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Il Duca allo specchio. Black, Brown and Beige e il Jazz come identità in Duke Ellington

di Federico Pariselli - 24 Maggio 2017

“Ecco chi era: un uomo per tutti, il massimo esempio nell’ambito jazz di completa dedizione e di incrollabile professionalità.”

Mentre gli Stati Uniti degli anni ’30 sembravano precipitare nella Grande Depressione, l’industria dello spettacolo avvertiva di meno le conseguenze della crisi. Nelle sue memorie Duke Ellington afferma che se vi era qualcosa che mai scarseggiava, quella era la richiesta di materia prima per la sua orchestra: tanto che lui e la sua jazz band lavoravano ad un ritmo forsennato, e gli ingaggi volavano sotto gli strali di un’ispirazione artistica che non cessava di dare i suoi frutti. Ed egli ne faceva un vanto. “Music Is My Mistress”, l’autobiografia ellingtoniana, presenta numerosi aneddoti sulla vita del Duca che oggi ci risultano molto utili per ricostruire una delle opere cardine della carriera del genio americano: “Black, Brown and Beige”. In questo testo leggiamo di un uomo che portava a termine con efficienza, rapidità e facilità qualunque richiesta del suo manager con l’orgoglio della professionalità, portando continuamente l’orchestra sul palco per una nuova rivista o in studio per una sessione di registrazione.

A proposito di Creole Rhapsody (1931) diceva di averla scritta di notte, e di essere stato poi costretto a dividere l’opera in due parti, talmente tanta era la musica, mentre riguardo alla rivista Chocolate Kiddies (1925) si vantava di averla buttata giù in una sola notte. Altri pezzi singoli, come “Mood Indigo” o “Solitude” gli richiesero non più di mezz’ora (non ci è difficile crederlo); il figlio Mercer Ellington ci racconta anche che tre numeri di “Jump for Joy”, il musical del 1941, videro la luce nella tratta ferroviaria tra Salt Lake City e Los Angeles; mentre Jimmy Jones, il pianista e arrangiatore che lavorò con lui tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 si stupiva di come fosse capace di creare un nuovo lavoro musicale dopo aver ben chiarito a se stesso cosa volesse e in che modo. Dalle sue stesse parole è evidente il totale distacco da un’idea di gestazione comune ai compositori europei fino al primo novecento, secondo quella visione romantica per cui il pezzo richiede una lavoro di mesi o anni e un “contatto con le Muse”. Tuttavia molte delle informazioni contenute in “Music Is My Mistress” richiedono un vaglio critico che vada oltre la soglia di affidabilità dei ricordi personali, considerando anche che Ellington aveva il suo bel carattere e che le bugie non si contano: in fondo anche queste altro non sono che un ulteriore mezzo per lo studioso e l’appassionato per conoscere uno dei più grandi uomini della musica del XX secolo. Uno di quelli il linguaggio del jazz ha contribuito a crearlo in prima persona.

La genesi

Analizzare dunque le vicende di quegli anni attraverso dichiarazioni giornalistiche e testimonianze di terzi rende la ricerca naturalmente molto più filologicamente corretta. Black Brown and Beige, un po’ come tanti capolavori, nasce di getto ma ha radici profonde, di almeno dodici anni: risale agli anni della crisi di Wall Street, se non addirittura ad una serie di esperienze personali inconsciamente presenti nell’artista fin dagli anni della sua adolescenza: prima ancora di essere una suite messa su carta, essa si carica di valori ideologici che prima di allora Ellington non aveva avuto modo di approfondire nel suo percorso di crescita professionale. Il maestro afferma che la composizione effettiva della suite avvenne non più di un mese prima del suo debutto del 23 gennaio 1943 alla Carnegie Hall di New York, ossia l’11 e il 13 Dicembre 1942, mentre lui e la sua orchestra erano impegnati in una rassegna che prevedeva una performance di Frank Sinatra e dei ballerini Baby Laurence e Jig “Saw Jackson”, assieme alla proiezione del film “The Cat Woman” (ma in realtà il film era “Secrets of the Underworld”). Stando alle sue parole, si sarebbe recato dietro la scene, dove era ubicato un pianoforte, e nel buio delle quinte avrebbe composto la suite. La conferma della composizione dell’opera durante questi giorni ci viene da varie note marginali sull’autografo: nella parte superiore della prima pagina l’autore scrive “Frank Sinatra, 143 Bergen Avenue, Jersey City, New Jersey”, che altro non è che l’indirizzo dell’artista con cui condivideva quelle serate, e più avanti, nella pagina contenente le misure 85-116 scrive un indirizzo e un numero di telefono per “Allen e Mrs McMillan” di Wilson, Connecticut (probabilmente intendeva Wilton, vicino Danbury), che egli avrebbe conosciuto a Hartford o a Bridgeport, nel Lyric Theatre, dove pochi giorni dopo Ellington e la sua band avrebbero portato a termine il loro ingaggio.

Black Brown and Beige, il “parallelo sonoro alla storia del Nero Americano” sarebbe nata dunque per caso dalla richiesta del suo manager, William Morris Jr., di scrivere una lunga opera da presentare alla Carnegie Hall. Ma Morris ebbe solo il merito di definire una scadenza, dato che l’idea era già presente nella mente di Duke da almeno un decennio, e nella carriera dell’artista sembrano ben tre le opere che avrebbero aperto la strada alla composizione dell’opera, caricandola in vario modo dei valori identitari che poi analizzeremo: il cortometraggio di nove minuti “Symphony in Black” (girato nel 1934 e uscito nel 1935), il musical “Jump for Joy” (1941, di cui scrisse 4 pezzi) e l’ancora molto sottovalutata opera teatrale “Boola”. Il tutto condito di stimoli vari provenienti dalla carta stampata. Tutti elementi, questi, che dimostrano quanto Ellington, in questo caso, avesse avuto suo malgrado un vero e proprio “contatto con le muse”, e senza neanche troppa ironia. Questo contatto dura più di una decade ed ricco di stimoli, perchè si dipana in tutto quell’arco di tempo che a partire dal 1932 vede aumentare in potenza gli ingaggi e le trasferte di “Duke Ellington and His Orchestra” fino alla frenesia, ad anche al di fuori degli Stati Uniti, tanto da sbarcare nel vecchio continente. Insomma, Duke ormai è famoso, e gira il mondo.

Verso la fine del 1930, alla fine del suo ingaggio con la band al Cotton Club di Harlem, durato all’incirca tre anni (dal Dicembre 1928 al Febbraio 1931), Ellington comincia a mostrare i primi segni di un interesse verso la musica nera e la sua storia, incardinato sulla volontà di ricostruire quasi “etnomusicologicamente” la storia dei suoi antenati, e lo dice in un’intervista rilasciata per il Christian Science Monitor il 13 Dicembre del 1930: si evince che lo scopo è quello di raccogliere una tradizione musicale che pochi conoscevano fino in fondo e di registrarla, così da compiere un lavoro di recupero e di divulgazione. Egli era convinto che pochi fino ad allora avessero studiato la storia della musica dei neri ed era conscio del fatto che un lavoro del genere avrebbe richiesto una fatica non indifferente. Poche settimane dopo, il progetto sembrava aver subito un’ulteriore maturazione nella sua mente, come disse al New York Evening Graphic, affermando di voler comporre, si badi bene, una storia del nero americano seguendolo in un percorso ideale che partiva dall’Egitto, passava per l'”Africa selvaggia” e approdava ad Harlem, meta finale, dopo la schiavitù del Dixie (termine che ancora oggi indica il Sud degli Stati Uniti).

Ricordare le testimonianze giornalistiche di quegli anni è fondamentale per sottolineare la ricomparsa, nella mente del compositore, di una tematica che aveva avuto modo di maturare nel corso della sua formazione scolastica superiore a Washington D.C. (vi era nato il 29 Aprile del 1899 e cresciuto): in quel sistema di istruzione i programmi prevedevano uno studio della storia dei neri americani e la città offriva molto frequentemente spettacolari rievocazioni storiche di stampo più teatrale che educativo; ma aveva avuto modo di maturare anche nel corso della sua attività di bandleader negli anni ’20 in vari locali Newyorchesi, nei quali aveva assistito a spettacoli esotici per la clientela bianca improntati ad una ricostruzione favolistica della storia dei neri americani; e lo stesso processo di evoluzione potrebbe ascriversi alla sua attività al Cotton Club dove con l’orchestra suonava davanti ad un’accorata clientela bianca varie musiche: quelle rievocanti le atmosfere esotiche della vita dell’africano nella sua terra vergine, i canti di schiavitù e i Minstrel Show, la musica simbolo di una progressiva ascesa sociale seguita alla Guerra d’indipendenza e molte altre simili; tappa finale di ognuno di questi percorsi era il “trionfo” della vita nel ghetto di Harlem. Una prospettiva evoluzionistica di stampo razzista dunque, condita di pregiudizi etnici ed etnomusicologici e creata dai “bianchi” per il divertimento esclusivo dei “bianchi”. Essi amavano questo tipo di spettacolo perché li trasportava in un’atmosfera esotica, dava l’illusione di essere ciò che forse volevano essere (il mito del “buon selvaggio” faceva molto bene la sua parte) e allo stesso tempo garantiva la superiorità del loro mondo e della loro società civilizzata.

L’infanzia e la prima giovinezza di Ellington a Washington sono molto importanti per l’opera oggetto del nostro articolo: la comunità nera di quella città non era certamente quella del Sud, e la vita del giovane Duke ha poco a che vedere con la miseria e gli stenti che troviamo invece nell’infanzia di Louis Armstrong, nativo di New Orleans, che il Sud di quegli anni lo aveva toccato con mano. Ma ciò non significava che a Washington la comunità nera non fosse orgogliosa delle proprie origini e non smettesse mai di ricordarle: oltre che attraverso l’istruzione, i numerosi spettacoli rievocativi della storia dei neri cominciarono già massicciamente dal secondo decennio del ‘900, per esempio con quel “The Stars of Ethiopia” portato nel 1915 da W.E.B. Du Bois e realizzato nell’American League Ball Park dove un Ellington teenager lavorava vendendo bibite. Lo spettacolo copriva 10.000 anni di storia ed era composto di musiche di compositori neri, balli simbolici e luci varie. Lo stesso accadeva nei teatri: nel 1911 l’Howard Theater rappresentava “The evolution on the Negro in Picture, Song and Story”.

Per quanto riguarda la sua attività di musicista nei locali neri degli anni ’20, prima ancora del Cotton Club, erano famosi gli spettacoli dell’impresario bianco Lew Leslie improntati sempre sulla storia degli africano-americani: il suo “Dixie to Broadway” del 1924 recava come prima scena “The Evolution of the Coloured Race” e aveva come protagonista la cantante e attrice di cabaret Florence Mills, mentre “Blackbirds of 1928” iniziava con “Way Down South”, continuava con “Scene in Jungleland” e terminava ad Harlem; ancora “Rhapsody in Black”, del 1931, si proponeva lo stesso scopo: raccontare attraverso la musica un viaggio di transizione dell’uomo nero dall’Africa ad Harlem, e Leslie ne era sempre l’impresario. L’anno dopo, “Blackbirds in 1929″ terminava addirittura in uno studio di registrazione di New York con il cast che interpretava varie figure allegoriche (come l'”Inspirazione”) nell’atto di cantare “I Can’t Give you Anything but Love” di Jimmy McHugh e Dorothy Fields. Anche il già citato Chocolate Kiddies, lo spettacolo itinerante a cui Ellington aveva partecipato componendo varie canzoni, mostrava fattura analoga, soprattutto nel terzo atto.

Tutti questi spettacoli avevano piantato in Ellington il seme di un progetto che si proponeva un racconto: quello della sua gente, la storia travagliata della comunità di cui egli si sentiva parte. Ma intendeva farlo alla sua maniera, non certamente secondo i criteri razzisti che queste precedenti rappresentazioni lasciavano trasparire: lì Harlem era la civiltà, l’Africa e le sue musiche tribali erano la terra dei selvaggi, con tutti quei balli romanticamente esotici e quella musica “Jungle”. A proposito del “Jungle”: Ellington l’avrebbe poi assorbito durante l’ingaggio al Cotton Club, e una volta fatta sua l’avrebbe riusata a sua volta nei suoi concerti, alla sua maniera, per i suoi scopi e con i musicisti che sapevano farne un’arte: si pensi al trombone di Joe “Tricky Sam” Nanton e al clarinetto di Barney Bigard. Ellington dunque partecipò sia al famoso “Blackberries” dato al Cotton Club nel 1929, sia l’anno successivo a “Blackberries in 1930”, e la sua band era talmente famosa da dover incidere in studio con il nome di “The Jungle Band”.

Rievocazioni storiche, spettacoli, libri di testo, esperienze lavorative: come tutto ciò è maturato in un’idea complessa e socialmente impegnata, soprattutto da parte di un artista che fino ad allora si era mosso nel mondo dello spettacolo di intrattenimento? C’è chi ipotizza legami con la Harlem Renaissance e con i suoi artisti impegnati: ma Ellington lasciò trasparire sempre un certo disinteresse verso questo fenomeno, nel quale non ripose mai le sue simpatie (non si curava troppo di Langstom Hughes o di Claude McCay, o gli ideali del “New Negro” di Alain Locke, anche se in seguito dirà alla rivista inglese “Rhythm” che i suoi scopi artistici erano paragonabili agli intenti del poeta nero Countee Cullen e ad altra letteratura di cui non fa il nome). C’è anche chi ipotizza una qualche influenza da vari predecessori che avevano scritto composizioni che lasciavano trasparire  un’ “intenzione sociale”, come il suo vecchio amico nonché mentore James P. Johnson, autore ad esempio di Yamekraw, in cui erano evidenti motivazioni ispiratrici di stampo sociale.

Yamekraw era descritto sulla partitura come “Un genuino trattato nero di melodie spiritual, sincopate e “blue””. E William Grant Still, l’orchestratore di Yamekraw, aveva prodotto qualcosa di simile con “Darker America” e “Black American Symphony”, che avevano come argomento il progresso sociale del nero americano. Nella sinfonia appena citata, vi è la descrizione di un progresso di tipo psicologico, descritto dalla musica, dalla paura, dal terrore, dalla violenza e dal desiderio di libertà fino alla sua conquista, e Duke in “Black Brown and Beige” evoca molto chiaramente le stesse emozioni attraverso il dolore dei canti della schiavitù di “Work Song” e la malinconia dello spiritual “Come Sunday”, ma anche con la disperazione di “Blues” contenuto in Brown fino ad arrivare al walzer di Beige “Sugar Hill Penthouse”.

Da quando il maestro, sul finire del 1930, ebbe annunciato il suo intento di scrivere un lavoro di ampio respiro basato sulla storia del nero americano, nel decennio successivo ricorrono frequentemente vari riferimenti al progetto. Sappiamo che fondamentalmente egli era indeciso sulla forma che l’opera avrebbe dovuto assumere. In un articolo del 1931 della rivista “Rhythm”  egli parla di “Rapsodia” come di un grande contenitore nel quale inserire i vari idiomi della musica del nero americano secondo un linguaggio sincopato, e mostra grande fierezza per il progetto descrivendosi come un suo pioniere nonchè membro di quella larga comunità che avrebbe dovuto rappresentare. Poi nel 1933 la Rapsodia era diventata una suite in cinque parti: “Africa”, “The slave ship”, “The plantation”, “Harlem” e un finale che ricapitolava i temi precedenti. Ma tutti questi riferimenti della carta stampata non dimostrano che avesse realmente iniziato a scrivere la musica della sua opera, e difatti così non sarà fino al 1942. Nulla dimostra che Ellington dunque fosse andato al di là del semplice intento.

Le prime opere che hanno aperto la strada

Arriviamo ora a “Symphony in Black”. Si tratta di un cortometraggio della Paramount girato nel 1934, della durata di 9 minuti circa in cui Ellington è rappresentato nell’atto di comporre una “New Symphony of negro Moods”.

Il cortometraggio è molto semplice da capire: sono proiettate immagini di un giovane Ellington che, seduto al pianoforte, dopo aver ricevuto da un anonimo impresario l’incarico di un lavoro sinfonico attraverso la buca delle lettere della porta, compone l’opera; parallelamente compaiono momenti in cui lui e la sua orchestra sono in scena, davanti al pubblico. Anche qui la sinfonia presenta un contenuto programmatico che si alterna alla sequenza principale tramite un montaggio alternato alle scene precedentemente descritte. Troviamo gruppi di uomini al lavoro (“The laborers”), un amore respinto (“A triangle” ) diviso in tre parti: “Dance”, “Jealousy” e “Blues” (con una giovane Billie Holiday), il funerale di un bambino (“A hymn of Sorrow”) e un esuberante ballo da night club (“Harlem Rhytm”). Vari critici hanno notato dei parallelismi tra “Symphony in Black” e Black brown and Beige: entrambe mostrano un percorso simile a quelli precedentemente descritti, ovvero un progresso dal Sud al Nord, dalla schiavitù alla libertà; inoltre il tema dei lavoratori all’inizio può essere visto come una bozza per “Work song” nella sezione “Black”; un blues è presente anche in “Brown”, e il potere consolante della religione che viene trattato nel nella scena del funerale è ripreso nello spiritual “Come Sunday” presente in “Black”, dove troviamo lo straordinario sax di Jhonny Hodges. Alcuni critici rivelano anche una stretta somiglianza musicale tra una frase melodica discendente presente in “Hyms of Sorrow” e una del tema di “Come Sunday”. Nonostante le somiglianze, tuttavia, vi è una differenza enorme: mentre la sinfonia rappresenta una cucitura di parti singole e distinte, Black brown and Beige costituisce un unicum coerentemente concepito. 

Negli anni seguenti le notizie da parte di Ellington di un’opera che raccontasse una storia del folklore nero continuano ma senza trovare concreta materializzazione, anche diffuse dallo stesso manager di Ellington, Irving Mills, allo scopo di trovare sponsor e contemporaneamente di spingere il maestro alla conclusione definitiva. Passiamo ora al musical “Jump for Joy”, la seconda grande esperienza di riferimento, rappresentato al Mayan Theater di Los Angeles nell’estate del 1941. Sebbene basato su temi storici, questo musical aveva più che altro una funzione didattica e di presa di coscienza: Ellington lo aveva creato come uno strumento di propaganda per correggere la situazione razziale negli Stati Uniti. Si trattava di un prodotto satirico, con l’evidente scopo di intrattenere (si pensi a”I’ve got a Passport from Georgia” e “Uncle Tom’s Cabin in a Drive Now”). Il grande effetto che ebbe questo lavoro fu quello di catalizzare l’attenzione del compositore su una tematica sociale e su ideali precisi, aumentando il suo senso di responsabilità.

Boola

Arriviamo così all’ultima fonte, paradossalmente la più importante e massiccia nonostante sia rimasta incompleta e mai rappresentata. E’ infatti proprio durante il periodo di “Jump for Joy” che i riferimenti a Boola, un’opera teatrale a lungo rimandata, si infittiscono. Vari giornali fanno riferimento a quest’opera ma il più completo articolo sembra essere stato pubblicato da Alfred Frankenstein, un critico musicale del San Francisco Chronicle: esso riportava che Ellington aveva lavorato nei 9 anni passati a quest’opera e che nonostante non fosse ancora conclusa egli avrebbe potuto benissimo farlo in pochissimo tempo. Nell’articolo di Frankenstein troviamo le parole dello stesso Ellington che descrive il protagonista dell’opera, Boola, come un’allegoria della storia del nero americano: Boola sarebbe un termine appartenente al linguaggio slang con cui non si identifica una persona precisa, ma l’intera comunità nera nelle sue diverse fasi storiche. Ellington diceva di voler pensare sia al libretto che alla musica e di voler supervisionare il progetto; in questo preciso momento della sua vita egli mostra una volontà programmatica molto più forte rispetto agli anni precedenti, essendo la sua coscienza comunitaria fortemente progredita.

Il suo intento è quello di salvare la musica africano-americana dagli arrangiamenti dei compositori che utilizzavano tecniche di stampo eurocolto, ma nonostante ciò non portò a termine il progetto. Tuttavia dall’articolo di Frankenstein si evince che il progetto di Boola fornì la base per “Black brown and Beige”: in quest’ultima vi è prima di tutto l’eliminazione della prima scena africana, e poi la rielaborazione delle altre 3 come movimenti individuali di un parallelo sonoro. I rapporti tra Boola e la nostra opera sono ancora in fase di studio, anche perché Boola è rimasta a lungo ingiustamente adombrata.

Recentemente però due documenti hanno fatto luce sui collegamenti tra le due opere, in particolare sulle relazioni tra la loro forma e il loro contenuto. Il primo documento non ha titolo, ed è un abbozzo di 29 pagine, in parte in poesia e in parte in prosa, scritto a mano da Ellington e oggi conservato allo Smithsonian’s Duke Ellington Collection. Il secondo documento invece è una versione più estesa del manoscritto precedente, è lungo 33 pagine, dattiloscritto, ed è stato in possesso della sorella del compositore Ruth Ellington Boatwright. Questi due documenti mostrano come Boola e Black Brown and Beige condividano lo stesso scenario e derivino da uno stesso impulso creativo. Datare queste due fonti è difficile anche se sappiamo che il manoscritto precede il dattiloscritto; un primo collegamento tra i due è presente a pagina 21 dell’abbozzo: Ellington ha scritto”Brown 2nd mvt”, e nel punto in cui dovrebbe cominciare “Beige” Ellington scrive”Harlem/black metropolis”. Il dattiloscritto è anche diviso in tre parti ed etichettato secondo i movimenti della composizione. Dati i vari riferimenti della stampa a quest’opera tra il 1934 e il 1941, Duke avrebbe abbozzato il manoscritto durante questo periodo, mentre il dattiloscritto sarebbe stato iniziato nel periodo precedente la première di “Black brown and Beige” e completato subito prima dell’evento. In entrambe le fonti tutto il processo narrativo si svolge attorno al personaggio di Boola, un africano che viene portato nel nuovo mondo su una nave schiavista: il suo viaggio si conclude nel Nord America dove, dopo gli orrori della schiavitù, incontra una compagna di nome Voola, si converte al Cristianesimo e partecipa a varie rievocazioni storiche della Storia africano-americana.

Perchè Boola non fu più realizzata? Uno dei motivi potrebbe essere quello della infattibilità della rappresentazione teatrale. Realizzare infatti una serie di repentini cambi di scena relativi ad epoche diverse in teatro sarebbe stata un’impresa titanica, mentre realizzare un parallelo sonoro avrebbe reso l’impresa molto più fattibile sul piano drammaturgico. Nonostante entrambe le fonti di cui si è parlato non presentino alcuna scrittura musicale, tuttavia è possibile fare dei collegamenti. Innanzitutto in Black Brown and Beige Ellington sopprime totalmente la scena iniziale di Boola, dedicata al viaggio dall’Africa al nuovo mondo a bordo di una nave, ma in questa su Boola sono comunque presenti i riferimenti musicali, in particolare ad una “sinfonia della tortura” e a vari suoni legati ad un’atmosfera tetra. Ellington inizia direttamente “Black Brown and Beige” con “Work Song” che si apre con il suono dei timpani di Sonny Greer, i quali richiamano il testo iniziale del manoscritto di Boola.

Un messaggio è mandato attraverso la giungla dai tamburi
Boom Boom Boom Boom
Come un Tom Tom con precisione costante

Questo motivo dei timpani presente in Black è anche l’idea ritmica che tiene unite le tre sezioni del dattiloscritto e che ritroviamo sulla bocca dei personaggi nell’atto di compiere differenti attività, per esempio quando i lavoratori cantano lavorando (“Sing sing sing sing”), oppure il suono delle campane che convoca Boola in Chiesa (“Dong dong dong dong”). Tale motivo percussivo rappresenta il più forte punto di contatto musicale tra le due fonti.

Un articolo comparso nel 1942, poco prima l’ingaggio di Ellington ad Hartford dove iniziò a comporre “Black brown and Beige”, conferma i collegamenti tra Boola e l’opera in questione, poiché vi si dice che al concerto che si sarebbe tenuto poco tempo dopo alla Carnegie Hall Ellington avrebbe realizzato una “Sinfonia Jazz” composta su temi originali ricavati da Boola. Inoltre il motivo ritmico di cui sopra ricorre anche in “Koko”, un’altra opera del maestro che secondo gli studiosi deriverebbe da Boola. Tutto insomma sembra tornare alla perfezione.

Un occhio all’opera

Proviamo ora ad entrare di più nel vivo di “Black, Brown and Beige”. Purtroppo disporre di uno spartito è difficile, poichè sembra che una trascrizione ufficiale fedele non sia stata fatta, anche se è probabile che sia in corso d’opera per la Jazz at Lincoln Center Library (la quale presenta già diverse trascrizioni di altri lavori di Ellington e di altri compositori). Il primo movimento, “Black”, è il più sostanzioso ed è formato da tre grandi sezioni: “Work Song”, “Come Sunday” e “Light”. Secondo il suo scopo di raccontare la vita nella storia del nero americano, l’opera, specialmente nella prima sezione, “Work song”, si basa in gran parte su materiale tematico collegato ai canti di lavoro e allo Spiritual, facenti parte della tradizione popolare dei neri durante il periodo della schiavitù. Subito dopo minacciosi e drammatici colpi di timpani compare il tema imperioso per ottoni e sax all’unisono,

che ricorda un altro tema di “Don’t Get Around and Much Anymore”, uno standard che ad Ellington in quel periodo ronzava frequentemente in testa.

Dopo che il tema iniziale è stato appena esposto il tempo raddoppia su uno swing trascinante dei sax che poi lo riespongono anche loro a tempo doppio. In questa forma intensificata il tema è riaffermato, presentato tre volte in successione, prima dai tromboni, poi dai sax un’ottava sopra, e poi dalle trombe.

Eccoci di fronte alla prima atmosfera dei canti di lavoro, con un tema brillante, swingante, ed energico dei sax, in mi bemolle maggiore, pieno di sincopati che conduce in diminuendo ad un episodio che è nuovamente introdotto dalla comparsa dell’imperioso tema iniziale; vi è qui la preziosità di legare forse per la prima volta un elemento del folklore nero al jazz orchestrale, dopo che William Grant Still aveva operato nella stessa direzione con l'”Afroamerican Symphony” (importante precedente di “Black, Brown and Beige”).

vi è poi una transizione a cappella del sax baritono di Carney, che subito dopo si lancia in un solo: sembra di trovarci in un nuovo tempo, ma in realtà siamo tornati al tempo della prima esposizione, tant’è che il solo si conclude con una nuova, fiera riesposizione del primo tema. Eccoci di fronte al solo di tromba di Harold Baker, il quale conduce ad un nuovo episodio dove fa la comparsa il trombone di Nanton. Questa volta l’atmosfera è quella di un altro canto di lavoro, e Nanton dà sfoggio di tutta la sua tecnica plunger attraverso il suo classico sturalavabo in gomma applicato su una sordina. Eccone due estratti.

Il solo di Nanton è un tocco di maestria unico, è pungente, malinconico, lamentoso: come si dirà in seguito, infatti, Ellington scrive le parti in funzione dei musicisti che le andranno a suonare, ed è lecito pensare che nella sua testa fosse già presente il suono che il formidabile musicista avrebbe sviluppato, con i suoi lamentosi yah yah. Un solo indimenticabile, che forse nessuno trombonista posteriore riuscirà a restituire. Il solo gracchiante di Nanton rallenta a poco a poco

fino ad approdare al secondo episodio, la sezione “Come Sunday” introdotta dal sax contralto di Otto Hardwick. Eccoci di fronte ad una delle sezioni più evocative dell’opera, in una musica che assume una colorazione preistorica, lontana dall’eccitazione dello swing, in un’atmosfera vespertina, quasi chiesastica e spirituale in cui risuonano da lontano i tocchi delle campane: vi è religiosità profonda.

Il vero e proprio tema di Come Sunday è annunciato Adagio da una tromba con la harmon chiusa sopra degli ottoni smorzati, finché non passa a Lawrence Brown, con un’armonia sottostante delle parti e una condotta profondamente toccante, un altro tocco di classe del compositore, il cui trucco sta nella caratteristica prettamente ellingtoniana di fusione e mescolanza armonica e timbrica. L’armonia è data da accordi di dominante sospesi in secondo rivolto, suonati dalla sezione dei sax. Ecco che mentre Brown continua sul tema di Come Sunday, Ray Nance con il suo violino esegue degli obbligati che a poco a poco si trasformano in sostanza tematica primaria.

Siamo arrivati al momento culminante. Esso è probabilmente uno dei più alti non solo di Black ma anche dell’intera composizione: dopo una breve modulazione per piano in cui sentiamo forse per la prima volta chiaramente Ellington accompagnato da ottoni sordinati, il tema di Come Sunday è suonato dal magnifico sax di Johnny Hodges, secondo il suo personalissimo stile.  In “Come Sunday” vi è l’evoluzione di un linguaggio che Ellington aveva utilizzato già in “Reminiscing in Tempo”: la melodia, così come Duke la scrive, è estasi pura. Dolcissima innanzitutto. Nessun compositore dell’epoca avrebbe forse potuto scriverla; nella sua rara bellezza essa è portata ai massimi termini dai glissando e dai legato di Hodges che sembrano raggiungere il culmine espressivo, accompagnati da tremoli di chitarra e note di basso con l’arco.

Eccoci di fronte ad una nuova transizione al cappella per tromba sola con degli arpeggi di accordi diminuiti che conducono alla terza parte di Black. L’eccitazione sale, il ritmo si fa più elastico e compare un tema jump, mentre ritroviamo Rex Stewart che con stile plunger a mezzo pistone lo manipola, lo esplora, usando come soggetto alcune parti del tema principale dell’opera. Altri motivi di canti di lavoro sono poi richiamati da altri solisti, inclusi Junior Raglin al basso e Lawrence Brown, sostenuti da vari gruppi strumentali. Ciò che Ellington compie qui è una ricapitolazione dei temi precedenti, tant’è che uno dopo l’altro compaiono i due temi di Come Sunday e il tema imperioso iniziale, fino a giungere un finale di 56 battute che fornisce a Black una conclusione alquanto elettrizzante.

In “Brown”, la sezione centrale, Ellington tenta di ritrarre vari aspetti del contributo del nero al XIX secolo, dalla rivoluzione alla guerra civile, perfino con un omaggio di colore spagnoleggiante all’emigrazione nera nei Caraibi. La sezioni di questa parte sono tre: “West Indian Dance”, “Emancipation Celebration” e “The Blues”. Si ode verso l’inizio anche un chiarissimo effetto di treno in corsa creato dagli ottoni, simboleggiante il passaggio a Nord. Vi è un duetto tra sax alto e tenore interrotto da una figura ascensionale che forse simboleggia lo sconvolgimento portato dalla guerra civile nella vita dei neri, cui segue una gioiosa “Emancipation Celebration” preparata dalla cornetta di Rex Stewart, poi raggiunta da Nanton e dal basso di Raglin.

Siamo arrivati ad un momento di arte allo stato puro: “The Blues”, una sezione in origine sottotitolata “Mauve”da Ellington, in cui domina una struttura metrica retta da “principi di espansione e contrazione” (Gunther Schuller), e in cui la musica rispecchia lo stesso schema. Infatti essa si sviluppa sommando segmenti melodici che coprono intervalli sempre più lunghi, che poi tornano su se stessi come dei palindromi,

Qui il blues è la metafora del ventesimo secolo e della graduale urbanizzazione dei neri. Quella sera a cantare c’era l’eccellente Betty Rochè, la cantante di Ellington dell’epoca, alle cui parole “Low, Ugly, Mean Blues” compare un accordo atonale con percussioni che interrompe il blues. Esso però non cessa, ma passa ora all’inimitabile sax tenore di Ben Webster, che si caratterizza subito per il suo inconfondibile vibrato. Senza transizioni né modulazioni, Ellington prepara un blues regolare di 12 battute che avrebbe ripreso un anno dopo per farne un pezzo a sè stante, intitolato per l’appunto “Carnegie Blues”. La voce rientra quindi per l’ultima strofa, i cui versi si rattrappiscono fino alle due sillabe finali. Un accordo scuro e tetro in tonalità ambigua conclude questa pagina, lasciando l’ascoltatore in uno stato di inquietudine e di mancata speranza.

“Beige” invece ritrae la storia del nero nell’epoca di Ellington, ovvero gli anni tra le due guerre. Si tratta di un episodio in cui a ritmo frenetico si susseguono l’uno dopo l’altro, in breve tempo, episodi riecheggianti la vita tra la due guerre con una serie di danze. Tali episodi sembrano riecheggiare la spumeggiante vita urbana della New York degli anni ’20, quella stessa atmosfera che avvertiamo in “Rhapsody in Blue” di George Gershwin: siamo catapultati in un mondo fatto di locali, alcolici, serate al piano (Ellington ad un certo punto si lancia in un folgorante pezzo in stride piano), Walzer, assoli di clarinetto, melodie citate per rievocazione per poi sentire riaffiorare, poco prima della fine, il tema spiritual di “Come Sunday” che ci riporta all’atmosfera chiesastica del primo movimento. Il terzo movimento è quello che ci offre più da vicino il modello ellingtoniano di accostamento di episodi singoli di breve lunghezza all’interno di un lavoro di grandi dimensioni, e che quindi sarà anche un feroce punto di appoggio per le tesi della critica più pedante. La scrittura di “Black Brown and Beige” dovette essere conclusa intorno al 16 Gennaio 1943, quando la band iniziò le prove negli studi di Nola, a New York, tra la cinquantunesima e la cinquantaduesima. Il 22 l’opera venne suonata alla Rye High School a Rye, New York, occasione in cui venne anche tagliato il finale per voce di Jimmy Britton, e dopo la serata alla Carnegie Hall l’opera venne risuonata nella sua interezza altre due volte in quell’anno: a Boston (28 Gennaio) e a Cleveland (20 Febbraio).

Sono state citate precedentemente alcune evidenze filologiche sull’autografo che dimostrano che la composizione dell’opera avvenne tra la metà di Dicembre 1942 e la metà di Gennaio 1943. Vediamo di vederne qualcun’altra relativa di più alla parte musicale. Su una pagina di “Black”, quella che inizia alla battuta 187, Ellington abbozza delle parti del solo di trombone di Nanton in “Work Song” e annota alcune delle canzoni popolari che vengono citate in “Brown”: “Dixie”, di Dann Emmett, “Old Folks at Home” e “Yankee Doodle”, di Stephen Foster,  Nella parte inferiore, su un’altra pagina Ellington scrive delle informazioni riguardo sia la forma che la strumentazione: “Pastel”, forse un titolo provvisorio per una delle tre sezioni, “Brown” che potrebbe riferirsi sia al movimento che oggi conosciamo, sia al solo di Lawrence Brown; “5 sax clar”, (dove “clar” molto probabilmente sono i clarinetti); “7 brass cups” (con sordina muta); “4 sax” e “Ben”. Sulla pagina subito dopo sembra abbozzare un comunicato stampa per l’imminente concerto alla Carnegie Hall. Un’altra evidenza che fissa la composizione al 1942 è la parte scritta per la tromba di Harold “Shorty” Baker: questi si unì all’Orchestra solamente nel Settembre di quell’anno: è vero che Baker suonò già con l’orchestra di Ellington per pochi giorni nel 1938, ma all’epoca l’orchestra aveva solo 4 sassofoni, mentre nell’autografo di “Black brown and Beige” ve ne sono 5.

Qualche altra evidenza extramusicale: un giornalista visitò Ellington poco prima l’evento e disse che il compositore era stato sveglio tutta la notte per lavorare sul “mio nuovo lavoro abbastanza lungo” mentre i membri dell’orchestra al suo fianco copiavano velocemente le loro parti. E’ vero poi che ci sono dei prestiti da opere precedenti, ma essi rappresentano comunque pochi minuti del totale: i più sostanziali sono un assolo di piano di Ellington in “Beige” e quello di Ben Webster nella sezione “The Blues”, in “Brown”. Quest’ultimo solo di 16 battute viene direttamente da un pezzo del musical “Jump for Joy”, che è “Concerto for Klinkers”, mentre quello di Ellington, che evoca la vita notturna di Harlem negli anni ’20 è un pezzo per piano: si tratta di “Bitches’s Ball”, che egli compose durante i primi anni a Washington. Inizia lento, in un tempo moderato per poi raddoppiare il tempo in un stride piano bruciante di elevata virtuosità. Un’altra citazione potrebbe essere quella frase melodica discendente di cui si è già parlato dello spiritual “Come Sunday”, assimilabile a quella di “Hymn of Sorrow” in “Symphony in Black”.

Quando i bianchi sono neri e i neri sono bianchi. Questione di colori(smo)

A un critico che una volta gli scrisse dicendo che sarebbe stato meglio se con la sua musica da giungla forse tornato al più presto in Africa, rispose molto cortesemente che purtroppo questo non gli era possibile perché dopo tante generazioni il sangue del nero americano era tanto mescolato con quello dello scrivente che difficilmente lo avrebbero accettato in Africa. Ma se il mittente era d’accordo, poteva andare in Europa: “lì ci prendono.”.

Chiarito che il titolo dell’opera oggetto del nostro articolo rappresenta una metafora della progressiva integrazione del nero nella società americana, resta da chiedersi: perchè “Nero, Marrone e Beige”? Perchè l’immagine di un progressivo sbiancamento della pelle dovrebbe essere associata ad un’opera che si propone di rappresentare con orgoglio gli ideali della cultura nera, e per di più da parte di un autore che delle proprie origini e della propria musica voleva farne un vanto di fronte al mondo?

Rispondere a questi interrogativi equivale a introdurre nella musicologia il concetto di Colorismo, che in tempi non troppo antichi è entrato a far parte degli studi sulle musiche africano-americane in lingua anglosassone e che da pochissimo è stato introdotto in Italia grazie agli studi di Stefano Zenni, il quale ne parla con estrema chiarezza a partire dalla sue origini storiche nel volume “Che razza di musica”. Parlare di Colorismo vuol dire prima di tutto affrontare di petto la complessa storia socio-antropologica degli Stati Uniti e non lasciarsi intrappolare dentro quei rigidi luoghi comuni troppo spesso pronunciati da musicisti e appassionati; luoghi comuni basati principalmente sulla convinzione che esisterebbe “musica bianca” e “musica nera”, ognuna dotata di un’evoluzione diversa e indipendente rispetto all’altra; un concetto, questo, che a sua volta dovrebbe presupporre l’esistenza di due grandi “ceppi” biologici individuabili in uomini dalla pelle chiara e uomini dalla pelle scura.

Che le caratteristiche biologiche non siano affatto portatrici di altrettante caratteristiche culturali, questo ormai è un dato assodato e scontato (anche se frasi come “i neri hanno il ritmo nel sangue” fanno ancora fatica a scomparire). Ma bisognerebbe chiarire che le parole “nero” e “bianco”, semanticamente riferite ad una caratteristica fenotipica quale è il colore della pelle, dal punto di vista del genotipo dicono tutto e niente. Fin dal XVII la storia degli Stati Uniti è stata caratterizzata da migrazioni e da unioni di individui provenienti da vari popoli e da varie culture, così che si arrivò ad una società costituita da tre grandi livelli di uomini e donne: bianchi, mulatti e neri. Il colonialismo aveva creato, a partire da queste gradazioni di colore della pelle, una distinzione sociale ben precisa con gravi conseguenze sul piano dei diritti e delle libertà personali: coloro che avevano la pelle più scura godevano di minori diritti e, nel caso dei neri, vivevano in una condizione di schiavitù (tra l’altro una gerarchia sociale basata sul colore della pelle, e le dinamiche di potere ad essa collegate sembrano essere una caratteristica delle società umane da sempre, almeno dagli uomini del neolitico). Per indicare le varie sfumature intermedie di colore di usavano altri termini, tra cui il più tipico era sicuramente quello di “creoli”: erano generalmente i figli avuti dai francesi e dagli spagnoli con le loro schiave.

I creoli si sentivano ed erano in effetti socialmente superiori ai neri, tanto che nella New Orleans del primo Ottocento oltre che vivere a Downtown, assieme ai bianchi (i neri vivevano Uptown), godevano anche di un’istruzione simile a quella di questi ultimi, compresa la musica (intrisa di grandi classici della tradizione europea) e discriminavano apertamente gli individui dalla pelle più scura della loro.

La situazione muta dopo il 1865, vale a dire dopo la Guerra Civile e la fine della Schiavitù: come potevano fare i vecchi schiavisti del Dixie a mantenere la loro posizione di egemonia e di controllo delle classi sociali inferiori, che ora potevano vantare una condizione di libertà? Un metodo efficace fu il Ku Klux Klan; un altro furono quelle famose “One drop rules”, le stesse leggi basate sul sistema “una goccia” che tre secoli prima Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia avevano usato in Spagna nella loro discriminazione contro ebrei e musulmani: se hai anche una sola goccia di sangue nero, allora sei nero.

Da una società a tre livelli, bianco, marrone e nero, si passò così ad una società a due livelli, bianchi e neri. E i creoli, pur rimanendo sempre attaccati alla propria identità e a continuare a vantarsi della loro cultura, vennero “retrocessi” nel loro status, finendo dalla parte dei cacciatori a quella della prede. Ecco che da una parte c’erano i bianchi, tra i quali alcuni erano più ricchi ed altri molto più poveri, e dall’altra i neri, in tutte le sfumature di pelle. Nel 1920, infatti, nel sistema di censimento degli Stati Uniti, erano presenti solo due categorie: bianco e nero.

Qual è il paradosso di un tale sistema di discriminazione? Il paradosso è che esistono neri che hanno la pelle più bianca dei bianchi, e bianchi che hanno nel proprio DNA una fetta anche considerevole di “sangue nero”. Uno dei mitici inventori del blues, il “nero” Charley Patton, aveva le lentiggini e i capelli rossi: del padre non si conosce l’identità, il nonno era probabilmente un proprietario bianco di schiavi, mentre la nonna era una nera di pelle chiara con discendenze dei nativi americani. Un background genetico di questo tipo dà lo scacco matto a molti luoghi comuni sulla musica nera. Il mondo del jazz è da sempre dominato dal colorismo. Ma la società “a due colori” post 1865 ha dato anche molti contributi decisivi alla nascita del jazz, poichè senza di essa “neri” e “creoli” non avrebbero mai creato quella straordinaria fusione artistica che è all’origine di successivi e diversificati sviluppi, senza contare che non tutti i creoli avevano atteggiamenti discriminatori: ad un creolo come Sidney Bechet interessava fare del jazz e basta, e di farlo con colleghi appassionati tanto quanto lui. Un caso particolare fu Charles Mingus, che aveva la madre di discendenza anglocinese e il padre figlio di uno schiavo nero e della nipote svedese del suo padrone, tanto che Mingus subì drammaticamente il rifiuto di varie comunità alle quali si accostò.

Il dramma di una società razzista tutta improntata sulle differenze esteriori di colore produsse tra gli anni ’30 e ’40 una serie di conseguenze nell’immaginario collettivo: avere la pelle più chiara equivaleva ad avere un ruolo sociale maggiore. Spesso all’interno della stessa comunità nera esistevano discriminazioni di questo tipo: dare del “negro” ai neri dalla pelle più scura era una costante che ritroviamo in molte testimonianze del mondo della musica. Per quanto riguarda il mondo dello spettacolo, poi, avere la pelle chiara era, soprattutto per le donne, un vantaggio. Le ballerine erano quasi sempre ragazze “Brown”; la “bella mulatta” divenne un topos frequente nel repertorio dei blues.

Ecco allora che “Black Brown and Beige” viene ad assumere una valenza puramente simbolica di emancipazione ben al di là del colore della pelle e delle categorie sociali, tant’è che nell’opera non si fa riferimento ai creoli ma solo ad una generica categoria di nero americano. D’altronde il gioco dei colori era anche molto frequente in Ellington, la cui poetica musicale, molto sinestetica legava spesso suoni e colori creando atmosfere cromaticamente cangianti. Inoltre Ellington fa uso di questi tre colori rifacendosi ad un preciso gioco di regole commerciali e di intrattenimento che in quegli anni, vuoi o non vuoi, erano comunque una realtà con cui dover fare i conti. Insomma, relativizzare fattori di questo tipo sempre in base ai tempi, è un dovere e una necessità. Siamo ben lontani da quel “Black is Beautiful” degli anni ’60 che vedeva tutto ciò che era nero come elemento di bellezza ed innalzava questo motto a emblema politico-sociale di fierezza. E’ da questo momento storico che tutto ciò che è nero viene riunito in un’unica categoria etnica e culturale non più facente riferimento a dati biologici. Si crea la comunità ideale dei neri come portatori di una cultura autonoma e differenziata, e si comincia ad esigere l’uso linguistico di espressioni come “africano americano” piuttosto che “afro”, e il concetto di “etnia” prende il posto del concetto di “razza”.

Anche il look non deve essere sottovalutato. Se a partire dagli anni ’60 la capigliatura afro era divenuta simbolo della bellezza dei valori e della cultura nera, e coloro che facevano uso di quei dannosi prodotti stiracapelli venivano guardati con disprezzo, non dobbiamo applicare lo stesso metro di giudizio agli anni ’20, quando stirarsi i capelli era la normalità per molti africano americani. Coloro che avevano preso l’abitudine in quell’epoca, inoltre non l’avevano mai abbandonata. E così troviamo un Duke Ellington, fiero della propria “afroamericanità”, che si stirerà i capelli fino alla morte nel 1974. Insomma dobbiamo sempre considerare che Ellington visse “nell’era della pelle chiara quale paradigma di bellezza “nera” “(Zenni).

Definire una grandezza

[blockquote cite=”Duke” type=”left”]I ricordi sono importanti per un musicista di jazz. Una volta ho scritto un pezzo di 64 battute su un semplice ricordo di infanzia: il passo di un uomo che se ne va, fischiando una canzone; lo sentii una sera, dalla strada, mentre stavo a letto con la finestra aperta.[/blockquote]

Ascoltare il jazz vuol dire principalmente ascoltare i musicisti che quella musica suonano. La pagina scritta assume un ruolo marginale nell’atto creativo, anche se esiste del jazz che rimane scritto dalla prima all’ultima nota senza presentare tracce di improvvisazione creativa, ma solo interpretativa. E’ il caso di Ellington e della sua jazz band, in cui ciò è vero in massimo grado già negli anni ‘30 e ’40, almeno in quella categoria di opere che, come “Black Brown and Beige”, tendono ad avere una struttura molto ampia: quelli che inizialmente sembrano assoli, in realtà partono almeno da un abbozzo buttato giù precedentemente su carta. Il jazz non è sempre tutto improvvisato, così come non tutta la musica che fa uso di improvvisazione è automaticamente jazz.

Il caso Ellington è molto particolare, poiché non solo si accentua con lui la figura del compositore nell’atto della creazione dell’opera jazz per grande formazione (anche se scaturita da un processo di condivisione collettiva): la situazione si complica per il fatto che la sua musica è irripetibile proprio perché suonata da e scritta per determinati musicisti che egli conosceva bene e che erano stati scelti dal lui per il loro stile. Il Maestro non sceglieva a caso i musicisti per la sua orchestra, ma dopo averli ascoltati li selezionava avendo già in mente il suono che avrebbe voluto ottenere, certo e fiducioso che con la loro maestria avrebbero reso irripetibile l’esecuzione. E così fu.

Una volta Paul Whiteman entrò nel Cotton Club con il suo celebre arrangiatore Ferde Grofè nella speranza di poter assorbire qualche trucchetto dall’orchestra di Ellington, ma dovette andarsene con la consapevolezza che quella musica rimaneva inimitabile; e inoltre, scomparsi quei solisti, Ellington ne cercava degli altri e plasmava di nuovo la sua musica su di loro. Ripetere l’esecuzione “ad personam” così come nell’originale ancora oggi è impossibile: bisogna affrontare l’opera già con la consapevolezza che ciò che ne verrà fuori, se i musicisti valgono, sarà un percorso differente. Dunque tanto vale non cercare di essere degli imitatori, anche perché al jazz gli sterili imitatori non sono mai serviti a granché. E’ interessantissimo notare che mentre altre orchestre potevano cambiare i loro elementi anche molte volte nel corso degli anni, Ellington per una trentina d’anni aveva i suoi fedelissimi e furono veramente pochi quelli ad essere rimpiazzati.

Rieccoci dunque nell’alveo del jazz, poiché anche se scritta, dunque, la musica ellingtoniana lo era sempre in funzione della sua irripetibilità, una costante fondamentale per il jazz, e non assumeva mai il valore di “opera definitiva”, come accade nell’estetica della musica europea degli ultimi tre secoli. Naturalmente si fa riferimento a quelle parti che sulla partitura vengono chiaramente indicate come “solo”, perché qualsiasi arrangiatore jazz da sempre sa bene, e mi si scusi l’ovvietà per chi è già avvezzo, che è necessario inserire per forza delle parti scritte obbligate per una jazz band quando ci sono più di una dozzina di elementi che suonano in contemporanea. Occorre armonizzarle, gestire timbri, amalgama sonora, condotta delle parti e molto altro ancora.

“Black, Brown and Beige” fu una grande novità nel mondo del jazz poiché costituiva una forma estesa, un’opera di ampie dimensioni della durata di 45 minuti circa che non si proponeva di cucire assieme parti singole senza alcun collegamento tematico, ma bensì di creare una suite coerentemente organizzata e dotata di una sua programmaticità. Qui veniamo al nodo cruciale. Cosa dobbiamo intendere per “coerenza” nel caso di un’opera di Duke Ellington? Il problema delle forme estese è stato spesso dibattuto dagli studiosi di Ellington e la critica si divide tra coloro che considerano limitata la sua tecnica compositiva per opere del genere di “Black Brown and Beige”, come Gunther Schuller, e che arrivano a volte a definirla come un capolavoro a metà, e coloro che invece lo ritengono un prezioso gioiello, nonché un punto di svolta nella carriera del maestro. Cosa che in effetti è.

I dubbiosi si rammaricano del fatto che Ellington, nonostante il controllo eccezionale dei musicisti (in ciò sapeva essere autoritario, anche perché spesso i membri peccavano di indisciplina), la genialità nell’uso dell’armonia, dell’orchesrazione e l’eccezionale inventiva tematica non ebbe forse mai lo stimolo, la possibilità o la voglia di affrontare tecnicamente il problema che si nasconde dietro la costruzione delle forme estese, ovvero lo sviluppo tematico. Secondo Schuller esso si acquisisce attraverso lo studio sistematico e l’analisi delle opere di altri autori precedenti o contemporanei, oltre che con una buona dose di talento, e secondo lui Ellington non intraprese mai questa strada, forse anche perché intimorito da una critica che, per mancanza di esperienza, fin dagli anni ‘40 era ancora troppo poco pronta ad affrontare un’opera jazz con pretese così innovative; essa era invece pronta a giudicare e ad etichettare secondo rigide categorie di genere, senza prestare grande attenzione alla qualità intrinseca dell’opera. Ricordiamoci poi l’anno. Siamo nel 1943, e non solo il jazz veniva percepito dai critici statunitensi e da gran parte del pubblico come una musica “d’intrattenimento”, ma tanta parte del pubblico si era anche abituato a serate in cui si suonavano uno dietro l’altro brani riducibili a categorie “di genere” ben precise.

Lo stesso Ellington, durante il suo periodo di laboratorio al Cotton Club aveva progettato il suo stile lavorando su cinque categorie di brani: ballabili, numeri in stile jungle e tableaux ispirati paternalisticamente alla storia del “nero americano”, pezzi blue (d’atmosfera), ballads, pezzi strumentali di vario tipo. Il pubblico li riconosceva, e vi si riconosceva. Tali stili sarebbero stati impossibili da mettere a punto senza i musicisti appropriati, e proprio per questa ragione sarebbe impossibile pensare ad uno stile ballad maturo senza il trombone di Lawrence Brown, lirico e creativo, che si andava ad aggiungere a Tommy Dorsey o a Jack Janney per formare il primo trio di tromboni stabili mai comparso in un’orchestra jazz (ognuno di loro tre aveva un suo suono personale e diverso dall’altro: tutti e tre assieme rendevano un’amalgama irripetibile che Duke seppe sfruttare appieno); oppure senza la fantastica tecnica growl e plunger di Joe “Tricky Sam” Nanton, ottenuta ispirandosi al trombettista Bubber Miley: un personale stile wa wa e parlante con uno sturalavabo di gomma e una sordina straight.

Dal 1932 inoltre Duke aveva ampliato l’orchestra a quattordici strumentisti più una cantante stabile, e aveva a disposizione ora una serie di timbri ed elementi selezionati a tal punto da poter disporre del “suo strumento” come se fosse un’orchestra sinfonica di novanta elementi. C’è poi da considerare un altro fattore decisivo riguardo la critica: a quel tempo la critica jazz, soprattutto negli Stati Uniti, era ancora in via di formazione (in Europa ve ne erano già alcuni autorevoli e maggiormente aperti) e quelli che c’erano ragionavano spesso secondo categorie tipiche della musica colta del vecchio continente: erano quindi maggiormente prevenuti. Per loro, quindi, che si recavano alla Carnegie Hall, tempio Newyorchese della musica eurocolta, e speravano di trovarsi di fronte alla solita sfilata di brani singoli, l’ascolto di un’opera che pretendeva di avere dimensioni sinfoniche quasi alla maniera straussiana non dovette essere un bel piacere.

Duke molto probabilmente non digerì il colpo, pur scrivendo il contrario. Se proprio di sinfonia doveva trattarsi, l’intellighenzia l’avrebbe apprezzata solo se avvicinabile a quei criteri ritenuti esteticamente e formalmente validi per definire un’opera d’arte come tale, e quindi secondo modalità ben note alla musicologia europea dell’epoca. La pecca di tutto ciò fu che nei decenni successivi Ellington non avrebbe più tentato una composizione di tale fattura, secondo le modalità di “Black Brown and Beige”, ovvero come una suite composta di pezzi di grandi dimensioni e con richiami tematici interni. Sempre secondo Schuller, la velocità e la rapidità con cui Ellington affrontava le sue composizioni per motivi lavorativi lo avrebbero abituato fin dagli esordi ad un ritmo frenetico di registrazioni-esibizioni che tuttavia il compositore stesso aveva assorbito, tanto da non sapere più cosa fosse il lavoro in casa, la solitudine e la tranquillità domestica per periodi di tempo prolungati. Tuttavia è vero anche che fino ad allora il problema delle forme estese nel jazz non si era ancora posto ed Ellington stesso ne fu un pioniere, un uomo che aprì la strada a sviluppi futuri del jazz e che lanciò testimoni ai successivi esperimenti di uomini come John Coltrane o Charles Mingus (essi affrontarono il problema dell’ampiezza formale in modi differenti); o allo stesso Wynton Marsalis, che negli anni ’90 comincerà a scrivere suite sul modello ellingtoniano.

Il 1943 fu l’unica occasione in cui Duke suonò la suite completa. Non la rifece mai uguale ed integrale con la sua orchestra. Noi oggi possediamo la registrazione su disco di vetro di quella celebre serata del 1943, evento eccezionale (e la studiamo principalmente attraverso varie trascrizioni orchestrali): se prendessimo infatti la versione ufficiale effettuata in studio per la Columbia Records nel 1958 noteremmo che innanzitutto, nonostante il titolo, le sezioni “Brown” e “Beige” sono scomparse, e al loro posto rimane una versione di “Black” notevolmente accorciata, per di più diversamente divisa e con modifiche interne. Ellington aveva l’abitudine di rimettere continuamente mano alle sue partiture, tagliando, smontando (anche singole battute), accorciando, invertendo l’ordine dei brani e spesso dividendo in segmenti le sue suite in modo tale da fornire dei titoli alternativi ai singoli brani e suonarli singolarmente in concerto o in studio (è il caso del celebre blues contenuto a metà suite, nella sezione Brown, che divenne “The Carnegie Blues”).

Le tesi dei critici più dubbiosi sostengono che i languori della critica di fronte alle sue esecuzioni non furono forse mai percepiti come una sfida, ma piuttosto come un ripiego su modi tradizionali di comporre, su una sicurezza che ormai aveva acquisito e che il pubblico gli riconosceva. Ma continuano ad essere sempre legati a quel formalismo che nel caso del jazz risulta inutilizzabile, perché non si può parlare per Ellington di tecniche come lo sviluppo tematico e la forma sonata. Schuller sembra sempre battere sul chiodo dello sviluppo, il che suona paradossale, sapendo egli che la musica jazz è essenzialmente fondata sull’elemento performativo. E difatti “Black Brown and Beige” ad oggi è ritenuto un capolavoro.

La genialità di Ellington risiede nella coscienza della sua specificità. Studiare ed ascoltare il jazz, nonostante i punti di incontro con la musica di derivazione Europea e non solo (punti che sono tanti fin dall’inizio e che non si mettono in discussione) rappresenta un’esperienza artistica che affonda le sue radici in un humus culturale differente (nonostante anche il jazz sia una musica colta): analizzare il jazz secondo un’estetica che non gli appartiene produce fraintendimenti. La questione dei rapporti con l’Europa, sull’identità del jazz e sulla sua estetica apre la strada ad una riflessione talmente ampia da non poter essere che banalizzata in questa sede. Berendt arriva a parlare di una sorta di “ingenuità” in positivo di Ellington, che di fronte ad un pubblico che si aspetta un certo modello continua ad affrontare la musica sempre secondo il suo punto di vista, ben consapevole della natura e della funzione della musica che egli rappresenta e dei suoi modi di comunicare. Aspettarsi dal jazz ciò che ci si aspetta da un Beethoven in modo tale da potergli garantire dignità artistica è un vecchio cruccio della critica primonovecentesca. Ma il maestro sapeva bene ciò che faceva e ciò che voleva.

Dalla sua biografia, come dice lo stesso Franco Fayenz, sappiamo che era troppo intelligente per poter noi credere alla sua ingenuità, e d’altronde non pochi gli urlarono contro nella sua carriera dicendogli di tornare nella giungla. Di fronte ad essi lui semplicemente rincarava la dose. Wynton Marsalis, titano del jazz contemporaneo, spiega la grandezza di Ellington proprio facendo riferimento alla consapevolezza di quest’ultimo di appartenere ad una cultura musicale che proprio attraverso il jazz aveva sviluppato fin dalle origini un suo modo di comunicare alla gente; lo aveva fatto inserendosi nei meccanismi dello spettacolo, ma senza lasciarsi mai piegare agli scopi esclusivamente commerciali di quest’ultimo, prima ancora che, con l’avvento del bebop, la consapevolezza dei musicisti della grandezza di questa musica rendesse il jazz una musica con statuti estetici enormemente rilevanti, abbandonando a poco a poco la grande massa. 

La capacità di comunicare alla gente non deve essere sottovalutata in un’epoca in cui la musica europea al contrario si allontanava sempre di più da essa creando un divario ancora oggi non colmato tra musicisti e pubblico. Ellington suscitò i languori della critica proprio per la sua volontà di non voler aderire completamente a quell’estetica in difesa della quale i critici rimanevano sempre sull’attenti. In poche parole il jazz, fino all’inizio degli anni ‘60, ha mostrato che la sua più grande rivoluzione forse risiedeva proprio nella sua grande indipendenza ed autenticità, nonostante l’equazione Jazz=Musica Nera sia superficiale e il discorso sia ampio. Si ricordi infatti una cosa: a quei tempi ad essere definito “il re del jazz” era Paul Witheman, che commissionò opere a vari musicisti (tra cui Ellington, che gli rende i dovuti omaggi artistici nella sua autobiografia, ma la sincerità delle sue affermazioni è sempre da valutare) allo stesso Gershwin.

La sua Rhapsody in Blue è un capolavoro, secondo molti un capolavoro di jazz orchestrale. Ebbene gli appassionati di jazz scuotono il naso: capolavoro certamente, ma non di jazz, poiché è vero che ne assorbe innumerevoli spunti (ritmici, timbrici, armonici, melodici) anche di grande portata, ma rimane legato alla grande tradizione sinfonica europea, in primis per quanto riguarda la costruzione formale. Ellington stesso forse apprezzava poco che l’appellativo di “re del jazz” venisse dato a Whiteman, ma era proprio quella critica a fornirglielo: quella critica legata al mondo musicale europeo che, nel momento in cui ascoltava del jazz “diluito”, suonato da una grande orchestra sinfonica, da un ebreo con ascendenze europee e con una preparazione musicale di stampo accademico non poteva non rimanere soddisfatta del giusto compromesso.

E la storia del jazz fino alla metà degli anni ‘40 è costellata da una serie di tentativi di mediazione da parte dei jazzisti per ottenere un riconoscimento artistico: l’ingresso nei meccanismi dello spettacolo costituisce esso stesso un tentativo di compiere una rivoluzione dall’interno sfruttando i mezzi del potere commerciale, e questo forse è ciò che ha fatto in modo che il jazz fosse un fenomeno straordinario.

Federico Pariselli

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