Gioachino Rossini a Parigi, da Maometto II a Guglielmo Tell
di alessandrodiadamo - 18 Gennaio 2017
Nel 1826, un grande avvenimento musicale accese l’interesse del pubblico parigino: la comparsa sulle scene dei Lavori teatrali di Gioachino Rossini.Il primo teatro lirico del mondo attraversava una forte crisi: da molti anni non vi si rappresentavano che lavori piuttosto mediocri, per i quali il pubblico mostrava poco interesse. Il Ministro della Casa reale propose un interessantissimo contratto al celebre compositore italiano, che avrebbe garantito alle scene parigine i lavori futuri del genio pesarese.
Rossini avrebbe iniziato a collaborare con Parigi, non proponendo nuove opere, ma presentando, rivestiti di nuova forma, suoi antichi Lavori. Il pesarese così poté studiare le peculiarità del nuovo genere, che avrebbe, di lì a poco tempo, imposto sulle scene. Frequentò teatri e concerti, ascoltò le opere di Weber e Spontini.
La vita artistica di Rossini s’era incrociata con quella di Spontini a Napoli, nel 1820, quando il compositore di Jesi concertò e diresse il Fernando Cortez presso il Teatro S. Carlo; il pesarese rimase positivamente impressionato.Il 3 dicembre dello stesso anno, egli presentò il Maometto II, lavoro in cui si avvertono influenze spontiniane, soprattutto nell’approfondimento drammatico delle forme strumentali in rapporto a quelle vocali.
Così, fu proprio il Maometto II l’opera che Rossini scelse per il suo nuovo impegno contrattuale in terra di Francia, col fine di portarla a quella compiutezza drammatico – musicale, che non aveva ancora potuto raggiungere per un teatro italiano.
Quest’opera, nel rifacimento del libretto da parte di Alexandre Soumet e Luigi Balocchi mutò titolo Le siège de Corinthe. La trama rimase, nel suo nocciolo, la medesima; solamente, si pensò di spostare l’assedio da Negroponte (1470) a Corinto (1459) e di mutare gli assediati: da Veneziani in Greci, per dare al soggetto un carattere d’attualità, lottando la Grecia, in quegli anni, contro l’oppressore musulmano.
Con Le siège de Corinthe introduceva per primo nel teatro d’opera quell’elemento patriottico, di cui Verdi diverrà poi l’araldo nel Risorgimento italiano.
L’impressione suscitata dalla partitura interamente rifatta anche nello strumentale e raffinata nel linguaggio armonico, fu sorprendente non solo sul pubblico, ma anche negli ambienti artistici francesi.
L’ouverture ha un inizio quasi beethoveniano: quattro accordi tonica – dominante.
Appena ventotto battute di Allegro vivace, costituite da gruppi simmetrici di accordi, che si alternano col tutti, risolutamente sferzato dall’orchestra ad un piano pizzicato dagli archi. Segue un lugubre movimento di marcia, che qualche critico individuò essere stata tolta dal Salmo XII di Benedetto Marcello; quindi, un Allegro a caratteristiche terzine rossiniane, di ampio sviluppo, magistralmente costruito anche contrappuntisticamente e senza il consueto crescendo.
Sin dai primi brani dell’opera, si nota subito come, lo stile di Rossini e la struttura dell’opera siano sensibilmente mutati rispetto al rispetto al Maometto II; l’idea di fissare temi o nuclei costanti e sopra essi edificare il discorso musicale è chiara e guida il compositore.
Utilizzando il materiale del Maometto, sfrondò una gran parte di fioriture, rendendole più semplici ed espressive; scrisse, inoltre, la parte di Neocle sia per contralto che per tenore, per poter essere cantata da due voci differenti.
L’entrata di Maometto («Qu’à ma voix la victoire s’arrète» [Che per mio ordine la vittoria si fermi]), seguita dal coro in un ampio sviluppo, pur presentando le caratteristiche del grand opéra, ma permangono non molto felici virtuosismi.
Nella chiusura del primo atto, riemergono formule e procedimenti della vecchia maniera:
vi si sentono reminiscenze del Turco in Italia e della Cenerentola.
Nel secondo atto, l’inno «Divin prophète» [Divino profeta] è una grande pagina corale, che si può collocare accanto a quella del Mosè e che esprime già lo spirito della coralità verdiana dei Lombardi e dei Vespri siciliani.
Il Terzo atto è formato, quasi tutto, da musica scritta ex novo e rivela una maggiore coerenza di stile rispetto agli atti precedenti; un’atmosfera di morte e di distruzione domina la scena, che si svolge nel cimitero di Corinto; le voci di Pamira e d’Ismene sono congiunte in una preghiera semplice, pura e nobile («O toi que je revère» [O tu che io riverisco]), sopra un accompagnamento di arpeggi.
Un’altra pagina stupenda è la scena della benedizione delle bandiere greche e del giuramento con la profezia di Jero, che vede un «nuage sanglant» oscurare il cielo e predice: «cinq siècles d’esclavages» per il popolo greco.
Poco è rimasto del Maometto II: eliminati molti pezzi, non v’è una sola pagina, che non sia stata ripensata e spesso radicalmente trasformata in funzione di un’unità drammatica, nelle quali le voci solistiche, corali e strumentali sono poste sullo stesso piano, piegate, quasi sempre, alle sole necessità espressive del dramma umano; ne risulta una tessitura polifonica, nella quale già s’individua quel clima religioso della preghiera e della coralità, che diverranno forme travolgenti di un contenuto spirituale e sociale nell’opera verdiana.
Il pesarese persegue e porta a maggior sviluppo questa nuova esperienza creativa con l’opera successiva, nella quale le forme chiuse ormai cadono, giacché il recitativo ampio e solenne, la preghiera, la coralità, con un’individuazione psicologica ancor più spiccata, sono fusi in un continuo ed omogeneo discorso.
Nel 1827, va in scena il Moïse et Pharaon ou le passage de la Mer Rouge (rifacimento del Mosè in Egitto, presentato a Napoli nel 1818), riuscendo un autentico capolavoro nella nuova versione francese.
Grazie alla riduzione in quattro atti operata da Luigi Balocchi e Victor Joseph Etienne de Jouy, Rossini poté comprendere meglio il significato dei testi biblici e cogliere il sentimento religioso ed umano di un popolo, che lotta per la propria libertà in nome di un Dio unico ed indivisibile. Protagonista è il coro, l’intero popolo d’Israele, che, sotto la guida di Mosè, si avvia verso la Terra promessa.
Nel Moïse confluirono, seppur ampiamente ripensati, solo sette pezzi del precedente Mosè.
L’opera inizia con un preludio, i cui frammenti tematici si riascolteranno nel corso dell’opera: il primo, misterioso, quando Mosè si reca a prendere le Tavole della Legge; il secondo, col suo andamento di marcia, è il tema dell’esodo degli Ebrei verso la Terra promessa, il cui nucleo ritmico germinerà in altre situazioni strumentali e corali.
Emerge forte il contrasto tra Mosè ed Amenofi (figlio del Faraone, innamorato della nipote del profeta), che Rossini delinea in modo nuovo ed efficace: due mondi opposti ed in lotta tra loro.
Nel Moïse, non c’è la consueta lotta tra buoni e cattivi, con la tradizionale prevalenza dei primi; i personaggi sono cristallizzati all’interno della propria Tradizione e ne beneficia l’amore, sincero ma cieco del figlio del faraone, Amenofi.
La figura dell’innamorato resta all’interno della convenzionalità delle forme drammatiche; al contrario, Anaide (la nipote di Mosè) è una creatura quasi belliniana, fragile anima lirica in lotta tra l’amore ed il dovere, verso cui la sprona Mosè.
La figura del Profeta è stagliata nettamente, distinta da tutte le altre; egli si esprime attraverso un recitativo ieratico, fermo, svolto quasi sempre sopra una nota fissa e con brevi passaggi melodici, che si tramuta in canto soltanto in occasione della preghiera.
Indubbiamente, il Maestro risentì delle influenze spontiniane, nella costruzione del recitativo, sviluppato con una forza emotiva ed una spontaneità, che non troviamo in Spontini.
All’inizio dell’Opera, un recitativo con Coro, protagonista Mosè, che parla in tono ispirato su un movimento arpeggiato; nella coda, un’ascesa cromatica introduce un quartetto a cappella con coro, davvero sublime.
Il duetto tra Anaide e Amenofi («Si je perds celle que j’aime» [Se io perdo quella che amo]) ci porta in un clima “terreno”, lontano dalla spiritualità religiosa iniziale. E’ una pagina scattante nell’espressione vocale, che riflette l’impeto tenorile di Amenofi, ma non rivela ancora la personalità di Anaide, che si manifesta nel duettino successivo con la madre, cui la fanciulla confida i propri affanni. Il tempestoso finale riporta l’azione alla coralità, mettendo in rilievo il contrasto tra i due popoli.
Il secondo atto è dominato dalla «scena delle tenebre»: tre unisoni degli ottoni creano l’atmosfera dell’incubo data dalle tenebre; quindi, un movimento intenso, con un disegno melodico ondeggiante, grande instabilità tonale, continue mutazioni strumentali, sopra il quale si alternano le voci del coro e dei solisti. Il recitativo acquista nuova potenza nell’invocazione di Mosè, che richiama la luce del sole ed eleva a Dio una preghiera, svolta in forma di Quintetto, con entrate del Coro («Les Dieux font trève» [Gli Dei hanno attenuato]) a brevi strofe compiute. Grazie all’abolizione della forma chiusa, anche il virtuosismo vocale appare quasi totalmente soppresso.
L’atto III si apre con una Marcia e coro («Reine des cieux» [Regina del cielo]), cui seguono azioni coreografiche, per le quali Rossini compone, per la prima volta, in modo accurato ed assai esteso tre «ballabili», al termine dei quali ha inizio un vasto finale d’atto con un nuovo prodigio di Mosè, che sfida Osiride, sacerdote d’Iside, mostrandogli la potenza del Dio d’Israele.
Il quarto atto, assai breve, si apre con un recitativo disperato tra Anaide e Amenofi, seguito da un duetto («Jour funeste» [Giorno funesto]), che mette a vivo contrasto i sentimenti dei due giovani mediante una melodia piena di slancio e di passionalità virile contrapposta ad una melodia piena di dolcezza e di dolore («D’un victime infortune» [D’una vittima sfortunata]), cantata da Anaide. L’arrivo improvviso di Mosè, su tempo di Marcia, interrompe il duetto; egli pone ad Anaide di scegliere fra l’amante e il suo Dio; nel rondò «Quelle horrible destinée» (Che orribile destino), la donna sceglie Israele. Amenofi avvisa Mosè che il faraone sta inseguendo con l’esercito gli Ebrei, per farne strage; il Profeta eleva la famosa preghiera, «Des cieux où tu reside» [Dal cielo dove tu risiedi], che avvia alla conclusione la vicenda biblica con la traversata del Mar Rosso.
Al nuovo Moïse, il pesarese lavorò per due mesi e volle egli stesso curarne la realizzazione scenica.Anche i più fieri avversari dell’opera italiana e del bel canto, alla testa dei quali era Berlioz, cominciarono a riconoscere la ricchezza inesauribile del genio rossiniano, che continuamente si rinnovava e sembrava essere solo all’inizio di una nuova radiosa epoca.
Si aspettava, con crescente interesse, uno spartito interamente nuovo dal pesarese, che, dopo qualche tempo, tornando al genere comico, propose un rifacimento de Il viaggio a Reims, che diventò Le comte Ory, lavoro che raccoglieva l’impulso della vecchia opera buffa e la maturata esperienza dell’opera drammatica, preludendo all’opéra comique e addirittura dell’operetta.
Il Compositore si avvalse della collaborazione di Eugène Scribe e Charles Gaspard Delestre Poirson per la stesura del libretto, la cui trama volle rifatta e sviluppata. Il soggetto è piuttosto lascivo: un libertino, per sedurre la moglie del Conte di Formoutiers, partito per la Terra Santa, si finge prima eremita e poi monaca, penetrando nel castello della Contessa in compagnia di altri quattordici libertini, camuffati con abiti religiosi femminili. La comicità musicale, che ne deriva, è tutta carica di larvato erotismo.
L’opera è suddivisa in due atti; tutti i recitativi sono strumentali ed al posto dell’Ouverture, troviamo un breve preludio.
Il Conte Ory si presenta con una cavatina dai vocalismi petulanti, con la quale Rossini sembra prendersi in giro. Anche in questo melodramma, Rossini abbandona il concetto che l’opera debba essere un insieme di pezzi staccati, collegati da recitativi, ma fonde ormai in un discorso musicale continuo recitativi, arie, duetti, terzetti e concertati.
Il vero gioiello del Primo Atto è il duetto tra Ory ed il paggio: brio scintillante, accenti erotici e furbeschi. La pagina più straordinaria è il terzetto dell’Atto Secondo fra la Contessa, Isoliero ed Ory, in cui il Compositore sembra trovare un equilibrio mozartiano, anticipatore della maturità verdiana. In questa atmosfera, entrano, s’intrecciano, con velata sensualità, le tre voci volgendo progressivamente al patetico, al malizioso ed, infine, al comico, per concludere in un improvviso e brioso Allegro vivace.
Durante la composizione del Comte, Rossini sceglie il soggetto della nuova, grande opera seria francese: Wilhlem Tell di Friedrich Schiller.
La stesura del libretto fu affidata a Victor Joseph Étienne de Jouy; Rossini non gradì il lavoro svolto dal «poeta titolare dell’Opéra»: troppo ampolloso, retoricamente macchinoso.
Affidò, allora, la revisione del libretto al giovane poeta Hippolyte Bis, che mise in rilievo l’elemento idilliaco, intrecciato armoniosamente a quello drammatico dell’azione storica e passionale, rappresentato dall’amore fra il semplice pastore Arnoldo e la principessa Matilde.
Guido Pannain scrisse, a proposito del Guillaume Tell: «[…] è la sintesi di tutte le opere di Rossini purificate dalle scorie del non – Rossini. […] Guillaume Tell è opera perfetta, perché in essa è compiuto l’ideale rossiniano che è da ricercarsi nell’atteggiamento spirituale, peculiare a certi stati d’animo dell’Europa post – napoleonica».
Ed ora entriamo nel Capolavoro.
La nota ouverture è composta di quattro episodi, che risultano suggestiva anticipazione del tempo storico e del paesaggio, in cui si svolgerà l’azione. Il linguaggio rossiniano rappresenta un’autentica rivoluzione rispetto alle ouverture precedenti: il piano espressivo “romantico” trascende quello edonistico delle passate ouverture.
Il secondo episodio Allegro è l’evocazione di un temporale, nel quale è introdotto un rapido e conciso crescendo; l’effetto descrittivo è ottenuto con una sorprendente modernità timbrica. Nell’Andante successivo, il corno inglese col flauto dialogano melodicamente; il quarto ed ultimo episodio, si apre con un’inattesa fanfara, che ripropone la famosa cavalcata rossiniana, caratterizzato da contrasti ritmici e strumentali.
La scena è ambientata in un villaggio nel cantone di Uri, presso Altdorf; contadini, cacciatori e pescatori si preparano a festeggiare, con canti e danze, le nozze di tre coppie di pastori. L’atmosfera campestre è delineata da un tema pastorale, cantato dai fagotti e dai violini in ottava, cui risponde il clarinetto.
Un coro sereno e pacato («Quel jour serein le ciel présage» [Che giornata serena il cielo presagisce]), seguito immediatamente dalla bella melodia cantata da un pescatore, con accompagnamento di due arpe. Al canto contemplativo del pescatore, s’intreccia la melodia di Tell, che acquista un potente rilievo espressivo, soprattutto nel Quartetto («Il chante, et l’Helvétie pleure sa liberté» [Egli canta e la sua Svizzera piange la sua libertà]), che segue.
Due corni risuonano in lontananza e preparano l’arrivo di Arnold e di suo padre Melchtal, il saggio del cantone; il sestetto con coro («Aux chants joyeux» [Ai canti gioiosi]) prorompe in un inno di grande letizia; voci umane e voci strumentali s’intrecciano e si compenetrano attraverso una rigorosa unità tematica, presentando fluidamente slanci lirici e drammatici.
Il coro si allontana e Tell invita Melcthal ed il figlio Arnold, in casa propria.
Il racconto ora si concentra su due contrasti psicologici: la coscienza ferma di Tell e l’irrequieto stato d’animo del giovane Arnold, il quale è rimasto scosso dalle parole del padre («La bonheur d’être père! Tu l’entends, ô mon fils, c’est le suprème bien» [La felicità di essere padre! Tu capisci, figlio mio, E’ il bene supremo]), ma non sa come trovare la felicità nel matrimonio con la principessa d’Asburgo Mathilde, che un giorno egli salvò da una valanga.
Il recitativo – monologo di Arnold è interrotto dai corni di caccia di Gesler, che s’odono in lontananza. Arnold si avvia verso il bosco, per incontrare Mathilde, ma Tell lo ferma, poiché ignora la passione, che anima il giovane, ed immagina che voglia arruolarsi nelle file dello straniero, abbandonando il Paese. Il duetto tra Tell e Arnold («Où va tu? Quel transport t’agite?» [Dove vai? Che tormento d’affligge?]) è un esempio di rara forza ed originalità di accenti espressivi, forse mai raggiunti precedentemente da Rossini. La melodia di Arnold anticipa quasi lo stile più maturo e penetrante di Verdi.
Sul concitato dialogo, domina la fanfara di Gesler, che riapparirà nel corso degli Atti primo e secondo. Rossini usa questo mezzo, per manifestare un incubo, che pesa sui personaggi e determinerà il loro comportamento: il ricordo della donna amata per Arnold; l’oppressione, sempre più crescente, per Tell. Gesler, insomma, è presente senza entrare in scena (avverrà all’Atto Terzo) attraverso un’immagine strumentale, forma precisa ed elemento dialettico dell’azione.
Tutto l’Atto Primo (il più lungo) è un grande inno al fresco sapore della terra ed un radioso sentimento della natura.
Dopo il duetto tra Tell e Arnold, riprende la festa nuziale (recitativo e coro «Ciel, qui du monde» [Cielo, che del mondo]), che si snoda attraverso cori e danze di grande varietà ritmica, armonica e strumentale: il coro e danza «Hymenée, ta journee» (Imeneo, la tua giornata), il famoso «Pas de six», una gara di tiro al bersaglio con la balestra, nella quale Jemmy è il vincitore ed infine una pantomina in forma di marcia, in cui s’innesta il coro («Gloire, honneur au fils de Tell!» [Gloria e onore al figlio di Tell!]).
Quando la festa è al culmine, appare Leuthold, sconvolto; egli ha ucciso un soldato di Gesler, che aveva tentato di sedurre la figlia. Tell lo trasporta su una barca al di là del torrente; questa scena drammatica è resa con un recitativo, mentre si odono le voci degli uomini di Gesler avvicinarsi.
Il coro invoca la protezione del cielo («Diue de bonté» [Dio di bontà]) ed, al sopraggiungere di Rodolphe, capo delle guardie imperiali, che minaccia di mettere a ferro e fuoco il paese, se non si scoprirà chi ha favorito la fuga dell’omicida. L’iniziale preghiera si trasforma in un tumulto, per poi tramutarsi nuovamente in preghiera («Vierge que les Chrétiens adorent» [Vergine che i cristiani adorano]), intonata da Jemmy, Hedwige e dagli Svizzeri, mentre si sovrappongono le voci di Rodolphe e Melcthal con quelle dei soldati.
La prospettiva polifonica di questa scena assume l’aspetto del grande affresco epico, nel quale Melcthal dichiara che la Svizzera non è un paese di delatori; il suo arresto scatena la rivolta popolare in un serrato e dinamico accavallarsi di contrasti drammatici, che travolgono parola e suono.
L’Atto Secondo è ambientato in una valle ai piedi delle montagne del Rutli; la fanfara di Gesler annuncia un coro di cacciatori («Quelle sauvage harmonie» [Che selvaggia armonia]), cui risponde un coro di contadini («Au sein de l’onde»), su armonie semplici, accompagnate dalle arpe. Scende la notte, i cacciatori s’allontanano.
Un preludio pieno di mistero introduce l’arrivo di Mathilde, che si allontanata dal seguito di Gesler, al fine di trovare pace. Il preludio si protrae, in drammatico colloquio, col recitativo di Mathilde, al quale segue la famosa aria «Sombre forêt» (Selva opaca), in cui Rossini dipinge magistralmente le vibrazioni dell’animo femminile in una sintesi lirico – drammatica assai penetrante, che anticipa il realismo psicologico di Verdi. L’aria si apre con una dolorante e misteriosa immagine melodica, che si spegne in un cupo anelito dei timpani; la voce svolgerà un’altra melodia intensamente espressiva, assai sorprendente per l’ampiezza del periodo.
Finalmente sola, Mathilde spera d’incontrare Arnold. Nel recitativo e duetto, che segue («Oui, vous l’arrechez à mon âme» [Si, voi avete catturato alla mia anima]), Arnold confessa di voler partire, al fine di dimenticarla; Mathilde invece lo sprona a conquistarsi meriti militari, perché possano così essere superate le distanze sociali, che li dividono. Il duetto inizia con un movimento agitato di terzine e d’incisi cromatici (flauto, oboe, e clarinetto), prosegue incalzante in alternati sviluppi ed, alla stretta conclusiva, muta improvvisamente espressione musicale. La speranza ora è nel cuore degli innamorati («Retournez aux champ de la gloire» [Ritornate ai campi della gloria]); sottovoce trombe e corni segnano un ritmo marziale insistente, che accompagna il canto in un gioioso crescendo. Si ritorna al recitativo: un fremito in orchestra annuncia l’arrivo di qualcuno («On vient, séparons nous» [Viene qualcuno, separiamoci]).
Mathilde si allontana, Tell e Walter Furst raggiungono Arnold, decisi a conquistare alla causa comune il giovane. Nel recitativo, pieno di tensione, Tell domina con tutta la sua nobiltà; il terzetto concertato seguente è di ampie proporzioni. Dapprima lo scontro fra i due patrioti e Arnold, accecato dalla passione («Quand l’Helvétie est un champ de supplices» [Quando la Svizzera è una terra di supplizi]); poi l’inaspettata rivelazione della morte di Melcthal, ucciso sotto gli occhi di Gessler, tramuta il terzetto in un drammatico declamato e, quindi, in un nuovo episodio («Embrassons nous d’un saint délire» [Abbracciamoci in un santo delirio]): ritmo veemente ed una stretta piena di ardore, che quasi anticipa il giuramento dei congiurati, nel nome del sacrificio eroico di Melcthal, con cui si chiuderà l’Atto Secondo.
Il fascino misterioso della natura domina la scena dei congiurati: tre cori si succedono con l’entrata progressiva dei medesimi, per sfociare nella scena solenne del giuramento.
Riuniti i tre gruppi, un ritmato movimento, caratterizzato dal pizzicato degli archi, sviluppa a gruppi simmetrici una polifonia d’imitazioni di singolare forza espressiva. Tutti si rivolgono a Tell («Parle! Parle!») ed egli esprime con voce pacata («L’avalanche roulant du haut de nos montagnes» [La valanga che si precipita dall’alto delle nostre montagne]) in un fermo recitativo la sua autorità; segue l’intervento di Walter Furst, poi il coro, Arnold; lo sviluppo dinamico porta infine un disegno melodico di terzine ribattute degli ottoni. Tell pronuncia la formula del giuramento («Jurons, jurons par nos dangers» [Giuriamo, giuriamo per i nostri pericoli]), per la quale Rossini non usò il consueto effetto di crescendo e stretta finale; iniziato con un travolgente fortissimo, il giuramento conclude con un pauroso pianissimo.
Ecco l’alba! La rivolta: «Aux armes! Aux armes!» (All’armi!), un fulmineo movimento in orchestra e la tela cala rapidamente.
La prima scena dell’Atto Terzo, ci presenta una campagna remota, dove Arnold e Mathilde s’incontrano per un estremo addio. Un movimento a note ribattute prelude il recitativo e duetto («Pour notre amour» [Per il nostro amore]), che, in verità, inizia con un’aria di Mathilde; quando si arriva al Moderato, inizia il duetto («Quel bruit» [Che rumore]), che sembra conservare certe forme affrettate nelle prime opere drammatiche rossiniane.
Nella seconda scena, Gessler entra con Mathilde e col seguito, annunciato da una fanfara. Il ritmo marziale è volutamente grossolano e tronfio, al fine d’esprimere la forza bruta del dominatore.
Ancora delle danze rischiarano l’orizzonte musicale: «Pas de trois», seguito da un coro tirolese («Toi que l’oiseau» [Tu che l’uccello]), ancora una danza e si ripete il coro tirolese, una terza figurazione coreografica ed il galop finale commenta la sfilata dei soldati.
I temi di questi ballabili sono ampiamente ed elegantemente sviluppati da Rossini, come non se ne trovano in nessun’altra opera.
In un drammatico recitativo, Tell ricusa di rendere omaggio al trofeo d’armi, eretto da Gessler, simbolo di sovranità imperiale. Segue il quartetto «Tant d’orgeuil me lasse» (Tutto questo orgoglio mi stufa), una delle pagine più dense dell’Ottocento musicale, aperto dall’intervento di Gesler, cui segue la voce di Rodolphe ed, in seguito, Tell con una melodia di eleganti proporzioni liriche, che cresce d’intensità espressiva nella dolorosa espansione melodica di Jemmy («Ah! Laisse moi par grâce» [Ah! Lasciami ti prego]), mentre Gesler e Rodolphe contrappuntano con un declamato a note spezzate, rafforzato dall’intervento del coro dei soldati («Quel excès d’audace» [Che eccesso d’audacia]).
Nel recitativo, che segue, Gesler costringe Tell alla prova più temeraria; è la preghiera «Sois immobile» (Resta immobile), che rivolge al figlio, dopo avergli posto il pomo sulla testa. L’introduzione del violoncello è parola – suono, declamazione melodica infinita, pura emozione interiore. La voce s’arresta su un tremolo pianissimo dell’orchestra; una fulminea scala di violini dal grave all’acuto trascinano allo scoppio corale «Victoire! Victoire!».
Gesler è preda dell’ira, che Rossini rende con un agitato ondeggiare degli archi; il concertato finale raggiunge un effetto di grandiosa turbinosità, caratterizzata da instabilità tonale, nonostante rientri nella forma convenzionale della stretta.
Nell’atto quarto, più breve dei precedenti, Tell è stato arrestato dagli uomini di Gesler, perché aveva promesso che gli avrebbe riservato una freccia, se avesse fallito il tiro; Mathilde è riuscita a salvare il figlio, Jemmy, prendendolo sotto la sua protezione. Arnold è dentro la casa del padre; un lento movimento di ottave degli archi in risposta al maestoso unisono degli ottoni, un drammatico lampo di quartine e lo scoppio del tutti.
L’agitato ondeggiare degli archi alla condanna di Tell, pronunciata da Gesler, riecheggia nei frammenti, che passano dai violini ai bassi e riportano al disegno inquieto dell’inizio.
Il recitativo di Arnold, «Ne m’abandonne point de la vengeance!» (Non mi abbandonare speranza della vendetta) si sviluppa su queste idee e si tramuta nella commossa e celebre aria «Asile héreditaire» (Asilo di mio padre). Arnold sa che non potrà unirsi a Mathilde e quel dolore si trasforma in purissima trascendenza melodica al ricordo del padre.
Il richiamo del coro dietro le quinte, «Vengeance!» (Vendetta!), desta Arnold.
Giungono i compatrioti, che comunicano l’inizio della rivolta, per salvare Tell. Coro e solista si alternano sopra una melodia orchestrale dai colori ante – verdiani, squillano le trombe in ritmo marziale («Amis, amis, secondez ma vengeance» [Amici, amici aiutate a mia vendetta]), che porta alla stretta, con la quale si chiude la scena.
Il finale si svolge sulla riva del lago dei Quattro Cantoni. Gli Svizzeri sono in attesa del segnale, per scatenare la rivolta; Leuthold sopraggiunge e comunica che Tell è riuscito a fuggire su una barca, inseguito dai suoi persecutori. Intanto la principessa Mathilde ha consegnato a Hedwige («Je rends à votre amour» [Rendo al vostro amore]) il figlio Jemmy. Riprende il recitativo, durante il quale si profila l’avvicinarsi della tempesta e si ha, quindi la preghiera di Hedwige («Toi qui du faible» [Tu che sei debole]), cui si uniscono la voce di Mathilde ed il coro delle donne.
La tempesta si manifesta nel tremolo degli archi, nel movimento cromatico dei fiati, fino a sfociare in un descrittivo sinfonismo, che prepara la comparsa di Tell sul lago e del suo rapido approdo. Un breve recitativo, un coro di soldati e Tell scocca la freccia, colla quale uccide il tiranno Gesler; la gioia prorompe nel Coro, ingigantito dall’arrivo degli insorti, guidati da Walter e Arnold. Come d’incanto, l’orizzonte si rischiara al suon dell’arpa, s’effonde di luce: la più importante melodia pastorale, che passa da uno strumento all’altro, mentre si alternano le voci. Il progressivo crescendo si scioglie infine in un radioso arpeggio, gli animi s’effondono in un canto liberatore: «Liberté, redescends des cieux! Et que ton règne recommence» (La libertà ridiscende dal cielo! E che il suo regno ricominci!)
Con questa pagina di sublime serenità e di pura poesia, Rossini chiude la propria esperienza
operistica.
Alessandro Di Adamo