Beethoven e la “tastiera”. Come iniziò la storia
di saverio simonelli - 9 Febbraio 2016
Tappe di una storia d’amore.
Come si legge in qualsiasi manuale di storia della musica, il fortepiano prima e il pianoforte poi furono gli strumenti che accompagnarono tutta la carriera di Beethoven riassumendo per il musicista le funzioni di diario intimo e di macchina dei suoni dalla quale estrarre il maggior numero di soluzioni innovative e drammatiche, uno strumento in grado di riprodurre in forma astratta quel campo di forze, di tensioni fisiche e di sentimenti nel quale Beethoven alimentava la propria dimensione creativa.
Il pianoforte del resto si imponeva proprio in quegli anni all’attenzione dei musicisti seppur attraverso un’evoluzione sofferta e macchinosa che lo avrebbe affrancato dal clavicembalo per farlo divenire quella palestra di suono incomparabile capace di riprodurre in se tutta la dinamicità e i colori di un’orchestra. E se questo si è verificato nel tempo una gran parte di merito è proprio da ascrivere al genio visionario di Beethoven che per tutta al vita pungolò i costruttori con richieste precise e pressanti, provando e riprovando esemplari diversi – spesso ricevuti in dono da ditte di mezza Europa – e contribuendo di fatto a mutarne caratteristiche ed estensione.
Il compositore Friedrich Reichardt ricorda in un resoconto di viaggio che alcuni miglioramenti tecnici apportati al pianoforte dal costruttore Andreas Steicher vennero portati a termine su “parere e richiesta di Beethoven” così da ottenere “più resistenza ed elasticità” abbandonando le “meccaniche delicate e cedevoli dei vecchi strumenti, superando quell’“effetto di arpa” che Beethoven stesso lamentava esplicitamente scrivendo al medesimo costruttore qualche anno prima.
Al compositore occorreva invece uno strumento in grado di produrre contrasti forti, meccaniche che alimentassero non solo brillantezza e virtuosismo ma traducessero anzitutto quel senso di costruttività materiale e corposa che è tratto suo tipico, che evidenziassero nitidamente i rapporti armonici, creando quell’effetto di totalità che tendendo verso l’astrattezza portava però con sé in quel viaggio trascendentale, scolpita come un torso michelangiolesco, la pulsazione della natura umana. Il pianoforte così non era più tavolozza ma materia plastica, all”apparenza stabile e fissata una volta per tutte nei tasti eppure costruita per vibrare, per accogliere quel mondo di passioni, “l’idea poetica”, come ricorda il musicologo Dalhaus, di sublimare traducendole in suoni le vicende umane non più sentite come affetti ma come materia reale da far concentrare, collidere, battagliare, trionfare su tempo e spazio per presentarsi come scrisse in un suo testo del 1920 – in occasione del 150° della nascita di Beethoven – il grande poeta austriaco Hugo von Hoffmanstahl, “al cospetto di Dio come Mosè, presentando al creatore il frutto della creatura, quello di un uomo solo ma in rappresentanza di tutti gli altri”.
Sono trentadue le sonate composte da Beethoven per il pianoforte e i suoi antenati in un arco di tempo che va dal 1795 al 1822; attraversano dunque tutte e tre le fasi della sua creatività e sono spesso indicative di soluzioni che caratterizzeranno analogamente anche le sinfonie e i concerti per strumento solista e orchestra.
E però a differenza degli altri ambiti compositivi si può trovare in queste sonate un preciso spartiacque che cade nel 1803 e separa le prime venti opere dalle successive dodici e corrisponde perfettamente all’anno in cui Steicher costruì pianoforti di sei ottave che diverranno poi sei e mezzo al posto delle tradizionali cinque, allargando così la gamma di possibilità così come con le nuove meccaniche la potenza sonora: è precisamente da quell’anno che anche la scrittura beethoveniana si amplia andando a sfruttare maggiormente i registri più acuti e gravi dello strumento.
La prima sonata che inaugura questa nuova stagione è la numero 21 op. 53, universalmente nota come sonata Waldstein, dal nome del primo protettore di Beethoven, colui che si racconta benedicesse a parole il giovane compositore dicendo di affidargli “lo spirito di Mozart attraverso le mani di Haydn”, fondando così di fatto la grande triade del classicismo viennese.
E’ proprio con la Waldstein che il linguaggio dell’artista si concentra e alimenta quelle tensioni dinamiche proprie del Beethoven sinfonico sfruttando tutti gli effetti delle nuove meccaniche pianistiche. La sonata contempla solo due movimenti, il secondo dei quali è preceduto da una breve introduzione lenta per poi sfociare nel rondò. Si dice che l”andante composto in precedenza da Beethoven venne espunto su consiglio di alcuni amici per poi essere pubblicato nel 1806 come opera a se stante diventando così il noto “Andante favorì” (WoO 57). Subito in apertura l’opera mostra soluzioni e modulazioni ardite così come già dalle prime battute si afferma un tipico contrasto beethoveniano tra una serie di accordi in pianissimo ma dalla grande potenzialità ritmica e una melodia concisa, dinamicissima, più ritmica che melodica ma in possesso di una sorta di guizzo che la fa librare spavalda sullo sfondo armonico. In sostanza il Beethoven maturo e costruttore titanico si annuncia subito anche in questa nuova stagione del pianoforte, strumento che diverrà suo e al quale donerà per sempre la sua impronta.