficiente, ma anche facoltoso, e ciò gli procurò una grande libertà come compositore, slegandolo da vincoli e restrizioni e dandogli l’opportunità persino di ingaggiare privatamente dei musicisti locali per suonare alcune delle sue composizioni. Poiché Ives spesso dedicava la sua attenzione alla composizione di notte dopo il lavoro o nei fine settimana, quest’intenso ritmo lavorativo gli procurò diversi malesseri e, stroncato da un forte attacco di cuore nel 1918, il suo output compositivo rallentò considerevolmente e dal 1927 smise di scrivere musica in maniera definitiva, anche a causa di forti crisi di ispirazione. Infine, Charles Ives morì a causa di un infarto il 20 maggio, 1959 a New York City. Tuttavia, ben prima della sua morte, la sua reputazione come compositore iniziò a decollare e fu consolidata quando, dopo che il pianista John Kirkpatrick eseguì la prima della sua celebre ‘Concord Sonata’ nel 1939 alla New York Town Hall, i giornalisti new-yorkesi recensirono in maniera positiva il suo lavoro. L’interesse verso la sua musica si era oramai acceso definitivamente e nel 1946 Lou Silver Harrison diresse la prima della sua “Sinfonia No. 3- The Camp Meeting” facendo ottenere ad Ives il premio Pulitzer per la musica.
Ives e la “Musica dei Secoli”
Una delle rivelazioni più sagge e influenti di suo padre giunse per Ives quando, parlando di un canto stonato di un tagliapietre, gli disse: “Guarda nel suo volto e senti la musica dei secoli. Non prestare molta attenzione ai suoni, poiché se lo fai, potresti perdere la musica. Non otterrai mai una cavalcata eroica e selvaggia verso il paradiso con delle belle notine”.
George Ives impartì a suo figlio Charles, oltre a un approccio pionieristico e avventuriero alla composizione, un profondo rispetto per la forza della musica locale e popolare. Canzoni dal valore sentimentale come quelle di Stephen Foster, oppure “Tenting Tonight on the Old Camp Ground”, “Aura Lee” e infine le marce e marcette militari erano tutte profondamente legate all’esperienza della guerra e ai ricordi dei veterani americani. Ovviamente questo rispetto e amore non costituiscono un caso unico nella storia della musica occidentale. Da sempre i compositori di musica colta sono stati interessanti, seppur in misure diverse, alla musica popolare o gli inni da chiesa o ancora la musica folkloristica, dato che le forme basilari della musica classica derivano proprio dalla danza, la canzone e altre semplici forme d’arte quotidiane con cui è facile immedesimarsi. E, proprio come stava facendo Gustav Mahler a un continente di distanza per i suoi Lied o le sue Sinfonie, Ives nel suo “isolamento americano” iniziò anch’egli ad associare la musica del quotidiano ai sentimenti più profondi, al trascendente e all’anelito di vita.
Ma ancora prima di Mahler, sarebbe sufficiente prendere come esempio Bach, il quale era solito utilizzare materiale dal sapore popolare, come per esempio una nota melodia della chiesa luterana, per poi tessere il tutto in maniera estremamente abile all’interno una sofisticata trama contrappuntistica. Bach, in contrasto come vedremo con l’operazione di Ives, in perfetta linea con lo spirito protestante, era interessato e affascinato principalmente con il concetto dell’individuo come parte di una collettività dove ogni individuo ha una propria voce, un proprio ruolo, ma ottiene la sua forma più alta e nobile solo all’interno di una comunità. All’interno di un corale bachiano ogni linea melodica (anche presa singolarmente) costituisce difatti una composizione autonoma: ogni melodia è perfettamente coerente, ma se sommate fra loro si ottiene quasi miracolosamente un effetto di gran lunga più intenso e maestoso di una semplice somma di singole parti vocali.
Quello che compie Ives, invece, è un gesto quasi completamente opposto: egli non era interessato a un’integrazione armoniosa dei materiali, piuttosto si potrebbe parlare di una coesistenza. Ripensando all’aneddoto delle due bande che suonano contemporaneamente, la sua musica evoca sempre un’impressione analoga a un miscuglio di suoni caotico e gioioso allo stesso tempo, tipico del trambusto quotidiano e di eventi sonori simultanei disomogenei. Gli uomini, dunque, non sono più creature angeliche che si riuniscono per cantare perfettamente intonati e a tempo. Questo non accade quando una comunità si riunisce in una chiesa e sicuramente non accadeva nelle funzioni quando Ives era bambino. Nella realtà tutti sono un poco stonati e fuori tempo, l’effetto è leggermente caotico ma allo stesso tempo vi è comunque una dose di autenticità, poiché è così che gli uomini sono veramente: indisciplinati, imprevedibili e inaffidabili, quasi sempre privi di voci belle o addomesticate.
Tutto questo è espressione sincera di una comunità, di una cultura e qualsiasi abilità essa possiede è sufficiente perché sia considerata straordinaria. A differenza di una concezione come quella bachiana, per Ives il singolo permane con tutti i suoi difetti, peculiarità e stranezze all’interno di una comunità senza mai dover sacrificare la propria individualità. Ecco dunque svelato cosa propone di nuovo la musica di Ives, che ha portato in primo piano l’idea di un collage, di materiali diversi e diverse citazioni musicali usate insieme per creare un tessuto tumultuoso, fitto, dissonante, ma anche interessante e nuovo. Ciò che dunque distingue Ives veramente da ogni altro importante compositore prima di lui (fra tante altre cose) è che egli rompe in maniera quasi del tutto definitiva con il concetto di sintesi musicale.
The Unanswered Question: una musica profetica
“The Unanswered Question” (La Domanda Senza Risposta), scritta nel 1908 ma eseguita per la prima volta solo nel 1946, si colloca tra i lavori più noti e frequentemente eseguiti di Charles Ives. Composizione singolare e ambiziosa allo stesso tempo, oltre all’incantevole bellezza e profondità del pezzo in sé, questo lavoro offre al pubblico convenientemente una sorta di sguardo all’interno di quelli che sono i più importanti tratti filosofici ed estetici del mondo musicale di Ives, pur restando nei limiti di un pezzo per orchestra da camera di circa sette minuti. Questo suo lavoro, infatti, pone all’ascoltatore molto più di un singolo quesito (al contrario di quello che si potrebbe pensare leggendo il titolo). Alcuni quesiti, di natura più mistica e contemplativa, potrebbero riguardare la vita o l’esistenza stessa dell’uomo, ma altri di natura estetica, ci fanno soffermare sul percorso che il linguaggio musicale ha compiuto nel corso dei secoli fino ad Ives e su i suoi possibili andamenti futuri nel ‘900. Non a caso il celebre direttore e compositore Leonard Bernstein usò questa breve ma importante composizione di Ives come una sorta di filo conduttore per le sue ormai celebri Norton Lectures del 1973. Difatti, questa composizione apre la porta al concetto che Bernstein definì come la “crisi del XX secolo” e come l’arte musicale occidentale e le altre arti si siano evolute verso livelli sempre più alti di ambiguità per approdare al concetto di modernismo. Nello specifico, in campo musicale, con l’avanzare degli anni potremmo indicare un aumento della complessità ritmica, del cromatismo, e, in ultima analisi, di significati semantici (anche extra-musicali).
“The Unanswered Question” è un perfetto esempio di un semplice ma efficace collage musicale tipicamente ‘ivesiano’, composto di tre distinti “strati strumentali”: una tromba solista, un quartetto di legni e la famiglia degli archi. Anche se vi è un preciso pensiero strumentale e una ricerca timbrica ponderata, Ives non cerca una coesione o una perfetta fusione fra questi gruppi: la forza del brano risiede nell’interazione e il dialogo tra questi strati sovrapposti i quali sono essenzialmente caratterizzati in maniera autonoma. La stessa partitura presenta innovazioni interessanti: le linee che delimitano le battute per gli archi e i legni non coincidono, una soluzione necessaria adottata da Ives proprio perché gli archi e i legni sono elementi indipendenti sovrapposti, che non suonano alla stessa velocità.
Una caratteristica interessante di questa composizione, è che essa presenta le sue idee in modo estremamente chiaro e i suoi materiali di base sono così semplici che in un certo senso quasi non si riesce ad analizzarli ulteriormente, come se essi avessero già raggiunto la loro espressione più immediata. Il brano in un certo senso potrebbe essere visto come un breve racconto o una parabola metafisica, dove la tromba solista pone ripetutamente l’Eterna Domanda dell’Esistenza (stando alla prefazione di Ives) suonando sempre con lo stesso tono una breve frase. Il quartetto di legni risponde a queste domande poste dalla tromba nel tentativo di procurare una qualche riposta. Gli archi invece rappresentano il Silenzio dei Druidi (che non sanno, vedono o sentono nulla sempre secondo la prefazione di Ives), andando a rappresentare in forma musicale una sorta di mistero impenetrabile, immutabile ed eterno. Secondo un’ottica analitica convenzionale, si potrebbe affermare che questa composizione non evolve mai veramente, poiché essenzialmente questi tre gruppi in sé non mutano, non sviluppano le proprie idee musicali. Gli archi continuano a ritornare sulle stesse armonie, la tromba continua a porgere la stessa domanda di continuo con le occasionali intromissioni da parte dei legni che rispondono, o perlomeno tentano di rispondere, a essa. Gli unici cambiamenti si riscontrano nel modo di ripetizione delle frasi e pertanto una sorta di sviluppo o direzionalità in realtà esiste. Per esempio i legni, i quali iniziano a rispondere timidamente e molto piano dal punto di vista della dinamica, diventano, con il progredire della musica, sempre più agitati ed esasperati nelle loro risposte alle domande della tromba quasi come se l’atto di rispondere a questo quesito irrisolvibile li stesse facendo impazzire. Questo è il funzionamento basilare di questa musica e sapendo come interagiscono tra di loro questi gruppi, un ascoltatore in teoria sarebbe già in grado di apprezzare a pieno questa composizione.
Per quanto riguarda la famiglia degli archi invece, essi eseguono un corale impostato sulla tonalità di Sol maggiore. Per via del basilare moto contrario fra il soprano e il basso e un moto congiunto tra le voci intermedie, l’andamento degli archi possiede un carattere quasi scolastico, eseguendo un corale che potrebbe ricordare uno dei tanti esercizi svolti da uno studente di composizione durante la sua formazione iniziale. Da un punto di vista armonico è interessante il fatto che Ives eviti deliberatamente di dare a questa sezione un vero e proprio senso di direzione tonale. Negli archi, infatti, non vi sono vere e proprie tensioni armoniche per tutto il brano e nemmeno un accordo di dominante. Ives vaga intorno a dei centri tonali usando i gradi della scala più deboli, per esempio il III grado, senza mai stabilire una traiettoria o un percorso armonico chiaro e che risolva in maniera definitiva. Ma impostando in tal modo il gruppo degli archi, privo di formule cadenzali definite, Ives invoca una musica quasi del tutto statica, a “basso consumo”, la quale conferisce perfettamente l’idea di uno sfondo inamovibile ed eterno, una forza invisibile ultraterrena e superiore all’uomo. Dal punto di vista formale, il materiale è costruito da una frase musicale di tredici battute, con una melodia che discente lentamente, in modo quasi impercettibile. Questa frase all’inizio è ripetuta due volte, seguita da una variazione, lo stesso materiale leggermente più lungo e con minime elaborazioni. Solo occasionalmente Ives usa ornamenti molto semplici all’interno delle voci. Per praticità, ecco una riduzione su due pentagrammi delle prime tredici battute:
Un altro importante fattore da non ignorare, e che non è possibile notare nella riduzione sopra, è che gli accordi in partitura sono grandemente distanziati fra loro. Dal punto di vista dell’orchestrazione è un pensiero particolarmente raffinato poiché permette ad Ives di ottenere un vasto range di suono tra i contrabbassi e i violini, rafforzando sempre l’idea di apertura e di qualità eterea della musica.
Per quanto riguarda la parte affidata alla tromba solista, è sufficiente un rapido sguardo alla partitura per notare che ciò che suona ha ben poco a che fare con il sottofondo in sol maggiore degli archi. La frase è costruita in maniera da non contenere note appartenenti a tale tonalità e questo rafforza ulteriormente il concetto di una melodia che galleggia sopra gli archi. La frase della tromba è sempre la stessa, con una variante B minore identica alla prima se non per l’ultima nota che è un SI bequadro al posto di un DO naturale. Durante il brano Ives alterna sempre tra queste due varianti. Inoltre vi è un sottile ma efficace spostamento ritmico in questo motivo della tromba e l’uso delle terzine e l’emiolia da tre tempi uguali contrasta il 4/4 degli archi rafforzando l’idea di distanza tra i due gruppo strumentali.
A B
Anche il quartetto di legni composto da quattro flauti (Ives però non indica solamente quattro flauti in partitura, ma anche la possibilità di utilizzare due flauti per la I e II parte più un oboe per la III e un clarinetto per la IV) esegue note estranee alla tonalità di sol maggiore. L’accordo nella prima frase è, in un certo senso, un accordo rappresentativo e archetipo della prima metà del XX secolo, usato di frequente da autori come quelli appartenenti alla seconda scuola di Vienna. Ciò che rende interessante quest’accordo, ovvero una raccolta di quarte e quinte sovrapposte (sia diminuite che aumentate), è la sua resistenza ad assimilazioni tonali tradizionali e alle analisi in un contesto tonale. Il quartetto risponde alle domande della tromba con frasi cromatiche che partono da un adagio iniziale per poi incrementare dal punto di vista della dinamica, divenendo gradualmente sempre più veloci e agitati fino ad arrivare nell’ultima frase ad un triplo forte nella dinamica, con indicazioni agogiche molto agitando e con fuoco, valori più brevi e l’uso di un registro decisamente più acuto e stridulo, andando ad enfatizzare il carattere sempre più esasperato di questo gruppo strumentale.
La domanda è più forte della risposta
La composizione termina misteriosamente, con gli archi che ritornano, con un moto quasi circolare, a replicare il ritmo armonico e il livello dinamico dell’apertura del pezzo, senza che i legni riescano a trovare una risposta vera e propria alla “Domanda Perenne dell’Esistenza”. La domanda è pronunciata dalla tromba un’ultima volta e come scrive Ives stesso nella prefazione alla partitura: “I Silenzi” sono uditi al di là nella “Solitudine Indisturbata”. Una possibile soluzione a questo enigmatico finale è offerta da Bernstein, il quale in maniera concisa nella sua quinta conferenza delle Norton Lectures (“The 20th Century Crisis”) dice: “E’ forse quella luminosa triade finale la risposta? La tonalità è forse eterna, immortale? In molti l’hanno pensato, e alcuni lo pensano ancora. Eppure quel quesito finale della tromba resta sospeso in aria senza risoluzione, turbando la nostra calma. Non vedete quanto chiaramente questa composizione rivela il dilemma del nuovo secolo? La dicotomia che doveva definire la forma della vita musicale da lì fino ad oggi: da una parte la tonalità e la chiarezza sintattica, dall’altra l’atonalità e la confusione sintattica”.
Ives fu sempre considerato una sorta di ‘profeta musicale’, colui che scovò tutti quelli elementi che noi oggi associamo alla musica moderna del ‘900: la politonalità, poliritmicità, il libero uso della dissonanza, l’uso dello spazio in musica e persino l’uso dei quarti di tono. Alcuni di questi elementi sono proprio presenti dentro “The Unanswered Question”, ma è solamente frutto di vuota speculazione e sperimentazione oppure l’espandere del linguaggio è un tentativo di toccare il pubblico più a fondo? Al di là di qualsiasi chiave di lettura o interpretazione, come quella della semplicistica seppur valida contrapposizione del linguaggio tonale (la tradizione) contro quello atonale (le avanguardie) esposta da Bernstein, ciò che è certo e davvero straordinario è che una simile composizione dal carattere così enigmatico poteva essere scritta solamente da un uomo che ha sempre lavorato in isolamento, completamente indifferente ai gusti del pubblico, noncurante delle pratiche di uso comune per la performance, ma restando sempre perfettamente cosciente del percorso storico della musica e le problematiche implicazioni di un linguaggio in costante evoluzione.
Ives credeva nel potere redentore dell’arte e della musica, e credeva inoltre che il cammino di scoperta di ogni individuo sia anche parte del cammino di tutta l’umanità. La musica, come scrive Ives, ha svolto un ruolo importante in questi viaggi, ed egli credeva nella sua importanza morale e spirituale, persino insistendo sul fatto che la scrittura della musica debba sempre essere accompagnata da profondità e sostanza. Sotto questo punto di vista, “The Unanswered Question” è una delle opere più serie e importanti del XX secolo, un esempio della religione universale così come concepita da Ives. Ogni nota di “The Unanswered Question” è costruita solo sulla determinazione di raggiungimento di ogni obiettivo artistico personale indipendentemente dalle conseguenze che ciò implica. Rappresenta una rottura definitiva con il concetto di sintesi nella musica occidentale, e propone un nuovo approccio radicale, fondato sul collage, il contrasto e su strati sovrapposti che si accumulano per creare un tessuto complesso, composto da filamenti disomogenei e slegati fra loro. “The Unanswered Question” è un lavoro diretto all’ascolto, fondato sopra elementi apparentemente molto semplici ma, ciò nonostante, un ottimo punto di partenza per tentare di comprendere che cosa esattamente rende la musica di Ives così interessante, singolare e persuasiva, e in che modo egli ha contribuito alla storia della musica occidentale.
Tiziano de Felice