Froberger, spirito splendido e sensibile
di Serena D'Ambrosio - 14 Gennaio 2020
Le notizie pervenute sulla vita di Johann Jakob Froberger sono frammentarie e ciò che resta della sua produzione sono tre grandi libri manoscritti, due mottetti e due stampe postume, una delle quali addirittura dal titolo Diverse ingegnosissime, rarissime & maj più viste curiosissime partite…, eppure è riconosciuto come pilastro della letteratura clavicembalistica. Sebbene risultino confuse le sue tracce, nonostante la fama in vita, l’autore è presente oggi in parecchi programmi concertistici ed è immancabilmente affrontato durante il percorso di studi di ogni cembalista.
La riscoperta di questo brillante autore è dovuta alla curiosità che destano i vari cicli di brani, imparagonabilmente raffinati, riccamente costellati di citazioni sia di temi che di stili, impreziositi da dense armonie dal sapore liutistico, ma che in particolare si configurano come una sinossi di stili, allo stesso tempo, come innovazione di quello tedesco e come crocevia tra Rinascimento e Barocco.
Spesso descritto con parole affettuose, Froberger ci appare come un maestro volenteroso, onesto, dotato di una sensibilità profonda che ancora oggi è presente nei preziosi lavori che rapiscono ascoltatori ed esecutori, produzioni gonfie di poesia, ora costellate dalla più recondita fantasia, adesso da un’incomparabile dolcezza, poi vigore e brillantezza dei passaggi toccatistici fino a sprofondare nell’oscurità del pianto di una meditazione sulla propria morte.
Figlio di Basilius Froberger e della moglie Anna Schmid, fu battezzato Johann Jakob a Stoccarda nel 1614; per quanto la sua infanzia sembri inghiottita dall’oblio, si dà per certo che le prime lezioni di musica gli furono impartite dal padre, allora tenore presso la Hofkapelle di Württemberg. Proprio in quegli anni fiorì la carriera di quest’ultimo, diventando Maestro di Cappella della corte, ruolo che gli permise di entrare in contatto con virtuosi di varie zone d’Europa come il Marini, gli inglesi John e David Morell o il liutista Borell, determinando un influsso sullo stile e sugli interessi della prole.
Di fatti il giovane Froberger, iniziato anch’egli come cantore alla Hofkapelle (Discant-Stimme come riportato dal Walther nel Musikalisches Lexicon), sembrava destinato a ereditare il ruolo del padre, ma con l’avvento della Guerra dei Trent’anni e la sanguinosa Battaglia di Nördlingen del ’34, la serenità della corte si dissolse e, con lo scoppio della peste tre anni dopo, si spensero l’attività della Hofkapelle e la vita di Basilius Froberger.
Non si conosce bene l’anno dell’effettivo abbandono della Cappella Reale da parte del giovane, avvenuta sicuramente prima della pestilenza. Vi sono alcune lezioni discordanti tra il Lexicon e il Grundlage di Mattheson che lo riportano rispettivamente come “quindicenne” e “diciottenne”, circoscrivendo un periodo tra il ’29 e il ’32 quando un ambasciatore svedese, infatuato della voce del giovane, lo prelevò portandolo alla corte imperiale di Vienna, proprio sotto il patrocinio di Ferdinando III, in cui cominciò l’attività di assistente dell’organista Ebner. Comprovando il suo talento, nel ’37 fu inviato a Roma per studiare con Frescobaldi, il “mostro de’ suoi tempi”, fino al ’41, raggiungendo la maturità artistica.
Da allora fino al ’45 e poi dal ’53 al ’57, Froberger ricompare nei registri viennesi, lasciando supporre che gli anni tra i due incarichi egli li abbia trascorsi in viaggi lungo l’Europa con l’entourage di corte nonché perfezionandosi con vari maestri. Tra il ’45 e il ’49 l’organista torna di nuovo a Roma, questa volta sotto la guida di Kircher, ma recenti ritrovamenti documentali lo portano invece sotto Carissimi. In realtà quest’ultima voce è frutto di un equivoco sorto dall’interpretazione approssimativa di una lettera di Froberger in cui lo cita come “maestro di Sant’Apollinare”. Oltre la dicitura ambigua, il dubbio è stato rafforzato dal fatto che la chiesa fosse allora attaccata al Collegio Germanico-Ungarico romano, istituto gesuita in cui l’organista risiedeva, nonché dalla menzione di Froberger in una lettera di Carissimi, il cui contenuto è esplicitamente negativo nel confronti del giovane organista tanto da lasciar intendere che non si trattava di un suo allievo.
Nella produzione frobergeriana sono invece presenti citazioni della monumentale Musurgia del Kircher (in cui egli è persino menzionato) e dello stile italiano, sebbene questa prova potrebbe non significare nulla, essa trova ragion d’essere nel momento in cui si affianca la frenetica corrispondenza dei patroni viennesi col religioso in proposito degli aggiornamenti sull’apprendistato di Froberger all’incredibile arca musurgica, nonché il rapporto di fedeltà e riverenza che emerge dalle lettere da parte del compositore in cui egli manifesta sincera gratitudine al maestro di Roma, informandolo dell’utilizzo dei segreti musicali svelatigli, nonché giurando e spergiurando di portarli con sé nella tomba.
Sicuramente uno dei maggiori benefici della corte viennese, assieme alla possibilità di poter viaggiare, fu la profonda amicizia con l’intellettuale Huygens, a cui si deve il merito dell’incontro con Chambonnières a Parigi nel 1652. Il soggiorno in Francia fu particolarmente prolifico poiché la contiguità di considerevoli personalità come Louis Couperin, lo stesso Chambonnières, o dei liutisti Gaultier e Blancrocher -dedicatario del famoso tombeau, tributo di gratitudine in seguito alla morte avvenuta letteralmente tra le sue braccia- influenzò fortissimamente lo stile frobergeriano: sono tutt’altro che infrequenti all’interno delle sue opere richiami allo stile francese, ricche di figure ispirate dalla pratica liutistica.
L’anno seguente Froberger tornò a corte rimanendovi fino al 1657, anno della morte del suo patrono. Gli anni successivi furono trascorsi dapprima a Londra, infine in ritiro in Francia presso la sua nuova mecenate e allieva, la principessa Sybilla di Württemberg, a d’Héricourt, fino alla fine dei suoi giorni.
Dobbiamo al periodo viennese la stesura delle tre principali fonti autografe di Froberger, quelle del ’49, del ’56 e del ’58, anni della permanenza a corte: le prime due presentate all’imperatore Ferdinando III e l’ultima al figlio, il futuro Leopoldo I, col tentativo (fallito) di ingraziarselo per poter continuare a prestare servizio a corte. Si suppone l’esistenza di almeno altri due volumi: gli esemplari del ’49 e del ’56, recando rispettivamente nel titolo Libro secondo e Libro quarto, lasciano immaginare almeno la stesura di un Libro primo e di un Libro terzo, ritenuti per ora perduti.
Assieme alla preziosa rilegatura, le raffinate decorazioni e l’elegante grafia che incornicia i brani conferendo alle redazioni carattere di ufficialità piuttosto che una destinazione quotidiana, spicca il cambio di genere di notazione per ogni nuova forma musicale che si incontra, che permette di ben inquadrare stilisticamente i pezzi. Esempi eloquenti sono le Toccate trascritte secondo i criteri dell’intavolatura italiana, o il corpus di Suite in intavolatura francese. La scelta dell’impiego di altri generi di notazione all’infuori dell’intavolatura tedesca risulta essere anche un mezzo ottimale di trasmissione del pensiero; vi sono esempi all’interno delle Toccate che fanno riflettere in merito, questa sede non basterebbe per elencarli tutti, ma nel complesso si tratta di variazioni su disegni melodici che si ripropongono, talvolta con combinazioni di diversi valori a cui si aggiungono ripetizioni di salti o altri principi di variazione delle toccate frescobaldiane, che finiscono spesso per dilatarne o restringerne la durata complessiva, o anche della durata della battuta in alcune occasioni.
Emerge infatti dalla corrispondenza con l’allieva di d’Hericourt che egli ritenesse la scrittura musicale in sé gravemente approssimativa: motivo della scelta del compositore di una circolazione ridotta delle sue opere e dunque della preferenza per la trasmissione orale per la corretta interpretazione. Scrive Sybilla: “si poteva raggiungere l’esecuzione desiderata solo quando la si era imparata dalla sua mano, tasto per tasto”, e ancora “se uno non avesse imparato a suonarle dal signor Froberger in persona, non saprebbe mai suonare con la dovuta discrezione”, lasciando intendere di avere a che fare con una netta distinzione tra la scrittura e l’idea sonora, più slacciata, quest’ultima, dai semplici criteri del rigore temporale o del rispetto millimetrico delle figure; con una musica in cui dominano la brillantezza dei contrasti, i toni vibranti del contrappunto, le bizzarrie dai toni malinconici; con una complessità retorica nascosta dietro ai gesti, quelle “vaghezze e leggiadrie che non si possono scrivere e che scrivendole non s’imparano dagli scritti”, che oggigiorno si fatica nel riportarle alla luce in tutto il loro autentico splendore.
Serena D’Ambrosio