Una conversazione con Jay Schwartz

La nostra lunga intervista al compositore Jay Schwartz in occasione della prima esecuzione assoluta del suo "Credo".

Il 17 maggio alle ore 21 presso il Conservatorio Verdi di Torino, l’Orchestra Filarmonica di Torino presenta in collaborazione con MMPrize-Fondazione Merz la prima esecuzione assoluta, diretta dal compositore di “Credo-Music for orchestra VII” di Jay Schwartz.

 Qualche tempo fa abbiamo incontrato il compositore nel suo studio a Colonia e ci siamo intrattenuti a lungo con lui per esplorare le sue esperienze biografiche e il linguaggio delle sue musiche. Qui di seguito la lunga chiacchierata di Davide Umbrello con Jay Schwartz.


Buongiorno Jay Schwartz!

Buongiorno!

So che è appena rientrato in Europa dagli Stati Uniti, il suo luogo di origine, dove ogni tanto si reca per visitare la sua famiglia, ma è anche un luogo dai cui trae una forte ispirazione per scrivere la sua musica. Quando ha deciso di trasferirsi in Europa e perché?

Vivo in Germania da più di trent’anni ormai. Penso che la Germania sia il paradiso per chi fa il mio lavoro, probabilmente il posto migliore al mondo, quanto meno lo è adesso e spero rimanga tale. Quando sono arrivato ero un ragazzo completamente naïf. Sarebbe davvero semplice dire: “Sì, sono arrivato in Germania perché…” ma la verità è che non avevo nessuna idea di cosa stessi facendo. Seguivo semplicemente il mio istinto. Sapevo di non voler restare negli Stati Uniti e di voler fare qualcosa in Europa. Avevo studiato un po’ di tedesco all’università, così ho pensato fosse una buona idea partire per la Germania, anche se, una volta arrivato, ho realizzato che non conoscevo affatto il tedesco e che era difficilissimo. Poi, una volta presa la mano, l’ho davvero amato. Qui c’è moltissimo teatro, musica, opera, danza: è incredibile. E le persone vivono di questo, è il loro lavoro. In America anche adesso quando incontro i miei amici o altre persone, mi chiedono: “di cosa ti occupi?”. “Sono un compositore”, rispondo. “E quindi che lavoro fai?”, mi dicono.

Pensa che la considerazione che le persone hanno del suo lavoro cambierebbe se non si occupasse di musica da concerto?

Questa è una bella domanda. Anche se le cose sono fantastiche in Germania, sono qui da molto tempo e sono enormemente grato per il mio successo, tuttavia mi sento ancora un outsider tra le varie posizioni estetiche. Questa è una mia scelta. Bisogna inoltre considerare che vivere all’estero ti fa sempre sentire un outsider, e non sarebbe stato così se avessi deciso di restare in America. Se fossi rimasto in America sarei stato più incline a comporre seguendo, probabilmente, le consuetudini di quel contesto. Lì ci sono diverse scuole stilistiche: il minimalismo, quella colta/accademica come quella di Elliott Carter. Magari sarei stato più incline ad inserirmi in una di queste scuole, perché, come persona, non avrei fatto l’esperienza di essere un outsider. L’esperienza di vivere all’estero, in un altro continente con una cultura differente — per non parlare della musica — è come…non voglio dire crisi, ma una sorta di metamorfosi, in cui ti chiedi chi sei, dove sei e gradualmente questo finisce nella musica che scrivi. Le riflessioni su chi sei e il ruolo che hai in quel contesto come artista quando sei all’estero sono molto più intense e questo è estremamente importante per un artista. Ogni artista dovrebbe farne esperienza. Questo mi ha dato libertà. Non sono mai stato nella posizione di fare il percorso che molte persone fanno cioè di essere in un paese dove studiare per poi diventare un professionista, studiando con le persone giuste e facendo i giusti passi per la giusta carriera. Per me non è mai stato così e forse questo è il motivo per cui la mia musica suona diversamente. Non compongo come fanno i miei colleghi tedeschi o quei compositori che hanno studiato con professori tedeschi perché io non ho studiato qui, e quando studiavo in America non componevo, non sono diventato un professionista in America. La mia musica non rientra nel contesto musicale contemporaneo europeo perché c’è qualcosa di vagamente americano in essa, per esempio potresti sentirci qualcosa della scuola di James Tenney.

Alvin Lucier…

Esattamente. Io non sono rigoroso come loro, ma puoi sentire che le idee arrivano da lì e che in qualche modo io sia stato influenzato da loro. Stranamente questo è accaduto dopo essere arrivato in Europa. Non avevo idea di chi fossero quando vivevo in America. In quel periodo ascoltavo molta musica di Philip Glass e Steve Reich. Mi meraviglia molto che queste due scuole che sono molto connesse a quelle di Tenney/Lucier e i minimalisti non si siano mai affermate in Europa fino ad oggi, neanche da un punto di vista storico. Mi capita spesso di parlare con colleghi o studenti di composizione qui in Europa e scopro che non hanno mai sentito parlare di James Tenney o che non hanno idea di chi sia Alvin Lucier o non sanno cosa sia Einstein on the beach, probabilmente la più rivoluzionaria opera di teatro musicale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Oggi in Germania il teatro musicale usa ancora la stessa retorica del teatro di cento anni fa, basata sul sistema dodecafonico e su quel tipo di stile narrativo tipico di Alban Berg per raccontare una storia. Sono stato recentemente in teatro a Colonia per ascoltare un’opera e sono rimasto sconvolto, non perché la musica sia stata sconvolgente, ma perché incredibilmente old-fashioned.

Ha trovato subito la sua strada una volta arrivato in Germania?

No [ride], come ho detto la mia idea era naïf. Dopo il diploma in pianoforte sono arrivato in Germania in mobilità per fare un anno di musicologia a Tübingen e poi sarei dovuto rientrare in America per finire la laurea in musicologia. Ma una volta qui non avevo idea di come poter studiare musicologia, perché non conoscevo la lingua e quindi insieme al tedesco ho studiato anche la birra tedesca, il divertirmi con gli amici. Ho studiato la vita che si fa in Germania. Avevo bisogno di mantenermi, quindi ho trovato lavoro presso una fabbrica della Mercedes Benz, per 6 mesi, e così ho imparato la lingua. Ero completamente ignaro di dove stessi andando. Poi, tramite un ragazzo che lavorava in fabbrica con me, ho trovato un altro lavoro al Teatro dell’Opera di Stuttgart, nel seminterrato, davvero come Il Fantasma dell’Opera [sorride]. Mi occupavo di sistemare vecchi libri polverosi. Non si trattava neppure di musica, ma di schedari. Ho trascorso lì sei anni, ma la cosa buona è che avevo i biglietti gratis per accedere agli spettacoli, così mi ritrovavo ogni sera ad ascoltare di tutto: opera, musica sinfonica, balletto e teatro. In questo modo ho imparato tutto ascoltando e componendo per me stesso. Poi sono passato a lavorare come pianista per il teatro e anche qualcosa per il balletto. Ho scritto poi una musica per pianoforte e sassofono per un mio amico sassofonista ed è stato allora che ho scritto il primo glissando. Ero ancora dentro la musica di Philp Glass, ma in quel momento il mio amico sassofonista mi mostrò alcune cose che si potevano fare con il suo strumento e quando ascoltai un glissando avevo capito che quello era ciò che volevo fare. Nessun altro lo stava facendo e poi ho iniziato ad aggiungere questi piccoli glissando sul movimento in sedicesimi in stile Philp Glass e in quel momento ho realizzato che quello che sembra veloce, il movimento in sedicesimi, è in realtà lento perché i cambiamenti sono molto lenti. Poi ho realizzato che, se sottrai i sedicesimi, ciò che resta sono questi lenti cambiamenti ed è stato come un’epifania. Avevo capito come questi cambi lenti fossero ciò che, di quella musica, mi aveva catturato fino a quel momento. Successe, inoltre, che mentre la ascoltavo, ero in treno e in qualche modo associai il movimento di ciò che vedevo dal finestrino al movimento della musica; questa suggestione — oggi posso dirlo — è quello che mi ha ispirato l’idea di musica e movimento basata sull’effetto Doppler e su come questo influenzi la percezione musicale. Avevo capito che per l’effetto Doppler i glissandi suggeriscono il movimento al pari di una macchina che passa e che quindi avrei potuto comporre con questo materiale in modo da creare una spazializzazione che fosse basata sulla percezione dei suoni. La spazializzazione che si crea nella nostra testa funziona meglio di quella fatta con 24 casse perché crea l’illusione di suoni che si muovono. Questo e come agiscono i glissando e in questo modo producono la sensazione di spazio, di vastità e di espansione.

Jay Schwartz

I due pilastri della musica occidentale sono la retorica del parlato — dal canto gregoriano fino ai giorni nostri — e il sistema basato sulle altezze. In tutto ciò ho capito avrei dovuto abbandonarle entrambe e concentrarmi solo sui glissandi, in una sorta di iper-microtonalismo o, per meglio dire, una forma di microtonalismo dinamico, perché abbandona completamente anche il sistema microtonale. Ho deciso di abbandonarli entrambi. Chiaramente questa è un’analisi a posteriori rispetto il momento in cui realmente ho iniziato a lavorare con questo materiale o comunque successivo alla mia pratica che consiste nel suonare e comporre allo stesso modo, in maniera non differente da come faceva Bach — è chiaro che lui potesse comporre direttamente su carta, ma è risaputo che componesse mentre suonava la sua musica. Lo stesso Stravinsky trovava le sue armonie direttamente suonando il pianoforte, prima ancora che potesse teorizzarle. In tal modo è possibile assecondare la sensualità della musica ed è quello che faccio anche io, suonando i glissandi tutto il giorno con l’ausilio del computer e componendo mentre suono. Spesso, al giorno d’oggi, manca questo senso di sensualità nella produzione della musica contemporanea e per me, questa mancanza, è dovuta al fatto che i compositori non compongono mentre suonano.

La prevedibilità è una cosa positiva a mio avviso. La musica è basata sul ricordo nel tempo di ciò che accade musicalmente e bombardare l’ascoltatore con troppe cose distrugge la possibilità di ricordare cosa accade, quindi la prevedibilità nell’ascolto la utilizzo in maniera positiva, aiutando l’ascoltatore a conservare una cerca quantità di informazioni così da trasformasi in un viaggio in cui sappiamo da dove partiamo e possiamo guardare verso e attraverso l’orizzonte. Quello che faccio è costruire nel centro della prevedibilità un momento di eruzione catartica. Non dobbiamo dimenticare che prevedibilità è strettamente connessa a suspance, esattamente come accade in un film horror: guardandolo sappiamo che qualcosa sta per accadere, ce lo aspettiamo, eppure non spegniamo la tv, ma continuiamo a guardarlo perché qualcosa ci risucchia, ci seduce e fa sì che rimaniamo al suo interno. Molta musica contemporanea non mi seduce perché cerca di sorprendermi così tanto in trenta secondi che finisce per non farlo più e mi lascia con un blocco di tempo percepito come mezzoforte, senza alcun tipo di seduzione. Molti compositori dovrebbero prendere lezioni di teatro e drammaturgia prima di comporre, per capire come si svolge qualcosa che accade, come fai a far sì che qualcosa accada. Bisogna affascinare il pubblico prima di dire qualcosa e non si fa spalancando le tende e colpendolo in testa con una martellata. Lascio che il pubblico sia sedotto da quello a cui assiste. Questo è come funziona il teatro o come i film funzionano. Può accadere lentamente o rapidamente, ma deve sedurre. All’inizio di un film di James Bond tutto accade rapidamente, ma in maniera completamente seducente. I compositori dovrebbero prendere lezioni di drammaturgia: altrimenti come fai a capire come funziona avere un ascoltatore? Non è il mio piccolo videogame in cui mi diverto da solo. Quello può essere divertente per te, ma io da ascoltatore non mi diverto affatto perché ho bisogno di essere sedotto. È per questo che ti sto concedendo il mio tempo, tempo che sottraggo alla mia vita. Io sono sempre estremamente grato con gli ascoltatori che mi dànno il loro tempo per ascoltare la mia musica, sento quindi di volergli dare qualcosa in cambio, di volerli ricompensare, perché sono nella posizione di servirli, non di dargli una botta in testa, li voglio sedurre e portare in territori inesplorati.

Qual è il suo rapporto con le altre forme d’arte?

Le altre espressioni artistiche mi influenzano molto e più facilmente perché l’influenza avviene su un piano astratto e non c’è il rischio di fare delle copie. Sai, parliamo tutti della stessa cosa. Nei casi migliori quello che facciamo è mostrare la nostra visione sulla conditio humana. Riguarda solo come decidiamo di mostrarla, con quale espressione artistica, e la differenza poi è soltanto su un piano tecnico. Quindi, il massimo che possiamo fare, è parlare della vita. Non dico che troviamo delle risposte. Questo è quello che fa la religione: dare risposte. Ma l’arte non tenta di dare le risposte alla conditio humana; invece si interroga o dà l’opportunità di riflettere su quelle domande. Sì, direi che ogni prodotto artistico è una riflessione sulla conditio humana, non una risposta. Ci sono ottimi esempi di questo nella letteratura, nella pittura, nel teatro e posso trasferirlo in ciò che faccio, ma soltanto su un piano astratto, perché non sono né uno scrittore né un pittore. Grazie a queste riflessioni attraverso la spiritualità. D’altra parte, proprio perché non sono uno scrittore, ho capito già da molto tempo che scrivere è un’ottima cosa per esercitare la creatività, senza rischiare di intrappolarsi in meccanismi di critica. Uso molto questo sistema per iniziare le mie giornate da compositore. Trascorro un po’ di tempo a scrivere dei testi, alcuni direbbero un diario. Scrivo le mie esperienze, le mie sensazioni ed emozioni, e questo mi permette di iniziare la giornata con un flusso di idee che possono aprire il canale giusto alla creatività, un canale di cui ho bisogno per comporre. Questo avviene perché non mi attacco a quanto è tecnico, non concedo a nessuno di leggerlo — non è il mio lavoro —, e alcune volte penso sia più facile accendere la creatività in questo modo, perché così facendo non ho inibizioni, non devo provare a mostrare qualcosa perché non è per nessuno. Forse anche a uno scrittore sarebbe utile fare il processo inverso ed iniziare la sua giornata lavorativa impiegando un po’ di tempo a suonare uno strumento e, una volta che si accende la sua creatività, può sedersi a lavorare. Le arti visive mi affascinano quando ci sono cose spaziose come in James Turrell, perché mi dànno una stessa idea di quello che la mia musica racconta. O, ad esempio, Agnes Martin che dà un’idea di spazialità, ma quando ti avvicini vedi tutte quelle piccole linee fatte con le sue mani e in quello c’è qualcosa di così umano e fragile ed allo stesso tempo minimalista, perché è solo una cosa. Quindi mi sento vicino a queste cose, perché potrebbero connettersi direttamente alla musica, anche se poi io non lo faccio. È curioso il fatto che al contrario la musica contemporanea non influenza gli scrittori o i pittori contemporanei. E penso che sia una cosa molto triste e credo dipenda da noi compositori, perché scriviamo cose che non dialogano con loro. Ad esempio, il regista David Lynch non è interessato alla musica contemporanea, lui si interessa di rock ‘n roll. Lui è uno dei più eccitanti registi — o lo è stato. —, ma non ha idea di chi fosse Ligeti, a lui non interessa chi è Sciarrino, lui è interessato al rock ‘n roll. Penso che non ci sia connessione tra molti eccellenti artisti contemporanei e la musica contemporanea, perché non siamo assolutamente conosciuti né considerati. Secondo me pensare di esserlo è arrogante.

È un clavicembalo quello lì dietro?

Ah sì, l’ho acquistato lo scorso anno. Adoro questo strumento. Io suono Bach sul pianoforte, ma adoro farlo sul clavicembalo. Ho anche capito che molte cose sono decisamente più facili sul clavicembalo. Ad esempio, sul pianoforte sei sempre lì a chiederti quanto forte devi suonare, come funzionano i crescendo. tutto questo non c’è chiaramente sul clavicembalo e ciò lo rende in qualche modo rigoroso in un modo molto allettante per la mia estetica. Non potendo giocare con i crescendo e i decrescendo, la musica esiste a un livello più sublime. Suonarlo è una cosa molto intima e lo suono solo per me stesso.

Lo fa per diletto?

Più che per diletto direi che lo faccio per il mio sviluppo spirituale e psicologico. Inizio sempre le mie giornate suonando cinquanta o trenta minuti o un’ora di Bach, ogni giorno, poi scrivo dei testi e poi inizio a lavorare. Tutto questo processo può richiedere più o meno un’ora e può essere sul clavicembalo o sul piano. Questo è molto importante, a parte per lo sviluppo delle mie doti musicali, suonare quotidianamente è qualcosa che potrebbe essere paragonato — per qualcuno — allo yoga o allo sport. Devo assolutamente farlo, altrimenti non mi sento bene. Inoltre, se mi sento male, confuso, triste o stressato, venti minuti di Bach e tutto vola via. È meglio di un’aspirina. È la miglior aspirina. Può essere Bach, ma funziona anche con una lettura a prima vista. All’inizio, nelle prime battute, è difficile; magari inizio lentamente, ma poi mi dico: “lo puoi fare, non importa se c’è qualche errore, nessuno sta ascoltando”. Esercitare questa coordinazione tra vista e mani la trovo estremamente terapeutica.

La sua routine sembra quindi fondamentale per la sua produzione. Il suo studio in Colonia è molto confortevole. Riuscirebbe a comporre uscendo dai propri comforts?

Assolutamente no. Non posso lavorare. Nella mia vita sono stato fortunato a trovare dei luoghi dove potermi concentrare. Quando ero a Parigi avevo uno studio molto bello, a Roma ho avuto la fortuna di averne un altro altrettanto bello. Mi influenza molto l’ambiente che mi circonda, e anche se sembrerà estremamente superficiale, ho bisogno che sia molto piacevole e confortevole. Ho bisogno di colori piacevoli e di una buona luce. A Parigi, quando mi hanno dato la stanza per lo studio, ho speso quattro giorni a renderlo confortevole. Sono andato all’Ikea a comprare qualcosa di carino, sarà superficiale, ma ne ho davvero bisogno. Magari è una cosa che viene dalla mia famiglia. Mio fratello è un architetto, mio padre ridipinge gli edifici, magari è una cosa genetica. Lì non trovo tutte le risposte. Alcune volte, se ho un blocco, prendo la bicicletta e inizio a pedalare. E dopo un po’ arriva la soluzione che stavo cercando. Oppure la soluzione può arrivare mentre nuoto. In generale, lo spazio confortevole mi dà molto, ma non tutto; alcune volte ho bisogno di lasciarlo per trovare il resto. Le pause dal lavoro sono comunque il tempo più prezioso che ho per lavorare. L’unico modo per rigenerare il motore creativo è spegnerlo. Fare esperienza della vita, andare là fuori, incontrare gente, fare cose, leggere, stare lontano da solo, viaggiare, sono cose super importanti per svilupparsi e crescere. Alcune volte, quando sei lontano dal lavoro per un tempo consistente e improvvisamente ricominci, si riesce a sentire il motore che si riaccende e questa è una bellissima sensazione. Senti davvero che qualcosa di buono sta per accadere.

Lei ha vinto numerosi premi, tra cui il più recente, il Mario Merz Prize. Cosa rappresenta un premio nella vita di un artista?

Io penso che un premio non debba essere importante per un artista. Ci sono molti artisti e compositori alla ricerca di premi, li collezionano e li raccolgono in alcune liste perché pensano che questo li definisca. Per me un premio non significa assolutamente niente! Charles Ives disse: “i premi sono fatti per i ragazzi ed io sono già adulto”. Sono chiaramente grato per i premi che ho ricevuto, ma non li ricerco attivamente, non penso che questi ci rendano migliori o peggiori. È pura fortuna e non ha a che fare con qualcosa in particolare. In questo caso, la cosa bella è che il premio consiste in una commissione che quest’anno è stata per orchestra d’archi. Era pensata per essere senza direttore, ma sapevo che la mia musica non è fatta per non essere diretta, così ho chiesto di poterla dirigere. Anche se mi aspettavo un rifiuto alla mia richiesta, loro si sono dimostrati entusiasti e la mia proposta è stata accettata.

Il brano che debutterà è intitolato Credo, come sceglie i titoli delle sue opere?

Mi piacciono i titoli enigmatici e con molti significati. All’inizio erano molto aridi, tipo musica per pianoforte e sassofono. Questo proviene dalle arti visive — come ad esempio Dipinto numero 46 — o dalla catalogazione della musica classica — sinfonia numero sette —, ma questi non sono dei titoli, sono solo la descrizione di cosa sono. Ed è per questo che uso la dicitura “musica per orchestra” per dire cos’è. Ma poi ho iniziato a usare titoli per dire alcune cose enigmatiche, che siano descrittive su più livelli. Credo quindi indica ciò in cui credo, che siano i glissandi oppure il mio punto di vista stilistico. C’è un altro livello, che è quello religioso, cioè quello in cui credo spiritualmente, la mia riflessione sulla conditio humana, come ho già detto. Inoltre, c’è un fatto curioso: il titolo è un gioco di parole che rappresenta il lento svelarsi attraverso i glissandi della progressione di un accordo spettrale lungo l’intero brano: C (Do), re (Re, ma anche Mi nella notazione anglosassone e), do (Re). Il termine «Credo», inteso dalla prospettiva dell’ascoltatore: «io credo in ció che sto ascoltando» ha però anche una possibile referenza con il fenomeno dello Shepard tone, un particolare tipo di illusione acustica paragonabile all’illusione ottica della Scala Penrose (anche nota come scala infinita o scala impossibile) nel quale il sovrapporsi di glissandi separati da ottave, dà l’illusione di un’ascensione costante del pitch, ma nello stesso tempo la sensazione di non poter definire con assoluta certezza che cosa stia effettivamente salendo. Ció che io credo potrebbe dunque essere divergente da ció che è reale. Inoltre c’è un’ulteriore coincidenza tra l’espressione «io credo» e l’accordo spettrale di SOL, secondo alcuni sistemi di solfeggio: SO (come la nostra prima persona singolare del verbo sapere: «io so»). In ultima istanza «credo» puó rappresentare anche la personale visione dell’autore di una «professione di fede musicale» in cui egli si identifica come artista.

Ha qualche suggerimento per i giovani compositori?

I musicisti sono spesso criticati quando si ripetono. Quello che mi sentirei di dire è ripeti. Se credi in qualcosa fallo più è più volte, ripetutamente, per anni ed un giorno, e lo farai molto bene. Gli artisti dovrebbero ripetersi finche non lo fanno bene. Diresti ad Anton Bruckner di non ripetersi? Lui ha lavorato per tutta la vita su una sola cosa come una gloriosa e perfetta sinfonia unica. Diresti a Bach di non ripetersi?! Guarderesti un dipinto di Yves Klein e gli diresti non ripeterti o Mark Rothko? No! Mark Rothko per favore, è bellissimo e viene sempre meglio, ripetiti. Sarebbe una cosa malata da dire, probabilmente dettata dalla frustrazione e dall’invidia di non avere un’idea. Un giorno ripetendoti quello che fai sarà davvero buono.

Davide Umbrello

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