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La rinascita degli dei

di Redazione - 14 Aprile 2020

Pan e il risveglio del fauno

Sotto il sole cocente di una pianura ai piedi dell’Etna, il dio greco dell’istinto e della natura si lascia trasportare da sensuose immagini di sogno, riposando nel fiacco pomeriggio di un caldo estivo. La sua fantasia evoca figure mitiche di ninfe, che lo circondano nella danza, mentre intona nostalgiche melodie sull’antico flauto, che da lui prende il nome. Su questo scenario si apre l’egloga di Mallarmé L’après-midi d’un faune, scritta tra il 1865 e il 1876, in cui il Dio-capro ricorda in versi alessandrini l’inseguimento amoroso di due ninfe, le quali, anche nel sogno, riescono a sfuggire alla sua bramosia. Frustrato nel suo desiderio, non gli resta che far musica.

Il nome di questo dio è Pan: ha zampe irsute di fauno, al posto dei piedi degli zoccoli, sulla testa due corna caprine. I luoghi che abita sono selvaggi, incolti. Vagabondo nei boschi, tra grotte e caverne oscure, egli protegge greggi e armenti, rincorre ninfe tra i campi nella natura, lontano dai villaggi e dalle città. Pan non appartiene all’Olimpo: natura ibrida, egli è confinato giù sulla terra e regna su di essa. L’Inno omerico narra come Pan sia stato abbandonato appena nato da sua madre, una ninfa dei boschi, e portato sull’Olimpo, avvolto in una pelle di lepre, dal padre, il dio Ermes. Sotto la soffice pelle di lepre si nasconde il ruvido pelo del capro, eppure il suo volto mostruoso viene riconosciuto con gioia dagli dei del cielo ed egli è amato da tutti (πᾶν). Il luogo che pertiene è però l’Arcadia, così come, secondo l’analista americano J. Hillman nel suo Saggio su Pan (Adelphi, 1972), le “oscure caverne” dell’animo umano. Pan non solo è il dio della natura, custode dei pastori e dei cacciatori, ma è anche la personificazione della natura “dentro di noi”, della coazione istintuale, della masturbazione e della violenza sessuale. È un dio errante, fallico, caprigno. Anche i satiri, selvaggi spiriti semidivini dei boschi, il seguito danzante di Dioniso dedito all’ebbrezza e alla lascivia, sono espressioni mitologiche minori della medesima pulsione della natura umana.

L’effetto di Pan può essere quello di suscitare terrore, di scuotere l’animo con incubi, di indurre alla follia: due volte nella storia antica egli seminò lo sconforto tra la cerchia nemica procurando la vittoria ai Greci, nel 490 a. C. nella battaglia di Maratona e nel 277 a. C. contro i Celti. Dio delle pulsioni naturali e delle esperienze istintuali dell’uomo, nella concezione cristiana la figura del Dio-capro assume l’aspetto del diavolo (anch’egli cornuto e villoso). Pan è infatti inconciliabile con l’avvento di Cristo e del resto, egli è curiosamente anche l’unico dio di cui ci sia stata tramandata notizia della sua morte. Plutarco, nel suo De defectu oraculorum, lamentando il silenzio degli oracoli nella tarda antichità ormai pervasa dal cristianesimo, fa esclamare a Thamus: “Il grande dio Pan è morto!” Pan da allora, pulsione rimossa, torna nella nostra vita sotto forma di incubo e nevrosi.

Solo a partire dal secondo Ottocento il Dio-capro, nella sua essenza originaria, riaffiora nell’immaginario europeo, alimentato dalla nostalgia per la campagna incontaminata e per lontane origini pagane. Shelley nel 1821 scrive a un suo amico dall’Italia: “Sono lieto di sentire che non trascurate i riti della vera religione. La vostra lettera ha risvegliato la mia devozione sopita, e la sera stessa sono salito, da solo, sull’alta montagna dietro la mia casa e ho eretto un piccolo altare di zolle a Pan, vagabondo dei monti.” L’emergente avversione per l’industrialismo e per il cristianesimo del mondo moderno portò, tra il 1890 e il 1926, a un vero e proprio risveglio di Pan non solo nelle arti, ma anche, cosa alquanto significativa, nelle scienze: in filologia (W. H. Roscher) e in psicologia (C. G. Jung). La ripresa fu capillare: persino nel personaggio di Peter Pan vi è un richiamo al dio come simbolo di una natura pre-civilizzata. In poesia (P. Verlaine, W. Faulkner, E. B. Browning, A. Rimbaud, R. Frost) e in letteratura (R. L. Stevenson, A. Machen, D. H. Lawrence) la ripresa del fauno si accompagna a una predilezione per la forza più enigmatica del sentimento sovrarazionale, fonte di intuizioni quali vie d’accesso alla verità e alle parti più profonde dell’animo umano.

Il Prélude à l’après-midi d’un faune

In Francia, Debussy aveva incontrato Mallarmé nel 1890, quando il poeta stava lavorando a una nuova versione del suo poema adattata per il teatro. Quella che inizialmente intendeva essere una suite di musica d’accompagnamento alla lettura teatrale del testo (dal titolo originario Prélude, interludes et paraphrase finale pour “L’Après-midi d’un faune”), divenne nell’ottobre del 1893 un poema sinfonico a sé stante, in cui il dispiegarsi di suggestioni armonico-timbriche, a sostituzione di una forma costruita sull’elaborazione tematica, aprono la strada a una nuova concezione della musica e del suono. Tant’è che Pierre Boulez arrivò a dire: “Così come la poesia moderna ha certamente le sue radici in alcune delle poesie di Baudelaire, così si può dire che la musica moderna è stata risvegliata da L’Après-midi d’un faune.

Nell’immobilità soffocante della canicola pomeridiana, il flauto del fauno intona una cantilena tanto languida da suscitare, nella ripetizione e variazione ossessiva della melodia (che mai approda a un apice emotivo) una sensazione angosciosa e quasi pan-ica. La fluidità senza cesure del discorso musicale, che s’intreccia e si fonde nella linea sospesa del flauto per distendersi nel calore e nel respiro dell’orchestra, si conclude con gli squilli pastorali del corno a suggello di un passato mitico ormai lontano. La scenetta siciliana, evocata già nel poema di Mallarmé, si svolge après-midi, dopo il mezzogiorno, ed è proprio il mezzogiorno l’ora designata di Pan. È a mezzogiorno che tutto si ferma, quando il sole è al suo vertice e opprime la coscienza. Il meriggio di Debussy è però già inclinato verso il crepuscolo, la sua luce abbagliante e moribonda prelude ormai alla decadenza della sera. Tutto dorme: solo gli arabeschi del flauto s’insinuano nel silenzio immobile. Così scrive Jankélévitch (Debussy e il mistero, 1949): “Nel Prélude à l’Après-midi d’un faune il mistero ha trovato l’ora privilegiata della sua giornata; anzi, questo mistero del pomeriggio è proprio mistero del sole allo zenit, mistero dell’estate panica e del silenzio accecante: è l’ora immobile in cui la natura esita, oppressa dalla pesante presenza meridiana di tutte le cose.”

Al rapporto di Pan con la musica è intimamente connessa la sua relazione con le ninfe. Nella psicoanalisi junghiana l’archetipo di Pan sarà impensabile senza di esse. La pulsione che egli governa contiene in sé infatti due poli opposti e complementari: la sessualità (attrazione coatta di Pan per le ninfe) e il panico (repulsione per l’essere mostruoso, fuga delle ninfe). Con il cristianesimo, in quanto represse, le coazioni del corpo divengono richiami del diavolo, le ninfe non sono più portatrici di verità. Ma è proprio il rapporto con le ninfe, gli amori di Pan, a offrirci una possibilità di conciliazione con la natura istintiva che alberga in noi, nonché di riflessione su di essa, attraverso la sublimazione dell’istinto in arte. La trasformazione e la comprensione delle proprie pulsioni avvengono infatti attraverso il non-confronto con le ninfe. Nel mito, Pan è perennemente inappagato, nessuna delle sue amate gli si concede. La ninfa Eco, priva di corpo, divenuta pura voce a causa della sua passione per Narciso, non può quietare l’ardore di Pan. Essa non è che suo riflesso, un’eco che ritorna su se stessa. Anche Selene, dea della luna, riflesso notturno del sole, risplende candida e inaccessibile nel cielo. Un terzo amore di Pan è la ninfa Eufeme, nutrice delle Muse, che presiede dal monte Elicona alla trasformazione della natura in arte (attraverso l’eufemismo, la “buona parola” delle cose).

Ecco che la sensibilità di Debussy per la triade Pan-ninfe-musica e per il mondo pagano si palesa anche in opere successive e non si limita certamente al Prélude. Nel 1898 Debussy musicò per voce femminile e pianoforte Trois Chansons de Bilitis, tre canzoni tratte dalla raccolta pseudo-arcaica (attribuita a una poetessa greca Bilitis del VI sec. a. C.) del poeta francese P. Louÿs. La prima, significativamente, si intitola Le flûte de Pan, il flauto di Pan, in cui si immagina una lezione di musica, incontro amoroso fra due giovani amanti, in cui è proprio l’antico strumento a fare da galeotto. Nella terza canzoneLe Tombeau des Naïades, la tomba delle Naiadi, Debussy lamenta invece, attraverso il dialogo poetico dei due amanti, la morte di ninfe e satiri. Negli anni successivi, sia nel Le Faune dalle Fêtes Galantes, pubblicato nel 1905 e composto sull’omonima poesia di Verlaine, che nella prima delle Six épigraphes antiques del 1915 (Pour invoquer Pan, dieu du vent d’été, Per invocare Pan, dio del vento estivo), vi è nuovamente un richiamo al potere trasformativo del flauto, che si libra con i suoi fantasiosi volteggi nell’immobilità ritmico-ossessiva dell’incanto meridiano. Ma è forse Syrinx (1913), per flauto solo, il brano che più ci seduce: i magnetici arabeschi della linea melodica, la sensualità dei cromatismi e un andamento languido e fuori dal tempo illustrano uno dei miti più antichi concernenti la nascita della musica. Siringa è infatti il nome della ninfa che, per sfuggire nei boschi alla smania di Pan, vago di lei, fu trasfigurata dalle Naiadi in un canneto. Soffiando tra le sue canne, il dio ne ricaverà il suo flauto (Σύριγξ-canna). Così narra Ovidio nelle Metamorfosi (701-712): “come la ninfa, sorda alle preghiere, fuggisse per le forre finché non giunse al placido, sabbioso fiume Ladone; e come qui, impedendole il fiume di proseguire la corsa, pregasse le acquatiche sorelle di trasformarla; e come Pan, quando credeva ormai di averla presa, stringesse al posto del corpo di Siringa, un ciuffo di canne palustri, e si mettesse a sospirare: e allora l’aria vibrando dentro le canne produsse un suono delicato, simile a un lamento, e il dio incantato dalla dolcezza di quella musica mai prima udita disse: “Ecco come continuerò a stare in tua compagnia!”, e saldate tra loro con cera alcune cannucce di diseguale lunghezza, mantenne allo strumento il nome della fanciulla: Siringa.”

Così anche Siringa, ninfa divenuta strumento musicale inanimato, rappresenta il ripiegamento del desiderio nell’auto-coscienza, che, manifestandosi nel suono attraverso le melodie del flauto, rivela e inibisce l’impulso coatto. Soffiando nelle canne di Siringa, il dio trasforma la sua frustrazione sessuale in musica.

L’introspezione, resa necessaria dalla mancata unione con l’oggetto del proprio desiderio, è dunque una componente essenziale per comprendere la natura di Pan, e in fondo la musica stessa. Del resto, la musica cos’altro è se non istinto che riflette (su) se stesso?

Ester De Stefano

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