La dama col violino: un ritratto di Sonig Tchakerian

Abbiamo avuto il piacere di passare un pomeriggio in compagnia della violinista italo-armena Sonig Tchakerian. Ecco la nostra intervista.

Un violino dall’anima armena, intrisa di un sapiente mix di profumi d’oriente e occidente. Sonig Tchakerian, violinista sublime, coinvolgente, rigorosa e allo stesso tempo grintosa, sa indossare tutti i tipi di vesti musicali: come solista vanta una carriera a livello internazionale, esibendosi in festival e templi tra i più prestigiosi della musica colta. Come camerista sfoggia collaborazioni con musicisti di grande spessore, come il Trio Italiano, di cui per anni è stata uno dei pilastri, mettendo, anche a livello discografico, dei punti saldi nel vasto repertorio. Devota didatta, crede fermamente nel restituire ciò che si è ricevuto, infine, ma non meno importante, vanta la direzione artistica di uno dei festival tra i più stimolanti del panorama italiano a livello di qualità e pungoli culturali, proponendo esperienze intense e audaci con musica classica, elettronica, danza, jazz, prosa, poesia, e presentando sovente prime esecuzioni. Molti sono i compositori che si sono dedicati al suo talento: Giovanni Sollima, Luis Bacalov, Carlo Boccadoro, e molti altri.

Come tutte le nobili anime, preferisce parlare di sé attraverso la musica anziché con le parole. Suona un meraviglioso Gennaro Gagliano, costruito a Napoli nel 1760, e attraverso le sue corde sa raccontare culture, popoli e sentimenti, anche quelli perduti, con grande nobiltà ed intimità. Madrelingua armena, parla un italiano invidiabile, e con molta soddisfazione ci racconta di considerarsi per metà armena e per metà italiana.

Quinte parallele ha avuto l’onore di condividere un pomeriggio con lei.

Sonig Tchakerian

Maestro, partiamo dal principio, chi ha lasciato la prima impronta musicale nel suo percorso artistico?

Sicuramente mio padre. La mia casa d’infanzia traboccava musica, in realtà quella di suonare non è stata una mia scelta consapevole, ma una naturale evoluzione, seguendo le orme di mio padre che suonava sempre in casa. Lui era un medico di professione, e un amatore del violino. È stato il mio primo maestro e un grande riferimento. Da sempre appassionato di musica, frequentava una scuola internazionale ad Aleppo, e fra i vari corsi studiava anche il violino, ma non come siamo soliti pensare ai nostri giorni. Insieme ad altri suoi amici, seguiva un corso per corrispondenza: in maniera cadenzata arrivava un plico dall’America, con spiegazioni e illustrazioni, sulla tecnica violinistica e sul repertorio.

Incredibile, soprattutto se pensiamo che ai nostri giorni, nonostante le comodità, la scelta forzata ma inevitabile delle lezioni a distanza, ha creato discontinuità e fratture, mentre invece, in un momento storico con difficoltà diverse, delle lettere senza alcun riferimento diretto abbiano fatto la differenza.

Si, assolutamente. Nel loro caso, credo che la naturale predisposizione orientale per la musica, la passione e la curiosità siano state determinanti. Erano un gruppo talmente appassionato di amici, che ogni giorno si ritrovavano per studiare insieme al mattino presto, prima delle lezioni al liceo. Erano più che bravi e davvero appassionati di cultura musicale. In tre o forse quattro anni, grazie a queste lezioni per corrispondenza, quindi non lezioni vere e proprie con un maestro, ma appena qualche indicazione, hanno imparato la tecnica violinistica e una fetta enorme di repertorio. Mio padre poi, una volta trasferitici qui in Italia nel ‘51, nonostante di professione facesse tutt’altro, rimase sempre un grande amatore della musica. Così, con il suo perpetuo suono nella casa, probabilmente per imitazione, ho iniziato a suonare il violino sin da piccolissima.

Dunque, non una scelta, ma una destinazione. Come si immette l’eredità armena nelle sue scelte musicali e nella sua italianità oggi?

Non penso che in processi come questi ci sia una scelta razionale e consapevole, soprattutto inizialmente. Credo che alla base sia un bagaglio che si ha insito nel DNA, proprio come geneticamente ereditiamo alcune paure ed emozioni. Probabilmente negli anni, diventa una consapevolezza, che nel mio caso si concretizza in una ricerca ed esplorazione delle radici. La mediorientalità ha sempre fatto parte della mia vita, inconsciamente in alcune semplici predilezioni di gusto, e consciamente in alcune scelte, non solo musicali, ma anche nella vita quotidiana. Ad esempio, a livello musicale, da sempre ho prediletto un suono più nostalgico e malinconico, legato sicuramente ai canti tipici della cultura armena.

Io mi ritengo esattamente metà italiana e metà armena, dato che mio padre era armeno e mia mamma italiana. Sono madrelingua armena, fino a sette anni sono cresciuta ad Aleppo, e successivamente mi sono trasferita qui in Italia. Dunque l’italianità la vivo quotidianamente, mentre invece l’armenità è quasi un ricordo, e per viverla la devo cercare con una volontà differente.

La ricerca delle radici, oggi lei la propone al suo pubblico anche attraverso le scelte da direttore artistico, come abbiamo visto nel programma delle Settimane Musicali all’Olimpico, accanto ad una instancabile esplorazione del nuovo. Per lei queste sono due realtà da fondere o da mantenere distanti?

Sono due elementi che coesistono. A me piace molto esplorare, anche se a volte la pigrizia prende il sopravento. Oggi, rispetto ad anni fa, abbiamo molte più conoscenze, e dobbiamo ogni giorno fare sempre più i conti con un’esigenza estetica di conoscere altri mondi. Questo secondo me è un aspetto molto positivo della contemporaneità e spero di navigare anche io in questa direzione.

Il Festival vanta una grande longevità, considerando che quest’anno avete festeggiato i suoi 31 anni. Lei ha proposto un programma di ampio respiro, e anche quest’anno ha avuto il coraggio di osare nuove vie, lasciando un posto privilegiato ad una sezione in particolare, quella degli amatori.

Si, finalmente sono riuscita a farlo, attraverso il Muvi., una sezione totalmente dedicata ad artisti amatori che si sono esibiti, la domenica precedente all’inizio del Festival, in palazzi e cortili storici della città.

Come ho detto, non sono figlia d’arte, ma di amatore. Ritengo che l’amatore sia un tassello fondamentale nel mondo dell’arte, civile ed etico. Spesso siamo soliti utilizzare la parola dilettante, che secondo me sminuisce molto ciò che si fa. L’amatore invece, come dice la parola stessa, ama profondamente ciò a cui si dedica. Oggi sento che si è persa molto l’amatorialità, soprattutto tra i giovani, proprio per questo continuerò in tale direzione il più possibile, perché ritengo che sia un valore sociale ed etico molto importante.

Il Festival quest’anno ha avuto un titolo Pasoliniano che ci invita a profonde riflessioni: “Prima il silenzio, poi il suono, o la parola”. Il silenzio nella nostra società è ormai decisamente rumoroso. Secondo lei l’involuzione del silenzio ha cambiato la percezione sonora dello stesso silenzio in musica?

In musica il silenzio è assolutamente parte integrante dell’opera, ha un grande valore intrinseco, va saputo interpretare e lo considero una parte molto soggettiva. Il silenzio è cambiato molto, viviamo in una società molto rumorosa, nella quale io ormai sono rassegnata. La percezione del suono di riflesso è molto cambiata, ed è totalmente differente rispetto a tempo fa, quando poteva essere più raccolto, intimo, meno fragoroso. Negli ultimi anni non a caso è cresciuta una differente esigenza del suono, radicalmente cambiata con lo sviluppo della musica nei secoli.

In musica rappresenta anche l’attesa, si carica di aspettative, tra un movimento e l’altro, o magari il silenzio prima dell’inizio del suono. Crea energie ed emozioni, in alcuni casi può essere drammatico o introspettivo. In sala, può fare la differenza, ed in alcuni casi diventa una grande responsabilità che può modificare addirittura la performance.

Ci può fare un bilancio del Festival di quest’anno?

Mi sono sicuramente divertita molto spero di aver coinvolto le persone su temi e riflessioni secondo me molto significative, a cui tengo molto, come lo spazio agli amatori, alla valorizzazione dei giovani talenti attraverso il Premio Brunelli, opportunità meravigliosa per giovani meritevoli. Abbiamo dedicato attenzione anche alla donna, attraverso la rappresentazione Il femminicidio nell’arte di Lucrezia Romana, invitando alla riflessione non solo al ruolo, ma al vissuto drammatico di una donna, come Lucrezia Romana, una figura tristemente attuale, attraverso la prima esecuzione in assoluto di Daniela Gutman, pianista compositrice italo americana.

Unica cosa che mi rammarica, nonostante si dedichino molte energie e spazio ai giovani, e ci siano molti giovani talenti ad esibirsi, non riusciamo ad avere come vorremmo una loro partecipazione attiva. Quando non sono protagonisti, fanno fatica ad esserci, nonostante ormai da anni, coinvolgiamo gli studenti delle scuole superiori della città di Vicenza. In passato hanno anche svolto delle bellissime interviste ai vincitori del premio Brunelli, o sono stati coinvolti con altri progetti, come le ricreazioni musicali… ma il difficile è capire quale sia l’azione più efficace per riportare il desiderio e infondere la passione per la musica colta, attirando un pubblico più eterogeneo possibile.

Quale è la sua idea di talento e di virtuosismo?

Il talento non si spiega, è una grande responsabilità. Nessun maestro te lo può insegnare, ma è un dono, e credo che ognuno di noi riceva un regalo differente in questo senso. Esistono tanti tipi di talenti, ognuno ha il suo. Nel mio caso, sono molto grata per il talento strumentale che mi sento di aver ricevuto. Inevitabilmente talento e virtuosismo in alcuni casi coincidono: un talentuoso è anche virtuoso.  Quando si è giovani si ama esibirlo, con gli anni e la coscienza intelligente della mente invece, diventa un mezzo grande e straordinario per condividere le espressioni artistiche. Il virtuosismo invece diventa una sorta di pensiero, non è solo maestria strumentale, ma è anche la capacità di saper fare un’arcata lunga con un suono ben tenuto.

Come si scalda con lo strumento prima di un’esibizione?

Dipende molto dal repertorio che devo affrontare. Credo che il riscaldamento più importante sia quello del pensiero, dunque la concentrazione e la direzione mentale. È un tipo di riscaldamento che si sviluppa solo dopo tanti anni di esperienza e con grande fiducia in sé.

Domanda di rito, progetti futuri?

Quest’anno per il Festival ho ricevuto la dedica di un brano dal mio compatriota Tigran Mansurian, per violino solo, intitolato Monodia. Ha un impianto armonico basato totalmente sul linguaggio modale, e richiama inevitabilmente misticismo sonoro e andamento spirituale profondamente armeni. Ritengo che questo sia già il mio progetto futuro, il fatto di averlo ricevuto e averlo potuto eseguire.

Ovviamente per il resto, il lavoro e la mente non si fermano mai in una prospettiva più visionaria possibile.

 

Articoli correlati