Diego Ceretta e la nuova generazione della Direzione d'Orchestra

Diego Ceretta, ventisei anni, è il nuovo direttore della ORT. La notizia della sua nomina ha avuto una risonanza piuttosto ampia, riuscendo ad uscire dai confini del mondo della musica colta, anche grazie al dato anagrafico. Abituati come siamo ad un’Italia sempre più avanti negli anni. Il tema del divario generazionale è una delle grandi questioni irrisolte del nostro paese del resto, e il mondo della musica non fa eccezione. Eppure ascrivere la faccenda ad un mero dato di questo tipo è molto riduttivo sia della scelta della ORT che delle possibilità artistiche che il nuovo direttore può portare con sé. Proprio per approfondire tutti gli aspetti che la novità della ORT significa per il mondo musicale fiorentino e non solo, abbiamo raggiunto il diretto interessato. Per parlare di tutto, in una conversazione in cui i suoi 26 anni sono un mero punto di partenza.

Come ci si sente a fare il salto di qualità a quest’età?

Eh, bella domanda: sicuramente faccio ancora fatica a realizzare, l’emozione è grande e mi spiazza un po’. Diciamo che questo è uno dei traguardi che chiunque si metta a studiare direzione d’orchestra in conservatorio sogna. Però quando lo sogni la domanda che rimane di fondo è “chissà se arriverà”… il fatto che sia successo da l’idea di essere, quantomeno, sul binario giusto.

Nell’evidenziare questa notizia è stata calcata molto la mano sulla tua giovane età, sui tuoi 26 anni. Come la vivi questa cosa? Pensi che sia, in qualche misura, una responsabilità troppo grande?

Mah, allora, non ti nascondo che un po’ di timore c’è, c’era già quando si è iniziato a parlarne prima ancora che diventasse ufficiale. È un tipo di argomento che in conservatorio non si affronta, per il quale non siamo preparati dai nostri luoghi di formazione: è parte di una serie di esperienze alle quali non puoi accedere se non sul campo, non vieni neppure instradato. Eppure sarebbe bene che quando ci si prepara si inizi a riflettere su cosa questo significa. Uno studente di conservatorio non avrà mai le risposte ai problemi che incontrerà in seguito, ma quanto meno può gettare dei semi. La responsabilità è grande? Si, ma non per questo mi spaventa troppo.

Quel che manca nella formazione in Conservatorio, mi sembra di capire, non è tanto la parte direttoriale quanto quella di gestione dell’Orchestra e di programmazione. Certo, tu hai dei precedenti con la ORT come direttore, un rapporto già consolidato, ma per il resto?

Tutto l’apparato “accessorio”, che poi accessorio non lo è affatto, mi manca. Come si lavora ad una stagione, come ci si costruisce un repertorio, ma anche come ci si relaziona con i corpi organizzativi dell’orchestra. Sono tutte cose a cui il conservatorio non può dare risposte in anticipo, perché ciascun caso fa storia a sé, ma quanto meno dovrebbe iniziare a porre il problema. E noi, di contro, dobbiamo iniziare a comportarci da giovani professionisti ed essere preparati in questo modo perché è quello che ci si aspetta da me, da noi. Mi trovo già a rapportarmi con gente che ha magari trent’anni di esperienza nel mondo dell’organizzazione musicale, e per fortuna ho chi mi può indirizzare e consigliare, ma non sempre basta.

Anziché fare centinaia di corsi, magari meno utili, potremmo iniziare a capire anche questo lato del mestiere. Il conservatorio è equiparato ad un’università, d’accordo, ma è a tutti gli effetti un luogo di formazione professionale. E questa va anche oltre il lato artistico.

Parli spesso di conservatorio, ma il tuo curriculum va ben oltre. C’è un motivo per cui ci insisti così tanto?

Per me il Conservatorio corrisponde un po’ al modello della bottega: come un tempo la bottega formava apprendisti che poi fossero pronti per un mestiere, anche il conservatorio dovrebbe fare altrettanto con i musicisti. E se questo mestiere richiede che sia necessario imparare cose che esulano dal lato puramente artistico, è lì che si dovrebbe colmare la lacuna. La cosa buona del conservatorio è che si va molto ad alti e bassi, e questo ci abitua anche agli eventuali fallimenti a cui andremo incontro nella nostra carriera. E meno male che ci sono gli errori e le stroncature anche negli anni della formazione, altrimenti alla prima critica negativa rischieremmo di avere direttori in crisi depressiva.

Torniamo alla tua esperienza specifica, e a quello che ti aspetta in termini di programmazione e scelta del repertorio, se è vero che oggi si cerca, o quantomeno si avverte una necessità di diversificare maggiormente i programmi e di proporre offerte diverse, come ti poni di fronte a queste tematiche?

Dipende: non si può fare un discorso unico per tutti, chiaramente. Quello di cui ho bisogno io, oggi, richiede determinati binari su cui viaggiare, anche scelte con cui ci si sia già confrontati in passato. Con la crescita man mano si arriva ad espandere maggiormente la propria rosa di scelte. Quello che voglio dire è che un ragazzo giovane che inizia a strutturarsi nel mondo della musica ha bisogno di confrontarsi con un certo tipo di repertorio, è la base da cui si parte. Io devo confrontarmi con Haydn, Mozart e Beethoven, per esempio, perché tutto parte da lì.

Indiscutibile.

Esatto: se io partissi invece con scelte troppo audaci rischierei di non crescere. Bisogna saper osare, provare cose meno conosciute, ma con i dosaggi adatti. C’è anche il rischio opposto: se non ci si prepara ad affrontare un certo repertorio, si rischia di creare anche il sospetto che non si abbia il coraggio di confrontarsi con un determinato tipo di musica.

E questo vale per il repertorio: per quel che riguarda invece la possibilità di collaborare con dei solisti, pensi di voler continuare a confrontarti con musicisti che vengono dalla nostra generazione?

Direi che trovare una via di mezzo, e in questa scelta rientra anche la missione specifica dell’Orchestra in cui si lavora. Nel caso della ORT, che è una ICO a vocazione locale di tutta la regione Toscana, è necessario scegliere di valorizzare i giovani talenti che siano anche frutto del territorio di riferimento. Io stesso, in qualche misura, ne sono un esempio, e prima di me lo era stato il Maestro Rustioni. Dall’altra parte per me è fondamentale dialogare con artisti più maturi, per poter imparare dalla loro esperienza e assorbire qualcosa in più.

Le varie generazioni hanno diverse sensibilità, diverse capacità di filtro anche dello stesso messaggio tratto dallo stesso brano.

Quindi è una questione di filtro…

Certo: in qualità di interprete io comunque svolgo una funzione analoga. È una cosa interessante che oggi vediamo magari negli artisti più maturi: rimanendo fedeli al testo del compositore la loro sensibilità filtra i tempi di una composizione diversa rispetto a quando magari avevano vent’anni di meno. E questo non significa che il loro fisico non sia in grado di sostenere una determinata velocità, una richiesta tecnica. È una percezione diversa del dato tecnico dovuto anche al modo diverso di vivere il tempo, anche al di fuori dell’aspetto musicale.

Visto che parliamo di filtri, uno dei filtri o medium per eccellenza è quello tecnologico che cambia la destinazione di un brano. Come pensi, da interprete, che la destinazione ad un ascolto in streaming, ad esempio, possa cambiare rispetto a un concerto dal vivo o ad un’incisione discografica?

Io parto sempre dall’idea che l’esecuzione dal vivo, tolto il filtro dell’interprete, sia l’unico tipo di esecuzione senza filtro. Quello che fa il digitale, per quanto siamo profondamente abituati, è aggiungere un livello ulteriore di cui non ci rendiamo neppure conto. Noi musicisti sappiamo che una registrazione che ascoltiamo in cuffia è smorzata e non è reale. Ci aiuta a dare un suono a quel che vogliamo ascoltare.

Ma per chi non è musicista, la riproduzione musicale castra completamente la reazione fisica che il corpo ha di fronte alle emissioni del suono dal vivo. La riproduzione digitale da’ un’approssimazione.

Però ci sono casi, magari limite, di direttori che cercano invece un livello specifico di ascolto pensato espressamente per il digitale. Penso a Currentzis e ai suoi esperimenti sulla stereofonia, per esempio…

Forse: ma se ascolti il Dies Irae del Requiem di Verdi di Currentzis registrato non subirai mai lo choc che ti danno le grancasse battute in quel modo come in sala da concerto, sulla pelle. Lo stomaco, le viscere dell’ascoltatore risuonano. Questa è un’esperienza che puoi fare solo dal vivo. Benissimo ascoltare la musica in digitale, dà voce a quel motivo che ci rimbomba in testa spesso. Ma se io ho voglia di sentire qualcosa come i Carmina Burana non avrò mai la stessa potenza e la stessa emozione che provo dal vivo, e non solo per il casino che genera. C’è tutta l’esperienza fisica del suono che ti prende, ti stritola, ti abbraccia e ti comprime e che non puoi vivere su una piattaforma. Mi rendo conto di essere contro la tendenza che oggi va per la maggiore, ma se ci lasciamo troppo abituare al solo digitale perdiamo la componente fisica del suono e a quello che questa comporta in noi. La musica non è solo una successione di emozioni ma diventa un’esperienza fisica e che è irripetibile, appartiene a quel momento specifico. Ed è questo che aiuta ancora il nostro successo, la natura fisica e che crea quasi assuefazione, che porta il nostro corpo a volerne ancora, a tornare a teatro a rivivere quell’esperienza nella sua totalità. Ricordo un episodio per me fondamentale, con una Nona di Mahler diretta dal Maestro Gatti a Torino nel 2019 che poi ebbi a riascoltare anche in streaming. Stessa interpretazione, ma esperienza diversissima.

Come pensi di poter mettere in pratica questi principi nel tuo triennio alla ORT?

Il mio obiettivo, proprio per questo, è creare una connessione con il pubblico. Vorrei che le persone che vengono a teatro si sentissero a casa: un po’ come andare al cinema, ci si siede su una poltrona con i propri amici e ci si sente a proprio agio. Per questo non occorre necessariamente capire tutto o approfondire chissà quali analisi. E poi magari vorrei arrivare anche ad incontrare le persone, per portare la loro attenzione, anche a parole, sulla fisicità del suono. Renderli consapevoli, passo dopo passo. Come prepari un tuo amico ad un concerto? Gli aneddoti funzionano, ma fino a un certo punto, la lezione ancora meno, e spesso alcune di queste informazioni entrano ed escono. Se devo raccontare qualcosa, voglio che sia un qualcosa che sia una guida durante l’ascolto, in modo diverso. Capire la fisicità e la potenza di rapimento della musica: questo è il mio obiettivo, di fondo. E ribadire l’importanza che questa esperienza sia fatta sulla pelle.

 

 

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